24 dicembre 2008

Come se ve li avessi fatti

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Parlavo con Juanin questa sera, con lui.
Una delle solite chiacchierate: come stai. Come ti va il lavoro. Come sei uscito dalla fine dell'anno. Come vedi il prossimo...
Poi parli di altro, ti racconti la vita, quel pezzo di vita che è passato dall'l'ultima volta che ti eri sentito. Poi allarghi la vista amplifichi e pensi più ampio, ti chiedi di tutto, domande senza risposta, sempre.
Bé stasera ci siamo chiesti: "Ma cosa pensa la gente?"

Di cosa?

Di tutto, qual'è il primo pensiero che vi passa per la testa leggendo queste poche righe, riuscite a lasciarcelo scritto, a me e Juanin, in un vostro commento breve, succinto e che non contenga auguri, di quelli ne abbiamo tutti bisogno, e quindi e come se ce li fossimo fatti.
A cosa serve? A vedere se avete risposte.

15 dicembre 2008

Come un ragno


C’è che una mattina ti svegli, fa freddo, c’è ghiaccio ed è grigio. Talmente grigio che non sai neanche dove possa essere finita la luce del sole. Così grigio che ti metti a pensare che magari si è fermata la terra e ha smesso di girare, proprio lì in quel grigiore che resterà per tutta la vita. Con quel freddo. Quel ghiaccio. E quelle ragnatele cristallizzate in una specie di zucchero filato.
E se penso a quel ragno che se ne starà rintanato in qualche buco del legno. Bé penso che c'è una certa analogia tre il ragno e me, che me ne sto seduto qui ad osservare il mondo da questo video. La gente che conosco perché l'ho toccata, guardata, ci ho parlato e condiviso il tempo, lo spazio di un luogo. Quella che non conosco, ma che conosco, perché l'ho trovata dentro a questo "mondo", oltre il cavo, lungo le dorsali, nella rete.

Li vedo muoversi veloci, i messaggi che appaiano in piccoli numeri rossi, io che leggo, e mentre leggo ne immagino i visi, le voci, li associo ai luoghi, li sposto lungo la mia mappa immaginaria del mondo, li ascolto raccontarmi la vita, la loro, chiedermi della mia. Ne immagino i pensieri oltre le parole scritte, gli stati d'animo, la felicità, la tristezza, il dolore, il piacere, la rabbia, la tranquillità. Tutto traspare e mi precipita addosso come il freddo che fuori non molla. Rispondo veloce, cerco chi non trovo da tempo, a volte troppo, per anche pensare, solo, di riapparire. Lascio che tutto passi oltre e dilaghi dalla rete, nella mia stanza, oltre di essa fuori della finestra, nell'altra rete. Verso quel ragno che si nasconde nel buco, che aspetta quel sole che oggi ha dato buca qui, ma che splende a Davos e a Doha, dicono gli amici.

E' così in questa stanza, in questo blog, sono come solo. Io scrivo, qualcuno legge, altri commentano, ma di là nell'altra stanza ci sono tutti. Un po' come quando inviti a pranzo degli amici, ti alzi presto, cucini, prepari, impiatti, servi, mesci, mangi (poco), ascolti, parli, gridi, ridi e poi. E poi ti alzi e vai nella tua stanza, da solo lontano dalla caciara, ti siedi sulla tua poltrona, i tuoi libri, il tuo sigaro. Basterà riaprire la porta e tornare di là dalla maestra, da mucca, dalla gentilesignorina, dal direttore, dal francotiratore, dal disegnatore e da tutti gli altri.

Ma ogni tanto mi piace ritornare qui, a riflettere nel silenzio di questa stanza, magari in un banale tentativo di far invidia agli amici sulla neve, che ti smessaggiano, cucinando un:

Rigatone con ragù di guancia e circerchia



L'idea della ricetta l'ho presa dalla maestra, che appunto sta di là adesso, magari per un po'.

Per quattro persone ho preso un guancia di manzo l'ho pulita della pelle e l'ho tagliata al coltello riducendola ad una sorta di quasi battuto. Ho preparato un soffritto con una cipolla, uno scalogno, due carote e un mezzo "cuore" di sedano. Ho soffritto in olio evo buono, ho fatto appassire e poi ho aggiunto la guancia rosolandola bene, bene, bene, insieme ad un rametto di rosmarino. Ho sfumato con un mezzo bicchiere di vino rosso (buono), ho lasciato evaporare e ho poi aggiunto quattro cucchiai di passata di pomodoro, salato, pepato . Ho fatto andare per un tre ore buone a fuoco bassissimo e coperto.
La cicerchia che per i non indigeni dell'entroterra marchigiano, è una specie di cece ma più schiacciato, va messa a bagno in acqua e una punta di bicarbonato 48 ore (!) prima dell'uso. Se non ve la siete dimenticate, nell'arco di due giorni può succedere, la lavate bene e la mettete a bollire in acqua, sale e odori (sedano, carota, cipolla e alloro) per un paio di ore. Mezz'ora prima di terminare la cottura del ragù aggiungete la cicerchia scolata. Lessate un bel rigatone Cocco o simile, scolatelo al dente e saltatelo in padella con il ragù, spolverate con parmigiano grattugiato e servite con un filo d'olio.

Saranno pure stati a Davos, ma questo non lo hanno mangiato di sicuro.

08 dicembre 2008

Pica


C'è un amico, quello che è il mio terzo fratello. Lui e la sua famiglia, hanno un amico: un ragazzo di una trentina di anni. Uno che per mestiere si è scelto un mestiere oggettivamente complicato al giorno d'oggi: il prete. Ci troviamo spesso per le strade del paese dove vive e "lavora" in umbria, quattro chiacchiere, un saluto, roba generale. Poi una sera a cena davanti ad una pizza, il mio amico butta là del blog. Questo blog.
Uno dei tanti sistemi pubblicitari che uso per farmi conoscere: il passaparola. Tecnicamente inefficace come un flight della uind che passa alle tre del mattino su sky con l'iva al venti, durante un cartone animato. Ma comunque uno strumento di comunicazione estremamente "cheap". Sta di fatto che nel mezzo della confusione del ristorante, io vedevo che il mio amico muoveva la bocca e, forse, spiegava al Gae (si chiama così) sta cosa del blog, forse. Ora è vero che la senilità si sta portando via la mia bella testa, quel poco di vista rimasta, e anche l'udito. Ma onestamente c'è da riconoscere che in buona parte dei nostri ristoranti il livello del rumore ha soglie, che in altri paesi farebbero chiudere il locale. Tutto nasce credo dai televisori che spesso si trovano nei locali "normali".
Il televisore è acceso quando si siede il primo tavolo, questi per farsi sentire parlano ad alta voce ma non troppo alta. Il cameriere che sta al bar e che non sente allora alza il volume, e il tavolo alza la voce. Poi arriva il secondo tavolo che se sono più di quattro allora devono urlare per farsi sentire tra di loro. Se loro urlano il cameriere alza la tv e il primo tavolo alza la voce. Il secondo tavolo che già non si sentiva prima, ora comincia ad urlare di più. Quando il volume del televisore è arrivato a fine corsa, entra il terzo tavolo, poi il quarto ... In pratica quando arrivo io c'è una tale caciara che seduto insieme agli amici è come se cenassi da solo.
Comunque mentre il mio amico muoveva la bocca, il Gae annuiva meravigliato, guardandomi ogni tanto. Io a quegli sguardi facevo una faccia di circostanza, qualcosa di neutro che potesse andare bene per tutto. Perché se per caso non gli raccontava del blog ma gli stava dicendo, che so, che la settimana prima avevo avuto l'influenza intestinale, cosa che era effettivamente accaduta, non era bello farsi vedere soddisfatti e compiaciuti per una cagarella. Quindi cercavo di rimanere piuttosto generalista. Ma quando lui ad un certo punto mi ha chiesto se sapevo fare i risotti allora ho capito che parlavano di blog. O meglio, ho avuto anche un'attimo di incertezza e di dubbio, che mia nonna diceva sempre che il riso "rinfresca e strigne" ma, tanto valeva ormai buttarsi. Io ho il risotto che scorre nelle vene.
Mi ha chiesto quindi qualcosa del blog, e io che delle domande capivo una metà scarsa, ho dato indicazioni generali e senza scendere in particolari. Ho finito la pizza di cui non ho sentito il sapore, perché con il rumore io i sapori non li sento, abbiam pagato e siamo usciti.
Fuori nel parcheggio prima di salutarci, li ho invitatìi a pranzo da noi. Poi ho buttato lì cinque domande, che sembravano casuali, ma che mi servivano a ricostruire i pezzi mancanti della discussione. Il Gae è nato nella bassa Lombarda, ma è vissuto sempre in Valtellina (Sertoli e Salis, Corte della Meridiana), adora i risotti che non sono piatti ne Umbri e poco Marchigiani (Risotto ai porcini), la famiglia ha qualcosa a che fare con la Val d'Intelvi (costine brasate con la polenta). Diciamo che mentre me ne tornavo verso casa mi mancava solo l'antipasto. Ma se inviti a pranzo uno della Valtellina che gli fai d'antipasto ? E certo, bravi ! Ma mica quella che trovi al supermercato. Ho chiamato la "maestra" (non ti arrabbiare ;)) e gli ho chiesto una ricetta, ne ho preso le linee generali, sulla falsa riga del mio carattere, che faccio sempre come me pare, e ho fatto la mia:

Bresaola e finnocchi con emulsione di arancio, taggiasche e pomodorini secchi



per la bresaola
Ho preso un filetto di manzo di un paio di chili abbondanti. L'ho rifilato lasciandone il nodino centrale e riducendolo ad un chilo e mezzo circa. Ho insaporito 250 gr di "sel de guérande" con tutti gli odori che ho trovato in giardino (salvia, rosmarino, timo serpillo, finocchio, timo limone, alloro, santoreggia), pepe macinato e in grani e macis. Ho messo metà del sale in un contenitore da plumecake vi ho adagiato il filetto e ricoperto con il resto del sale. Ho lasciato al freddo della cantina per trentasei ore. Dopo un giorno e mezzo, ho tolto la bresaola dal sale, l'ho lavata con un litro di verdicchio., l'ho asciugata, chiusa in carta paglia, legata e rimessa in cantina fredda, per due settimane.

per l'emulsione
una decina di olive taggiasche snocciolate, due pomodirini seccati in forno (un confit lungo), che ho tritati finemente, aggiunto il succo di un arancio e olio evo buono a piacere.

Ho servito con un paio di finocchi fatti a fette sottili come base, salati con un sale himalayano affumicato, e conditi con l'umulsione. Aggiunta la bresaola e insporita con olio evo, guarnito con polvere di buccia d'arancia seccata al micronde.



Oh ... gli è piaciuta. La colonna sonora non poteva che essere questa

04 dicembre 2008

Piacere Loste ...

Buonasera chi sta cercando ?

La signora mi ferma lungo le scale, mentre io rientro dal buttare i rifiuti, e lei esce con il suo cane. E’ la mia vicina la riconosco anche se lei non mi ha mai incrociato in un anno che vivo qui. Lo ammetto, so che è la mia dirimpettaia perché qualche sera ho osservato dallo spioncino del portone, quale fosse la causa della caciara che si sente. Una sorta di abbaio di cane, misto a grida di donna. Quando la signora, che mi sta di fronte, porta il cane fuori, questo si eccita e comincia a saltare e ad abbaiare. In questo caso io guadagnerei l’uscita volando lungo l’unica rampa di scale e uscendo dal palazzo. Invece no, la signora se la prende comoda e pretende prima di scendere le scale di zittire il cane, mentre quello continua ad abbaiare e saltarle intorno.

Cerca qualcuno?
Il tono della voce è un po’ spaventato. In effetti non devo avere un aspetto rassicurante, ma sono andato a buttare la mondezza alle nove di sera. Ci sta che uno sia vestito “da casa” no? Un paio di scarpe da trekking vecchie le quali ad ogni passo emettono un sinistro cigolio dalla suola. Una vecchia tuta ginnica, che mi ripeto di lavare da almeno un paio di settimane, con il cappuccio sollevato per il freddo, un gilè di gore-tex vecchissimo da cui non riesco a separarmi, la barba lunga ché me la faccio domani. Il cellulare e le chiavi nella mano destra che adesso, con la luce delle scale che si è spenta, forse sembrano tutto tranne che un cellulare e un mazzo di chiavi.

Signora sono il suo vicino ! Buonasera !
Il saluto lo grido all’ombra che correndo risale le scale e urla a qualcuno di venirla a salvare. Il cane è rimasto due gradini sopra di me ad abbaiarmi addosso. Credo che mi abbia riconosciuto, quando li osservavo dallo spioncino lui abbaiava, sempre, verso la mia porta. Penso che adesso chiameranno la polizia e che questa procederà ad accertamenti. Entreranno in casa, perquisiranno le stanze, urca le mutande e i calzini da lavare, sequestreranno il pc. Faccio mente locale di cosa possano trovare: siti porno, no; immagini hard, no; ci sono le foto di Spaccaball, prima di dimostrare che sia mio figlio potrei anche passare per un pedofilo. Ci sono mail con amici Svizzeri, ma prima di dimostrarne l’assoluta innocenza, potrei passare per un evasore. Ho i bilanci di un paio di società e quelli di tutti i loro competitors europei, potrei passare per una spia industriale. Ora che ci penso nella dispensa ho tre sacchetti di pepe di Sichuan riportato dalla Cina. Addio, uno spacciatore, un manager di giorno un pusher di notte.
Magari scappo, mi nascondo e rientro a casa domani mattina. Intanto un calcio a questo cane potrei anche mollarlo.

Sento che la signora, in mezzo a quelli che mi sembrano singhiozzi, sta spiegando a qualcuno che sulle scale c’è un terrorista, uno stupratore, un rapinatore, un bruto… Brutto ?! O bruto ?! Mah.
Qualcuno accende la luce delle scale, io sono sempre lì davanti al cane che non ha mai smesso di abbaiare, ma mi sono tolto il cappuccio. Si affaccia un signore con fare circospetto, riconosco il marito della signora, che saluto con un sorriso imbarazzato. Lui ha un espressione di sollievo e di meraviglia, ci incrociamo spesso per le scale e ogni tanto ci scambiamo i soliti commenti tra vicini: il tempo, il lavoro, come va?
Guarda il cane che continua ad abbaiare e gli molla un calcio che gli fa risalire tre gradini e lo spedisce fuori della mia vista. Mi tende la mano e mi saluta. Spiego che ero andato a buttare i rifiuti, e che forse ho spaventato la signora. La quale, in mezzo al pianerottolo, ora frena i singhiozzi e si profonde in scuse imbarazzatissime. Ci stringiamo la mano e ci presentiamo, il gesto ri-eccita il cane che si rimette ad abbaiare. Stavolta il calcio glielo molla lei. Un destro perfetto di collo pieno, sul sedere. Il cane ha una leggera parabola ad effetto, dall’alto verso il basso, mentre supera lo zerbino e si infila nella porta aperta. Un cucchiaio da manuale, alla Totti, che meriterebbe un giro di pianerottolo con il pollice in bocca, mentre io e il marito facciamo la ola davanti alla porta dell'ascensore. Ma non è il caso, l'imbarazzo persiste, allora saluto e rientro nel mio appartamento.
Chiudo e resto ad ascoltare. A luci spente sollevo il coperchio dello spioncino e guardo. La signora tenta di trascinare il cane al guinzaglio, fuori dell'appartamento. Questo non vuole saperne di uscire di casa, a fare pipì, te credo ! Mentre strozza la povera bestia, parla con il marito, o meglio bisbiglia. Il marito gesticola palesemente un " ... e che caz.. ma sei rinco...." la rimprovera sottovoce. Lei tenta una scusa, il cane nel frattempo sembra cianotico, sdraiato a terra emette un sibilo sfiatato. Ma riesco a sentire il bisbiglio di lei che dice “… ma come facevo a sapere che fosse lui. Non si vede mai, è sempre chiuso in casa!”

E pensare che sono anche su youtube !






01 dicembre 2008

Rimediare un rimedio

Il dolore che prima era forte, ora è insopportabile. Grossi lacrimoni mi scendono lungo le guance e vanno a bagnare i pantaloni del pigiama. Il caldo del camino, di fronte al quale sono seduto, ha peggiorato le cose. Le mani sono rosse e gonfie e mi dolgono talmente tanto, che non so più come metterle. Non riesco a far pena a nessuno, nessuno mi consola, mi hanno rinfilato il pigiama e mi hanno messo qui. Forse ho tirato troppo la corda.

Ho iniziato a piagnucolare verso le sette, appena sveglio. Giusto il tempo di accorgermi che fuori: l'orto, la strada, il giardino tutto era diventato bianco. I suoni ovattati, il fruscio della neve che cade. Ho iniziato una cantilena monotona e fastidiosa "voglio andare fuori, voglio andare fuori..." Mi hanno tenuto in casa con varie scuse, la colazione: lenta, la ricerca di vestiti adatti: introvabili, l'attesa che sbucasse un filo di sole: improbabile. Fuori è continuato a nevicare. Fiocchi piccoli e ghiacciati, che a volte folate di tramontana fanno scendere quasi orizzontali. Le stesse folate hanno creato delle onde che si formano quando il vento trova qualche ostacolo: muri, recinzioni, alberi. Rafne.
Alla fine hanno desistito anche loro: mia madre e mia zia, hanno abbandonato ogni tentativo di tenermi in casa e hanno iniziato a vestirmi. Un secondo paio di calzettoni color panna di lana spessa, che mia nonna ha fatto a mano, e in cui sono stati infilati con cura i pantaloni di velluto a coste grandi. Maglia, maglione e cappotto. Un ridicolo cappello stile coppola ma con i paraorecchie di lana, che nessuno oserebbe indossare, a meno fuori non nevichi. I guanti, anch'essi di lana, sono stati raddoppiati con un paio di guanti rosa di gomma che mia zia usa per lavare i piatti. Il tutto mi ha fatto sembrare abbastanza ridicolo, considerati anche gli stivali di gomma verde. Nessuno dei due miei fratelli mi ha seguito, hanno preferito restarsene in casa, i visi affacciati in due oblò ricavati dalla condensa dei vetri.

Di fuori il freddo ha morso subito in faccia, ma non ho desistito, nello spazio tra casa e orto, sotto lo sguardo del poco pubblico osservante, ho fatto finta di divertirmi. Ho tirato palle di neve ad un invisibile nemico. Ho corso sulla distesa immacolata di neve, lasciando il segno del mio passaggio. Ho abbozzato un pupazzo senza che le sembianze apparissero. Ho sentito il loro sguardo su di me, qualcosa del tipo: vediamo quanto resiste. C'ho provato, ho cercato di resistere più che potevo, nonostante la neve ghiacciata infilatasi negli stivali. Nonostante la neve ghiacciata infilatasi nei guanti. Ho resistito fino al primo richiamo di mia madre poi sono tornato in casa. Quando mi hanno spogliato ho cominciato a sentire quel dolore alle mani, come se migliaia di spilli mi si fossero infilati sulla punta delle dita, sotto le unghie. Il caldo del camino poi ha peggiorato le cose e ora ai lacrimoni, si sono sostituiti singhiozzi che mi scuotono le spalle. Ho incrociato sguardi di commiserazione, sguardi del tipo: ti sta bene. Ho nascosto il viso in quelle mani, vergognadomi di quel dolore che mi fa sembrare più piccolo dei miei fratelli.

Poi ho sentito la sua mano, una carezza leggera. Mi ha preso per un braccio attenta a non toccarmi le mani, mi ha trascinato in cucina. Mi ha portato verso il lavandino e mi ha messo le mani in una bacinella d'acqua tiepida. Il sollievo mi ha fatto ritornare il respiro, con il palmo di una mano ha asciugato le tracce dei lacrimoni sulla guancia. Mi guardato, e poi è tornata a trafficare alle mie spalle, intorno ai fornelli. Piano, piano, ho ricominciato a muovere le dita, a stringerle a pugno. Nel lavandino la bacinella dove immergo le mani, di fianco un'altra bacinella, dove galleggiano ceci ammollati e sotto un pezzo enorme di stoccafisso. I segni di questa vigilia sono tutti qui: i ceci, lo stoccafisso e le mie mani gelate.

Non credo che mia nonna avrebbe apprezzato una reinterpretazione di questo piatto, la vigilia è stata sempre zuppa di ceci e baccalà al forno. Metterli insieme ? Metterli insieme in:

Caramelle di baccalà con crema di ceci e ristretto di guancia



Per le caramelle:
se non volete utilizzare (e bagnare) uno stoccafisso, rimediate del baccalà. Ne servono circa 400 gr. per preparare diverse caramelle. Io l'ho cotto in forno con olio evo e aglio per una trentina di minuti a 140°. Poi ho portato a bollore un litro di latte, fatto a pezzi il baccalà e lasciato sobbollire per una quarantina di minuti. Scolatelo, spinatelo e poi passatelo al mixer, condite con sale se serve e mantecate con olio buono. Preparate la sfoglia e poi preparate le caramelle.

Per la crema di ceci
Ammollate 250 grammi di ceci per un giorno intero, cambiate l'acqua dopo dodici ore. Preparate un soffritto di olio evo, aglio e rosmarino, soffriggeteci i ceci e poi aggiungete l'acqua di ammollo. Salate e lasciate sobbollire finché non risulteranno cotti, un paio d'ore, ma qui il tempo dipende... Una volta cotti passateli al passaverdura allungate con il brodo fino ad ottenere una consistenza cremosa, correggete di sale e pepe.

Per il fondo
in una pentola versate un po' di olio e fate soffriggere una carota e uno scalogno a pezzi abbastanza grandi. Aggiungete la guancia tagliata a pezzetti, qualche punta di rosmarino, un cucchiaino di concentrato e lasciate rosolare bene, sfumate con del vino bianco e lasciate evaporare. Aggiungete dell'acqua e lasciate sobbollire per un tre ore. Filtrate il fondo, freddate e sgrassate. Riportate a bollore lasciandolo ridurre ad un terzo.

Lessate le caramelle, scolatele al dente e saltate in una padella con un cucchiaio di fondo, servite con la salsa di ceci e ancora fondo, guarnite con del rosmarino fritto.



Il fondo di guancia non è ammesso nella tradizione della vigilia... ma fate un po' voi.

23 novembre 2008

Un vecchio acufene

Il bosco odora di muffa, di legno bagnato. Mentre scendo verso il fondo del fosso, scivolo sul tappeto di foglie cadute. Le colline della mia terra sono questo, ondulate gobbe di campi arati, separati da fossi che come cicatrici tagliano il paesaggio. Nel fondo scorrono rogge d’acqua che dissetano giusto qualche pigro cinghiale, di sopra sui crinali passan le strade vicinali, bianche di terra che vola d'estate e si attacca d'inverno. 
Resto seduto in terra, ansimando a bocca spalancata, cercando di non farmi sentire. Le loro voci mi arrivano da più in basso con un’eco strano che le fa sembrare ora lontanissime ora vicinissime. Non mi hanno voluto con loro. 

Li ho pregati. Prima con quel minimo di distacco che l’orgoglio imponeva. Poi con qualche sorriso goffo, a togliere più il mio imbarazzo che il loro, che non c’era. Ho tentato con qualche battuta, poi con la promessa della mia totale invisibilità. Sono rimasto silenzioso correndo da uno all’altro di loro per farmi vedere disponibile. Sono andato a comprare le sigarette, ho portato un paio di birrette, per i ragazzi grandi, che fumano “N80” e bevono “peroncini” a canna. Troppo grandi per me.
Quando si sono avviati dietro le case del paese, verso quel bosco, dentro quel fosso. Ho trotterellato tenendo il loro passo e infilandomi forzatamente dentro la loro conversazione, che mi escludeva.
E’ stato il più grande di loro, mi ha preso per il maglione celeste che indosso, ha preso maglione, camicia e maglietta e mia tirato su, la sua faccia vicino la mia. Mi ha urlato con rabbia di levarmi dai coglioni, se non volevo che mi spaccasse la faccia. Il suo fiato puzzava di birra e di portacenere non svuotato. Quando mi ha rimesso giù, mi ha girato con una rapida spinta e mi ha mollato un calcio nel culo. Forte, netto, per farmi male.
Hanno riso sguaiati per il goffo ruzzolone che ho fatto cadendo. Fosse stato un cazzotto in faccia sarebbe stato più onorevole, magari anche con un filo di sangue dal labbro. Meno ridicolo di quei grossi lacrimoni che mi sono scesi, a causa del dolore fittissimo che mi ha fatto saltellare contorto.

Ora li sento che si stanno chiamando: li hanno trovati. Gridano sottovoce. Anche mio padre mi dice di fare sempre così: “Quando trovi dei funghi non gridare raccoglili e poi chiamami sottovoce”.
Noi però, siamo più da funghi di monte. La luce dei prati il vento che spazza i prati, in onde di verde, l'odore della santoreggia, il bianco candido del "turrino". Piuttosto che il buio di questo bosco, l'aria satura di umido e la puzza di muffa. Ma trovare una nuova fungaia, bosco o monte che sia, è sempre qualcosa di importante. Babbo ho travato un posto pieno di funghi, canestri e canestri di funghi, se vuoi ti ci porto. Vorrei tornare a casa così con una "notizia" importante.
Ora non li sento più, avanzo piano dentro la macchia di quercia spoglia, qualche ramo secco caduto, si spezza al mio passaggio, con un rumore secco e sordo, che rimbomba nel bosco. Sono quasi nel fondo del fosso, non c'è traccia di acqua e neanche dei ragazzi grandi che sto cercando. Poi succede qualcosa, un boato sordo mi rimbomba nella testa, una sensazione di freddo e poi di caldo mi prende la parte sinistra della faccia, scivolo a testa in giù fin dentro al letto secco del ruscello, e poi qualcuno si mette a fischiare; un fischio lunghissimo e doloroso. Mi fa male la faccia, la testa, e dall'orecchio sinistro non sento nulla se non questo fischio. Provo a rimettermi seduto, e ora mi accorgo che i ragazzi ci sono, sono tutti e tre lì intorno, non ridono come prima, mi guardano con facce preoccupate. Forse mi stanno dicendo di andarmene, ma non li sento: il fischio. Qualcosa di di caldo mi scorre lungo la nuca, giù per il collo, dentro la camicia. Mi sfrego la testa dove sento il dolore, ritraggo la mano sporca di sangue. Non mi spavento, mi sono già "rotto la testa" altre volte e l'unica cosa che penso, è che mia madre dovrà tagliarmi i capelli per mettermi un cerotto. Invece quelli spaventati sono loro, mi guardano preoccupati e con gli occhi allampanati. Tengono in mano le loro ceste, pieni di mazzi di funghi neri, dall'aspetto viscido, con sfumature giallo-marroni, brutti, forse velenosi penso. Io abituato al bianco dei turrini, ho scoperto un posto che non vale neanche la pena di esser raccontato. Chiodini si chiamano, mi dirà poi mio padre, ma non vale la pena di scapicollarsi nel bosco per loro. Figurati farsi prendere a schiaffi penso io, mentre mia madre mi taglia i capelli in un' areola francescana.

A questo ho pensato venerdì scorso quando in una frutteria sotto casa vendevano cassette di questi funghi, ma ho anche pensato che forse con un paio di carciofi, che se ne stavano lì vicino potevo fare una:

Tagliatella con chiodini, guanciale e crema di carciofi



Ho pulito i chiodini, lavati e poi sbollentati per 3 minuti in acqua aromatizzata di alloro, aglio e rosmarino. Li ho scolati e lasciati asciugare su di un panno di cotone. Ho preparato delle tagliatelle tirando la sfoglia a mano, giusto per non perdere l'allenamento. Ho pulito e stufato quattro carciofi tenendo da parte, i fondi, li ho prima rosolati in olio evo con uno spicchio di aglio, che ho poi eliminato (ma se piace lasciatelo). Quando i carciofi sono risultati ben cotti li ho passati al mixer, aggiungendo poi un poco di grana e un poco di latte fino ad ottenere una consistenza cremosa, ho tenuto la salsa da parte. All'ultimo momento ho rosolato del guanciale fatto a fiammifero, in una padella con poco olio evo, ho aggiunto i fondi dei carciofi e i chiodini saltando a fuoco vivo. Ho lessato le tagliatelle le ho scolate al dente, lasciando terminare la cottura e mantecando nella padella con i funghi. Ho servito accompagnando con la crema di carciofi.

18 novembre 2008

Vita da blogger... o quasi

Per niente facile darsi del blogger. Nel senso che ho smesso da sempre, di definirmi tale. Potrei quasi dire di non aver mai cominciato. Non fosse stato per quella volta che, alla domanda rivoltami da un, poco esperto di rete, circa le mie passioni, risposi con un convinto e sincero: “Ho un blog”. Mi ritrovai ad osservare il suo sguardo incuriosito e preoccupato mentre cercava l’evidenza di tanto male. Come se “il blog” potesse avere le sembianze di un angioma sbucante da sotto le vesti. Esame che terminò con lo sguardo posato in mezzo alle mie gambe. A poco valse la precisazione: sono un blogger. Se possibile peggiorò la situazione. Continuai: un food blogger. Il dramma fu quella leggera salivazione, data da un primo sorso di prosecco, di cui tenevo ancora il bicchiere in mano, senza accompagnarlo a sostanziale cibo, che mi fece pronunciare “food”, ma che si capì FUTT.
“Bé sai al giorno d'oggi non ci si fa più tanto caso a queste cose. Magari una volta ci si scandalizzava. Ma oggi si è un po’ più moderni. Scusa sai, ma adesso devo tornare di là.”
Da quella volta, quindi, non ne faccio più vanto con nessuno. E se qualcuno, aldifuori della rete, viene a sapere del mio blog, è solo perché sono altri a pubblicizzarlo. Sarà dunque stato questo incipit nella mia carriera di blogger, a rovinarmi sul nascere ma credo, di essere un blogger sui generis.
Innanzitutto bloggo in un mondo fatto, piacevolmente, da donne. I pochi maschietti presenti, sono tutti del settore: chef o giornalisti. Forse fuori dal coro siamo in due.. anzi tre. Poi mi mancano alcune specifiche tipiche del “blogger incallito”: non ho mai partecipato ad una cena tra blogger o peggio ancora, mai ad un bar-camp,o altri raduni simili, non saprei neanche se portarmi il pc o meno. Ho provato a twittare ma poi mi scordo di farlo. Ho un account su Facebook, enorme mangiatempo, ma fondamentalmente non mi si caga nessuno. Girovago, notte tempo, tra i “colleghi” di rete, ma raramente lascio commenti, ma la stessa cosa accadrebbe di persona, tendo a parlare pochissimo, almeno all'inizio. Non faccio i meme e non do premi, ma ringrazio quando mi vengono dati. No forse per l’ultimo premio non ho detto grazie, ma ero in Cina e il collegamento faceva pena: ringrazio ora. Non ho animali domestici, da fotografare, se si escludono un riccio e i rospi che ogni tanto popolano il giardino di casa. Non faccio niente di più se non il semplice pubblicare, per allargare la popolarità della colica, e si vede. Non parlo di politica, semplicemente perché andrei fuori tema, anche se farebbe tanta audience; ma di piatti mediocri è piene la rete. Non entro in polemiche pro-contatore e non lancio strami polemici ne pro, ne contro i vini bevuti al G20.
Cucino come ho sempre fatto, prima del blog, e come continuerò a fare dopo il blog. A volte fotografo quello che mangio, ci metto una storia e pubblico tutto. A volte nasce prima il piatto e poi la memoria ci lega una storia, a volte è il contrario. Quando non ho nulla da dire (scrivere): taccio. Quando cucino cose che non meritano di essere pubblicate: taccio.
Anche domenica è successa una cosa simile, c’era della guancia di vitello, ma mancava un po’ di ricotta per meglio amalgamarla in un tortello decente. C'era anche del Montasio mezzano e fin qui poteva anche starci, ma poi un crema di radicchio trevigiano ha spezzato un equilibrio già abbastanza precario. La composizione del piatto era ridicola, per non dire peggio, e dopo un paio di foto ho dato forfait. Lui se ne stava lì ad osservare la scena, affamato e acuto osservatore del mondo che lo circonda. E’ bastato dirgli: “mangia” e la bestemmia culinar-estetica è sparita in un amen.

Il mio piccolo "spazzino"





12 novembre 2008

Me lo avessi chiesto

Me lo avessi chiesto, che so, tipo una quarantina di anni fa , ti avrei detto non lo sapevo. Sapevo solo che verso la fine di giugno, quando le scuole ci lasciavano in vacanza, sbocciavano su tutti i davanzali del paese. Chi ne aveva uno solo grandissimo, chi molti piccoli. Fermavo le mie corse di bambino, per osservarne l'evoluzione. Bianchi di cristalli di zucchero se erano appena stati messi al sole. Sciropposi di liquido rosso quando era ora di portarli in cantina.
Se me lo chiedi ora ti dico, che non mi ricordo di un orto marchigiano, che non abbia una pianta di visciole. Dicono i vecchi che alla visciola non devi fargli nulla, non la devi potare, non devi trattarla, alla più brutta se la lasci maturare troppo ti si inverminisce. Le raccoglievamo rosse e croccanti, con la cura con cui tratteresti un neonato. Guai a schiacciarla, guai a romperla, guai a farne uscire il succo. Spesso l'irruenza del bambino veniva allontanata con un deciso "Lascia perde, che le rovini". Per poi rifare "le paci" con una manciata di visciole e un'arruffata di capelli.
Venivano lavate e lasciate asciugare: una distesa rubini sul bianco dei canovacci di cotone. Una cura che costringeva, a volte, la famiglia ad un pranzo frugale. Ché le visciole, temporanee inquiline del tavolo della cucina, non sono ancora asciutte. Poi il rito di riempire i barattoli di vetro, grandi, oggi introvabili. Strati di visciole e strati di zucchero. Che il sole, di luglio e di agosto, cuocevano per quaranta giorni, in cui una pioggia, o un temporale estivo, poteva rovinare tutto.
Guardavo quei barattoli passare di giorno in giorno, dal bianco zuccherino al rosso dello sciroppo. Bramavo il momento del giorno in cui venivano capovolti: una, due volte. E godevo nel vedere quel succo bagnare anche i frutti che più in alto restavano asciutti per gran parte del giorno.

Il tempo delle visciole, scandiva quello delle mie vacanze. Correvo per il paese con questa presenza continua esposta sui davanzali. Ma quando i barattoli cominciavano a sparire, destinati alle cantine, capivo che l'estate stava finendo, e con lei il tempo del gioco. Di lì a poco la scuola ci avrebbe radunati tutti in un'unica vociante piazza. Avrei rivisto quei barattoli, nelle brevi sortite in cantina, alla ricerca di qualcosa che serviva a mia madre. Non avrei capito, nel buio delle luci asfittiche, cosa stesse accadendo lì dentro. Avrei atteso la festa dei santi, per averne, centellinate come una medicina, poche sfere in una coppetta di vetro. Le avrei messe in bocca, eliminando l'osso, con pochi movimenti precisi. Ne avrei succhiato la consistenza sciropposa, e sarei rimasto deluso per quel velo di succo che il cucchiaino non sarebbe mai stato capace di raccogliere.
Me lo avessi chiesto, che so, tipo una quarantina di anni fa , ti avrei detto che questo era il solo modo di consumarle. Se me lo chiedi oggi ti dico che puoi anche farci una:

Crostata di confettura di visciole e salsa inglese allo sciroppo di visciole.




Per la frolla della crostata, sempre qui. L'ho stesa in una teglia, bucherellata e cosparsa di una confettura di visciole comperata a Cantiano, dove questo frutto è stato riscoperto. Ho coperto poi con un crema di ricotta: ho battutto due rossi d'uovo con due cucchiai di zucchero e ho incorporato 250gr di ricotta. Ho infornato a 180° per 40 minuti.
Per la salsa: 2 tuorli battuti con 50 gr di zucchero a cui vanno incorporati 125 gr di latte portato a bollore. Ho continuato a cuocere la salsa a bagnomaria finché non è diventa liscia e lucida. Ho poi aggiunto un quantità indefinita di sciroppo di visciole.



Se proprio non trovate le visciole, cosa abbastanza probabile a meno che non capitate qui a Cantiano. Potete sempre utilizzare le amarene, anche quelle più famose, e pazienza.


05 novembre 2008

La consapevolezza del dubbio

E’ onestamente un paese complesso quello in cui sono. Un paese che corre verso un futuro, senza la consapevolezza di esso. Un po’ come andare al cinema senza sapere il titolo del film. E’ un paese che non sente ragioni, che deve recuperare un tempo perduto, tra l’altro per colpa degli stessi che oggi hanno deciso di recuperarlo. Un paese che prima ha celebrato la sua “rivo luzione cultura le” e che ora si è inginocchiato davanti al grande buddha che è il denaro e il capitalismo. Un paese che, giustamente, non vuole essere da meno rispetto ai modelli di riferimento assoluti e occidentali. Un paese che corre ad una velocità inimmaginabile, dai nostri salotti illuminati di cazzate azzurrine. Corre verso un futuro che non sente ragioni che costruisce fabbriche dove prima c’erano allevamenti di pesce, una ferrovia che per centinaia e centinaia di chilometri attraverserà il paese sopra le città, i fiumi le genti. Un paese che le cronache raccontano intento a comperare terra in Africa per coltivare quello che qui non possono più, in un altro grande balzo in avanti, mondiale.
Un paese così vero, da sembrare finto.
Un paese che copia, rifà e vende. E così, mentre i “novichino” vestono gucci, prada, tods, gli altri fanno la stessa cosa, comprando i falsi al mercato di Mongkok. E allora il vero convive con il finto in un melangé impossibile da riconoscere. Son finte le scarpe, son finte le borse, ma è finta anche
l’acqua che ti fanno bere: distillata. E’ finta la frutta perché quello che riconosci visivamente non lo riesci a riconoscere al gusto. E’ finta l’aria, perché se fuori ci sono trenta gradi e il settantanove percento di umidità, in ogni albergo, ufficio e ristorante ce ne sono quindici di meno e ti si secca la gola. E’ talmente finto questo paese, che la carne Giapponese può costare duecentossesanta euro al chilo e trovare anche un florido mercato. E’ talmente finto questo paese, che lo spettacolo di maggior successo sono le luci scintillanti e bruciarisorse dei grattacieli dell’isola.
E’ finto per tutto ciò che di finto ci raccontano o che immaginiamo di questo paese.
Speriamo solo che rimanga vero il cibo e le cose che mangio, aldilà dei sapori.







Ah, i piatti sopra, chiaramente, sono assolutamente finti, fatti di silicone e dipinti a mano. Opere d’arte mi verrebbe da dire. Sono una sorta di menù visivo, che i fast food appena evoluti, espongono nelle loro vetrine, giusto per consentire di scegliere con maggiore consapevolezza.

03 novembre 2008

Kowloon italian restaurant (veri cul)

Just a corner pleasing to the eye

Per quello che c'è da magnà, va bè anche questo.



The "raw material" of excellence

Me sa che c'avemo da contetasse. E 'l parmegià? Si ho trovato, na cosa che iarsomia n'tantinello ma giusto appena


of course, the pasta couldn't come without a "melamina sottiletta" up to it

te pio 'ncorpo ma nè che ce famo male, no?!



The kitchen


ma jafamo a falla funzionà sta machina del diaolo ?!




Our special course and great mise en place

Oh ! A me no me se scioje sta sutiletta, possa piaje n'corpo !!
Sta zitto e magna !





"Altissimoceto" for Kowloon despairing restaurant

Che dici ?! Ma vammorì mazzato !




A parte i ristoranti italiani l'altro modo di farsi la pasta, per la pausa pranzo, credo sia solo questo.

30 ottobre 2008

Un' altra terra madre

Ma si che volevo esserci anche io ragazzi. Miseria avrei voluto vedere tutte le cose che avete raccontato, quei cibi belli, piacevoli e sconosciuti. Lo stand del sale e il suo omino, la cipolla che rimette al mondo, le gentile signorina che si aggirava sicuramente in loco. Girare stanco in mezzo al mare di gente, accaldato dalle luci degli stand, le borse piene di cose da provare, a volte anche inutili e modaiole. Sarei voluto essere lì con la mia canon Dqualcosa a scattare foto alla terra madre. Conoscere qualcuno di voi, deludervi con la mia banale presenza, anonima e timida. Lasciarvi l’impressione di me come argomento di chiacchiera.
E invece no, non c’ero.

Cercavo di tenere il passo ad un ometto che mi accompagnava dall’altra parte della strada per farmi vedere dove fosse il metrò, e prima che un taxi rosso e rincoglionito riuscisse a metter fine alla mia breve esistenza, correvo sul marciapiede fino all’angolo, dove lui urlante indicava oltre la strada fuori dalla portata della mia vista, qualcosa di red in un inglese stentato e sdentato.
Ho detto di sì solo per levarmelo di torno. L’ho salutato e fingendomi deciso e mi sono avviato, stanco, lungo il marciapiede. In mezzo ad un mare di gente che mi veniva incontro, accaldato nella serata afosa. Ho camminato in senso contrario per qualche minuto, finendo addosso a chiunque e infilandomi nel flusso regolare a forza di spallate. Ho camminato tra rivoli di acqua ghiacciata che cadevano dagli impianti di condizionamento, in alto oltre il buio di un cielo che non c'era. Ho camminato tra zaffate di puzze, profumi di fiori, tra le urla e le grida, incomprensibili. Ho camminato schivando le pubblicità dei massaggi, e perdendomi in quel caleidoscopio di luci e colori, stordito e dimentico di quelle che può essere il mondo.

E ho pensato che forse anche questo era un salone del gusto, un terra madre, dove la terra non c’è più, mangiata da cemento e macadam, una terra che forse sotto ai piedi, qui, non c'è mai stata.



27 ottobre 2008

Oltre la rete

Un paio di volte ho provato a partecipare a qualche barcamp, o ad un paio di cene di blogger marchigiani. Ma il destino ci ha sempre messo la sua mano: un influenza, un posto in lista d'attesa che tale è restato. Non sono mai riuscito ad incontrare coloro che leggo in rete. E ora, forse, non sono neanche tanto sicuro di volerli incontrare. Per ora mi piace immaginarli così: come i personaggi che escono dalle pagine di un libro, a cui la mia fantasia ha dato sembianze, movimenti, i volti sono spesso in video, e voce. Ecco la voce è l'elemento differenziante tra il conoscere qualcuno e il non conoscerlo.
E' per questo che a volte mi chiedo se leggere il blog di qualcuno ti fa veramente capire chi sia colui o colei che scrive ? Siamo in grado di immaginare, aldilà delle foto, con chi si ha a che fare? Basta un blog ? Cosa c'è oltre quel video, oltre la rete.
Di me per esempio in questo blog c'è scritto più di quanto si possa sapere conoscendomi di persona. Ma non è detto che l'immagine, mezza faccia l'ho messa, che ciascuno di voi, leggendo, si è creato corrisponda poi al vero. Chissà che idea avete de Loste !?

Con lei invece la cosa è nata scambiandoci qualche commento, poi qualche mail, confrontandoci su metodi di cottura su tipologie o marche di pasta, su "adesso ti mando un paio di cose da farti sentire" o " bé allora guarda io i pomodori li compro qui". Ma rimane quella strana sensazione di conoscere qualcuno senza averlo mai visto. Comunque quando tra le righe di un messaggio, ho trovato scritto "...mi piacerebbe fare un risotto con le quaglie." Ho pensato che io le quaglie non le avevo mai cucinate, e che forse non ero neanche così convinto. Ma siamo andati avanti mail dopo mail, idea dopo idea, io ci ho messo i finferli, lei la demi glace, insieme la cottura sotto vuoto, lei l'idea di presentazione, e poi ci siamo detti che lo avremmo fatto e che oggi lo avremmo pubblicato. Quindi ecco il mio

Risotto con ragù di quaglie e finferli



Ho disossato le quaglie, le carcasse sono finite in forno a tostare per a 200° per 30 minuti. Nel frattempo ho saltato i funghi (ne ho lasciati una manciata per il fondo) con olio e aglio. Ho tagliato a tocchetti grossi una carota una costa bianca di sedano e una cipolla piccola, le ho rosolate i poco olio evo a cui ho poi aggiunto le carcasse di quaglia, qualche foglia di salvia e la manciata di finferli tenuti da parte. Dopo qualche minuto ho sfumato con un passito, casualmente avevo un Vin Santo di Chianti, aggiunto acqua in proporzione doppia al contenuto, coperto e lasciato bollire per 3 ore. Alla fine ho passato il tutto e ridotto ad 1/3 fino ad ottenere una demi glace bella lucida.
Nel frattempo ho cotto i petti e alle cosce di quaglia, in sottovuoto, al vapore per circa 40 minuti. In mancanza del sottovuoto potete usare la pellicola in vari strati ben stretta.
Al momento di preparare il risotto ho rosolato una mezza cipolla tagliata sottilissima in poco olio evo, ho aggiunto 80 grammi per persona di riso Acquerello, tostato ben caldo e sfumato con il vin santo di prima. Ho tirato il risotto con un brodo fatto da 4 parti di acqua e una di demi glace. Nel frattempo ho rigenerato le quaglie in padella rosolandole con un filo di olio, ho aggiunto un paio di cucchiai di demi e un paio di brodo, ho lasciato sfumare poi ho spento e tenuto al caldo. Ho passato al mixer parte dei funghi che avevo ripassato in padella e un altro paio di cucchiai di demi, facendone una crema. Quando il riso era al dente ho spento, mantecato con la crema di funghi e i funghi interi rimasti , una noce di burro e un cucchiaio di parmigiano grattugiato. Ho servito scaloppando i petti e bagnando con la demi nei quali avevano rosolato.

Invece ecco il suo risotto, di grande livello come sempre.

23 ottobre 2008

Omaggi incomprensibili

"Ooh finammente facciamo la marmellata"
"Matti ! Fi-na-L-men-te..."
"... eh. Facciamo la marmellata"
"Matti si dice finalmente con la "L", fi-na-L-men-te"
"Si va bene, però facciamo la marmellata!"

Non ho mai capito perché nei supermercati di paese ci sono quattro casse, in una sorta di ostentazione di modernità, se poi ne tengono aperta solo una. E come adesso la massa consumistica del sabato mattina, si ammassa in questo unico imbuto vociante e cacofonico.

"No, non facciamo la marmellata, Matti, facciamo un'altra cosa"
"Ma con cosa la facciamo? Nonna ha fatto la marmellata quando la scuola non c'era !"
"Matti non facciamo la marmellata"
"Lei ci ha messo tutte le frutte che nonno gli ha comprato"
"Matti non facciamo la marmellata"
"Qualcuna la buttata via però !"
"Matti non facciamo la marmellata"

Una signora ha lasciato il suo cestino della spesa vicino alla cassa ed è sparita, ho una brutta sensazione

"Allora ci mettiamo dentro i pezzi di pesca, quelli grossi! Ma le pesche dove si comprano adesso ?"
"Matti non ci mettiamo le pesche!"
"Aaah ho capito allora ci metti quelle palline nere che si prendono lungo la strada ... !"
"..."
"Si ! Quelle palline nere che quando vai la sulla strada dove ci abita Gianluca le trovavi l'anno scorso!"
"Le more?!"
"Eh si la marmellata con le more!"
"Matti non facciamo la marmellata"

La signora riappare, lascia una bottiglia di latte nel suo cestino e poi riparte. Che brutta sensazione che ho !

"Ma allora che le prendiamo a fare le palline nere !?"
"..."
"...!"
"Matti ma chi ti ha detto che andiamo a prendere le palline nere, amore di papà ?!"
Ora ho il mio viso a livello del suo , girato verso di lui che sta alla mia sinistra, lo guardo dritto negli occhi, piegato in basso, il naso quasi a toccare il suo. Mi risollevo e ...

"Signora scusi ma lei dove stava? Non mi pare che fosse davanti a me, mi perdoni sa ma è un quartodora che sono in fila, abbia pazienza."
"Guardi che io ci avevo lasciato il cestino in fila !"
"Come il cestino signora? Guardi che i cestini non fanno le file, non pagano alla casse. Potrei capire un cappello ma un cestino, e no eh !!"
"Mamma mia che modi! Non c'è mica bisogno di alzare la voce se proprio vuole la lascio passare!"
"Ecco si, mi lasci passare grazie. Si che ho proprio fretta e che è meglio!"
"... e poi dobbiamo andare a fare le marmellate !"
"Matti non andiamo a fare le marmellate."

"Allora cosa ci fai con quei barattoli ?"

Insalata di mare tiepida omaggio ad Uliassi



Un piatto che potete mangiare da Uliassi qua vicino a Senigallia. Io ci ho messo un calamaro, una mazzancolla, uno scampo, un filetto di gallinella, qualche vongola, cozza, un piccola buccia di limone, un pomodorino piccadilly sbucciato e privato dei semi, poco sale, pepe e un filo di olio. Cuociono, i barattoli, a bagnomaria per una ventina di minuti e si aprono a tavola per goderne il profumo.

A Matti facevano "schifo". E gli è rimasta la marmellata nel gozzo.
Provvederemo, ma non subito.

20 ottobre 2008

Un paio di cose che mi mancano

Voglio il cielo plumbeo di ottobre. Voglio tornare in quella valle, fermarmi lungo la strada, riattraversare quel ponticello che da vent’anni consente di superare il fiumiciattolo. Voglio risedermi al mio posto, in fondo alla piccola sala, e come vent’anni fa aspettare che la signora venga a recitarmi la lista dei piatti.
Voglio il sole di giugno che si nasconde dietro al monte Strega, voglio il caldo del tardo pomeriggio. Voglio sedermi sui tavoli fuori, sentire il gorgogliare del ruscello, ordinare una birra ghiacciata e una crescia.
Voglio il freddo di gennaio. Come quel sei gennaio di quasi dieci anni fa, quando ci sedemmo a tavola per pranzo, e finito di mangiare restammo lì a raccontarci la vita, a giocare a briscola, ad aspettare la sera. Con la signora che ci portava le frittelle di patate e che ci chiese cosa volevamo per cena.
Voglio la pioggia sottile e fresca di dicembre. Voglio guardare lo specchio lucido dell'asfalto alla luce del lampione. Voglio infilarmi nel caldo della sala, sedermi vicino al camino. Appoggiare la sedia al muro in precario equilibrio, ascoltare le chiacchiere degli amici e lasciar decidere a loro.
Voglio le mattine fredde di aprile. Voglio veder salire dai boschi le volute di nebbia. Voglio passare davanti in bicicletta. Gridare dalla strada se mi tengono un tavolo per pranzo, a Stefano affacciato alla porta, sentirmi chiedere chi sono, gridare il mio nome e con la coda dell'occhio vedere il braccio che si alza, la mano a pugno e il pollice alzato.
Voglio i sabati di luglio quando arrivavamo per pranzo. Voglio l'ombra dei pioppi, il vino fresco di ghiacciaia. Voglio aspettare quel piatto di carbonara, dolce e croccante, sentire il vino che scioglie il palato dopo l'ultimo boccone, sazio e felice.
Voglio le sere di settembre. La cacofonia della tavolata di venti persone, la tranquilla spensieratezza dei nostri vent'anni. Voglio veder arrivare i vassoi di grigliata, sentire il profumo del sugo misto al limone, mangiare con le mani, e sentire lo schiocco delle dita succhiate. Il mugolio di soddisfazione di chi ci veniva per la prima volta.

Voglio i fagioli con le cotiche de Le Cafanne









Le Cafanne
via Fonte Avellana, 19
61040 Serra S.Abbondio (PU)
0721 730706
www.lecafanne.it

17 ottobre 2008

Quando te le vai a cercare

Accadde questa estate prima che un caro amico medico mettesse poi rimedio con il suo intervento. Grazie “Po” !.
Accadde dicevo che per cause del tutto inspiegabili il mio peso aumentò fino ad arrivare agli ottanta chili, etto più etto meno. Accadde che trovandomi in questa ridente cittadina decidessi di cercare tra gli indigeni uno che di mestiere facesse il dietologo, nutrizionista, alimentarista, uno, insomma che, mi facesse tornare un po’ di chili prima. Accadde che in una giornata di luglio finii nel suo studio un po’ démodé. Accadde che una gentile signorina, non quella eh, mi chiedesse di spogliarmi e dopo la pesata di rito vestito (!) e la presa di misura per altezza, mi chiedesse di spogliarmi e di sdraiarmi sul lettino. Fu dopo che una corrente elettrica ebbe attraversato il mio corpo da elettrodo ad elettrodo, e la stampante ebbe sputato fuori un paio di fogli di carta, che la signorina, di bianco vestita, mi disse che potevo rivestirmi. Ci tenne però a precisare, che giornalmente il mio organismo espelle per le vie urinarie circa tre litri di acqua e che quindi secondo i calcoli della famigerata macchina, io ingerisco la bellezza di due virgola qualcosa litri di acqua al giorno. Ebbi anche la soddisfazione, ci si attacca a tutto in certi casi, di sentirmi fare i complimenti, per così mia grande capacità di minzione. Non nascondo che ebbi anche la tentazione, nella speranza di ottenere maggiori complimenti, di far notare che i litri diventavano quasi una tonnellata se si proiettavano in un anno solare. Rinunciai più per pudore, pensando alla mia figura, nel suo immaginario, nell’atto di scaricare una tonnellata di liquidi.
Le cose cambiarono al cospetto dell’eminente dottoressa, che senza guardare il foglietto di carta che certificava il mio litraggio, se ne usci con un secco “Lei beve poco”. Capite che rimasi alquanto sorpreso nello scoprire che prima ero un soggetto da guinness e ora passavo ad essere un “… disidratato. Lei è disidratato.” Feci notare che la capienza del mio organismo, certificata dalla di Lei aiutante, era paragonabile, con il dovuto rispetto, ad un acquedotto comunale. L’anziana, e anche bassa, dottoressa ebbe un moto di diniego quando la invitai a verificare i dati che teneva in mano, lo fece con controvoglia e dopo un’accurata occhiata mi disse: “Lei è anche obeso". Un sovrappeso ci sarebbe anche stato ma l'obesità non me l'aspettavo. "Nella storia ereditaria della sua famiglia, ci sono casi di malattie cardiovascolari ?”. Ora chiedere ad un italiano medio se nella sua famiglia intesa come genitori, nonni, zii e fratelli, qualcuno soffre di cuore è come chiedere ad un beduino se vuole un sorso d'acqua. “Ecco vede, Lei è anche a rischio di infarto”. Ricordo vagamente di aver pensato, che onestamente sono a rischio anche di tante altre cose.
Si continuò con una mia attenta e dettagliata descrizione di una mia settimana alimentare tipo. E non nascondo che la mia sorpresa fu grande quando dopo aver inserito tutto nel suo computer 386, l'anziana dottoressa, osservando lo schermo con malcelata sorpresa se ne uscì con un: “Ma lei mangia … poco !”
La gioia che provai nell’immaginarmi seduto a strafogarmi di cibo, ma magro, di una magrezza impossibile, fu tale che indubbiamente trasparì dal mio volto in forma di flebile ammiccamento. Qualsiasi velleità di dimagrarire scomparve al suo immediato commento “Mangia poco, ma MALE !”.
Diciamo che me ne uscii triste e disperato con la prospettiva di un obeso che di lì a poco sarebbe morto di infarto, e se non fosse morto sarebbe dovuto tornare in quello studio a sentirsi rimproverare beceramente, della sua disidratazione.
Fu solo alla sera, davanti ad un piatto di prosciutto accompagnato da un pacchetto di cracker, che sfogliando i grafici che scrupolosamente mi erano stati stampati mi accorsi che, per il professionale studio medico, Loste era stato classificato come "Femmina", più bassa di cinque centimetri e con due chili in più del reale.

Per poco non mi prende un infarto !

13 ottobre 2008

Sarà stato solo per caso

Sarà che ogni mattina che usciamo sembra sempre freddo, e dopo averli tutti mandati verso le rispettive scuole, iniziamo a pensare alla spesa del fine settimana. Sarà che l'altro giorno non avevamo voglia di seguire gli schemi prefissati, che negli altri giorni, la vita ci impone. Sarà che non avevamo semplicemente voglia di metterci lì a pensare, e che uno di noi ha lanciato l'idea di andare a fare la spesa in un posto dove non siamo mai andati. Ti ricordi quando siamo passati a ... c'era un negozietto di frutta e verdura... sembrava carino. Sarà che per arrivare in un posto ci sono tante strade, e che di in certi giorni di prendere la più corta, proprio no. Sarà che a volte l'auto sembra scorrere più leggera di altre volte, così leggera che neanche sembra di guidarla. Sarà che a volte capita che la musica che ti esce dallo stereo, è in sintonia con l'aria che entra dal finestrino aperto, anche se è freddo, e che il sole che si intravede tra gli alberi basta a farti sentir caldo. Sarà stato per tutte queste cose o, sarà stato solo per caso, ma se devo dire perché ci siamo ritrovati davanti al vecchio mulino di Cabernardi io non lo saprei proprio.


E che se poi sei davanti ad un mulino ad ottobre, è naturale che pensi "polenta", anche se forse ci vorrebbero altri dieci, magari dodici gradi di temperatura in meno, ma visto che ci sei, giri e ti fermi.
Ed è vero sì, che tu mal sopporti i gatti, ma è anche vero che loro non sopportano te, ma visto che ci sei e che alla fine ci si può sempre sopportare a vicenda scendi e li guardi crogiolarsi ai primi raggi di sole.


E poi magari è vero che lì per lì, tu puoi apparire per uno un po' scorbutico e musone, ma in fondo in fondo, che ti costa rassicurare quella vecchina che il gatto che ha sulle braccia, a te non non sembra per niente cieco. Ed è vero si, che se invece guardi lei in viso, meglio negli occhi, forse è lei e non il gatto ... Ma magari adesso è quel raggio di sole sbucato da dietro le fronde degli alberi che fa qualche strano scherzo.


E magari sarà anche vero che i vecchi mulini son tanto belli e fanno tanto campagna, per chi vive sempre il caos delle città. Ma è anche vero che ad un paio di euro al chilo ai voglia a far passare acqua nelle "parate". E che se poi pensi di comprarla in un altro posto, allora pensi che di polenta non ne mangerai più, e magari chissà quando ti ricapita di farti una:

Polenta con polpo in guazzetto e olive taggiasche



Sarà che per una polenta tradizionale, era veramente troppo caldo, sarà che un sugo con un paio di polipetti alla fine non è neanche così complicato, basta far bollire i polpi, ben puliti, negli odori (carota, sedano, foglia di alloro) per un 45 minuti e lasciar freddare nella loro acqua. Mentre si sta lì ad aspettare si prepara un soffritto di aglio, dove si tuffano i polipi, si salano si pepano e li si lasciano prender colore, odorando con qualche ago di rosmarino, per poi sfumare con un mezzo bicchiere di vino. Una volta che che è ben evaporato si butta una certa quantità passata di pomodoro di quelle buone, che basti per la polenta, la si lascia sobbolire per un quindici minuti, correggendo di sale e aggiungendo le olive alla fine.
Sarà stata la fame, sarà stata la novità ma non mi pare sia avanzata molta polenta e poi se avanza, come dicono i vecchi, è più buona il giorno dopo che appena fatta.

08 ottobre 2008

Un lungo pensare

L’alba ha un velo di nebbia, quasi trasparente, una foschia che nel grigiore del mattino confonde la vista. Un respiro di vento la sposta, e la fa scorrere lungo il giardino come un’enorme quinta di palcoscenico. Osservo i suoi movimenti come se da un momento all’altro dovesse iniziare il prossimo atto, il resto dello spettacolo. Negli squarci, che ogni tanto si aprono nel vapore, oltre il fondale del palco, intravedo i profili delle colline di fronte. Sono stanco, di quella stanchezza da fine settimana, stanco di dover pensare che è di nuovo domenica, che di nuovo si riparte. Così stanco, di quelle stanchezze domenicali; mai provate? Magari tra poco piove e allora che esco a fare? E se non esco mica serve vestirsi, si può restare in tuta tutto il giorno, no?
Aspetto che quel il sole appaia oltre la finestra del bovindo. Si affaccia e allora gli scatto una foto


Poi lo guardo salire in una striscia di cielo sereno, che si staglia sopra alle colline di prima, ma dura poco, scompare, quasi subito, dietro ad uno spesso strato di nubi grigie. Pioverà. Resto in tuta. Di sopra non ci sono rumori, di fuori l'aria si prepara alla pioggia. Seduto su questo divano torno alla mia lettura. Il malessere di un lungo pensare mi aspetta tra le pagine del libro. Una storia che si dipana nell’immensità dei territori Canadesi di metà ottocento. Un’immensità lasciata solo immaginare, descritta a contorno di un percorso limitato dove i personaggi si muovono, abbandonando certezze e luoghi conosciuti,per andare incontro a dubbi e scoperte. La possibilità sfiorata di dare una dignità al popolo delle sei nazioni, e la testardaggine materna di restituire palesemente quella del figlio al cospetto di una comunità. Un intreccio piacevole che si dipana per quasi cinquecento pagine per ricondurre, nel finale, ognuno nel posto che il destino gli ha riservato. Nel libro una neve leggera comincia a cadere, coprendo le tracce di una fuga. Fuori del bovindo una pioggia leggera comincia a cadere, coprendo le tracce di un ritorno.

E' il caso di mettersi al lavoro, tra poco scenderanno e qualcuno mi aiuterà a preparare i:

Maccaroncini al sugo di anatra



Ho preparato, con il torchio, dei maccaroncini di grano duro e uova, strano vero? ma efficace garantisco. Per chi non fosse "torchiomunito" van bene anche dei garganelli all'uovo. Per quattro persone ho disossato e privato della pelle 1/4 di anatra. Ho battuto la carne al coltello, insieme alle interiora: cuore e durello (del fegato ne ho fatto un uso diverso). In una casseruola ho preparato un trito di cipolla, scalogno, sedano, e carota che ho fatto appassire in poco olio evo. Ho aggiunto la carne e l'ho fatta rosolare benissimo, ho salato e pepato e ho, poi, sfumato con una buona grappa, lasciato cuocere per circa mezz'ora coperto a fuoco bassissimo. Ho aggiunto due cucchiai di passata di pomodoro e ho lasciato andare per un'altra mezzora correggendo di sale. Ho lessato la pasta e l'ho fatta saltare in padella con il ragù mantecando con una piccola noce di burro.

Tra un prima e dopo fuori è continuato a piovere a tratti, con scrosci freschi e profumati. Tutti son rimasti in tuta, qualcuno, addirittura, in pigiama, ma ci sta, qualche volta ci sta.