23 dicembre 2010

Ooops: il pranzo di Natale che cucinerò (4)

Cose da fare prima di Natale:

ritirare la giacca dalla lavanderia;
portare la macchina a Davide;
passare a ritirare il pesce per la cena della vigilia;
preparare il polish per il pane del 25;
ritirare la pasta madre da Gloria (sarà la ventesima volta);
preparare le valige;
fare tutte le raccomandazione del caso a Leo che resta a casa da solo;
caricare i regali in auto;
ricordare a Leo che per prendere un treno occorrono i biglietti;
chiamare Davide e dirgli di venire a prendersi la macchina;
tirar fuori l’arrosto dal congelatore;
montare il cassone;
passare alla Tnt;
dire a Babbo Natale che usare i corrieri espressi sotto Natale è da pirla;
scaricare i regali dall’auto;
cuocere l'arrosto;
ricordarsi le valige prima di partire;
mettere i regali sotto l'albero sopra al biglietto con scritto "metti i regali qui ! Grazie!"
cuocere l'arrosto (che non è così scontato)
cuocere il pane (ancora di meno)
pubblicare il post del dolce del pranzo di Natale;
...
...

Il tiramisù alla Nora




Per 4 persone

Passate al setaccio 200 gr di ricotta vaccina buona. Montate a velo l’albume di tre uova, montate i tuorli delle 3 uova con 120 gr di zucchero, Una volta che i rossi saranno montati aggiungete 50 cl di panna fresca, cuocete a bagnomaria fino a raggiungere una temperatura di 70°, lasciate raffreddare.

In quattro coppe da spumante dolce, disponete un savoiardo ciascuna, …. Non intero ma fatto a pezzi ! Bagnatelo con una bagna composta da caffè amaro e rum di qualità. Spolverate i biscotti con del cioccolato grattugiato al 50%. Incorporate i tuorli raffreddati alla ricotta, con una frusta amalgamate bene in modo che non appaiano grumi, incorporate gli albumi montati con un movimento rotatorio dal basso verso l’alto per incorporare aria.

Versate il composto nelle coppe, cospargete metà della superficie con polvere di cacao amaro, e sopra di essa versate, poco prima di servire, una salsa di mirtilli tiepida che avrete preparato cuocendo una confezione di mirtilli freschi per 5 minuti in uno sciroppo di acqua (1 bicchiere) e zucchero (due cucchiai).

Prendere le chiavi di casa di Treviso.
Dire a Nora che la sua idea di usare la ricotta per il tiramisù è perfetta !


19 dicembre 2010

Passerà: il pranzo di Natale che cucinerò (3)

Passerà, lento come sta arrivando, anche questo Natale se ne andrà.
Mi lascerà qualche ruga in più sulla pelle dell’anima. Qualche ricordo che come fotografie non fatte, appenderò sul muro della memoria. Le vedrò sbiadire con il tempo, come la vernice fresca lavata dalla pioggia. Berrò tutti i singoli momenti, gli attimi cristallizzati di qualcosa che il tempo porterà via con l’età dei miei figli. Il Natale non è roba per grandi.

Guarderò l’adolescenza curiosare nei gesti dell’infanzia, i piccoli segni che solo i bambini sanno ancora curare: il calendario dell’avvento disegnato su un grande foglio bianco. I regali disposti in linea perfetta con le tavole del parquet del pavimento. Le palline color d’oro alternate con quelle rosse e poi con quelle argento.

Fuori nevica; che ne scenda tanta da non farmi ripartire, che ne scenda poca da farmi ritornare. Qualcuno si alza più presto del solito perché il tempo per stare insieme è prezioso come l’ultima razione di aria da respirare, di acqua da bere, di torta da mangiare. Ci viviamo così accoccolati negli angoli della vita, vestiti con calzetti pesanti, nel caldo di un camino che brucia i minuti, di un piumone che dilata le ore, fermi quasi immobili ad aspettare Babbi Natali bloccati dalle “avverse condizioni meteo” .

Ci infiliamo in cucina per colazioni che servono a far passare la fame d’amore più che quella di cibo. Ti aiuto perché almeno stiamo insieme, non cucino per poter giocare con te.

Mi sdraio a parlare in inglese della tua vita e dei tuoi amici, in un misto di ripetizoni, lezioni, "private lessons", che ci fa stare ancora insieme fino a cinque minuti prima che tu te ne vada a vivere la tua giovinezza, eio la mia stanchezza. Ci trasciniamo in normalità anormali finché arriva il buio della notte, che è come quello del pomeriggio, ma più buio.

Ti guardo mentre ti stendi nel letto, il pigiama infilato a rovescio, che “così non ti mordono i cani” baci della buonanotte scambiati. Ti ascolto mentre ascolti l’ultimo pezzo di musica. Ti accarezzo i capelli folti nel risveglio della notte, ti abbraccio nel sussurro ricorrente, finché non ti sentirò rispondere nel sonno: "Anche io papà".

Passerà e se ne andrà lento come è arrivato questo Natale

Il Cappone alle prugne


Disossate o fatevi disossare un cappone dal vostro macellaio.
Preparate circa 1 chilo di carne mista (lonza di maiale e manzo), macinata finemente, conditela con sale , pepe e noce moscata, aggiungete 100 gr di parmigiano grattugiato e due uova. Amalgamate molto bene e poi aggiungete 50 gr di uvetta che avrete lasciato rinvenire in mezzo bicchiere di marsala buono. Salate l’interno del cappone disponete il ripieno allargandolo per la larghezza del cappone, aggiungete una fila di prugne secche, chiudete e legate con uno spago o usate una rete.


Riscaldate il forno a 200°. In una teglia mettete poco olio evo e adagiate il cappone, infornate per 15 minuti, poi girate il cappone e fate andare per altri 15 minuti. Sfumate con un vino bianco secco coprite con carta alluminio, abbassate il forno a 180° e fate andare per almeno un’altra ora e mezza. Se usate un termometro fate arrivare la temperatura interna almeno a 90°.Tenete l’arrosto umido durante la cottura aiutandovi con del brodo se occorre. Servite con patate e topinambur saltate in padella.

15 dicembre 2010

Il profumo buono: il pranzo di Natale che cucinerò (2)



La stanza è più alta che larga, ingombra di libri fino al soffitto, dallo sportello sotto la scrivania, incassata, incastrata, nella libreria, sbuca, con un sistema di cui il falegname che lo ha costruito va ancora fiero, un semplice ripiano scorrevole, su di esso un giradischi omaggio di “Selezioni dal Reader’s Digest”. E’ grigio, monumentale, grosso e tondeggiante, le casse sbucano tra i libri, con i fili che scorrono nascosti. Vietato toccare. Non è scritto, ma si sa. Causa anche il rivestimento di finta pelle attira le mani di noi bambini, come solo la curiosità infantile sa fare.
La collezione delle “FIABE SONORE” fa bella mostra nell’angolo sinistro di questa libreria. Ne scegli una apri il libro sfili il disco dalla terza di copertina, lo pulisci con al pezzetta rossa, seguendo i solchi stampati nel vinile, come ti hanno insegnato., adagio pianissimo anche se quel pelucchio non molla. lo tiene a mani aperte per il bordo che neanche fosse un piatto pieno da portare.

"A mille ce n'è
nel mio cuore di fiabe da narrar (da narrar).
Venite con me
nel mio mondo fatato per sognar…(per sognar)... "


La stanza è più alta che larga, satura del profumo di mia nonna. Seduta alla sua poltrona scruta il biancore della neve caduta, guarda il cielo che pesante si libra tra l’orto e il campanile del paese. Il vento che trascina la neve in mucchi ondeggianti, dalle creste taglienti, rafne di neve più alte di me. L’ascolto raccontare del nevone del cinquantasei, i camminamenti che nascondono case e persone, il freddo terribile di quel febbraio. I Natali si rincorrono nella loro normalità, le donne di casa vestite a festa con sopra i grembiuli di cucina, il profumo, leggero, di naftalina dai vestiti della festa, mio padre con la cravatta corta e il nodo enorme, le scarpe nuove e il vestito buono, il panettone sul mobile della sala, il croccante di mia zia, la bottiglia di spumante, rosso per modernità, il giradischi che suona le fiabe.

"… che bello se accettasse di divenir mia sposa.
Mi metterò a far la guardia a questa tabacchiera…
La ballerina sospirava sempre reggendosi in equilibrio sulla punta della scarpetta da ballo…”


La fiaba continua imperterrita, mio fratello ne segue la storia con il dito sul libro, la neve ha cominciato ad aggrapparsi ai vetri della finestra, si attacca inesorabile, asciutta, secca e ghiacciata come dice mia nonna, troppa per farci andare a messa. In sala si apparecchia, la tovaglia di lino ricamato, dote di nozze di mia zia vedova, il servizio buono e il televisore acceso, perché si ci sarà la neve ma la messa del giorno di Natale tocca sentirla per forza.

La stanza è più alta che larga, ora profuma di cucina: di arrosto e di brodo caldo, il brodo buono quello per i :

Cappelletti di Natale


Per il ripieno dei cappelletti:
400 gr di polpa di manzo che taglierete a pezzetti e rosolerete, con 2 cucchiai di olio e 50 gr. Burro, lasciate rosolare bene, per una ventina di minuti a fuoco vivo. Poi salate e pepate, sfumate con mezzo bicchiere di vino bianco e una spruzzata di grappa. Coprite e lasciate cuocere a fuoco lento finché non si asciuga il liquido. Lasciate rafreddare, aggiungete 200 gr di mortadella e 200 gr di prosciutto crudo. Passate tutto al frullatore fino ad ottenere un composto quasi omogeneizzato. Trasferite in una “ball” aggiungete due uova intere, 50 gr di parmigiano reggiano grattugiato, una generosa grattata di noce moscata (generosa !) e la buccia di un intero limone grattugiato. Correggete di sale se occorre.

Cuocete in un brodo di carne di manzo e gallina, o tacchina come viole la tradizione, se potete chairificatelo come da istruzioni qui, altrimenti è buono lo stesso

08 dicembre 2010

Il pranzo di Natale che cucinerò (1)

Ecco ci risiamo. Nonostante tutte le contro misure che erano state messe in campo, non ci siamo riusciti neanche quest’anno. E si che l’avevamo studiata bene; basso profilo, nessuna pubblicità, niente segni premonitori, nessun accenno, mai pronunciato il suo nome. E nonostante tutto questo, è tornato il Natale.

Che poi a noi, a me, e a quelli come me, non è che si abbia qualcosa contro il Natale. Ma non scherziamo ! E’ vero che noi, quelli nati con il sei come terza cifra dell’anno, noi, siamo sempre stati i figli della befana. Il Natale si, ma Babbo Natale, a noi ci è arrivato in casa con i nostri i figli, con le loro scuole. Arrivato Babbo Natale, sfrattata la Befana, relegata ad una calzetta di dolcetti che nessuno mangia. Ma che ne sanno oggi dei giochi che portava la Befana negli anni ’60. Certi mangiadischi 45 giri a molla che infilavi partiva e poi schiacciavi il bottone che risputava fuori il disco. Da dove pensi che sia nato il sistema “shuffle” della iPod. Quando il pulsante non funzionava sbattevi il mangiadischi contro tutti i muri di casa finché non si decideva a sputare quel pezzo di vinile.

Comunque ecco, nonostante il basso profilo che ci eravamo impegnati a tenere il Natale è tornato. Non che avremmo avuto qualche sparuta speranza di non farlo tornare. Mica ci si può mettere contro il tempo. No, è che quest’anno speravamo di evitare il rumore, il frastuono di sempre. E si perché non ne possiamo più della solita sequela di stron@ate che si accavallano tra televisione, radio e giornali.
Basta con il solito servizio dalla grande mela per intervistare connazionali che fanno lo shopping tra le quinta e park .
Basta con i servizi su quanti regali in meno faremo a testa.
Basta con i servizi su quanto durerà la tredicesima.
Basta con i servizi sugli euro in meno che spenderemo, per i regali, per il cenone, per le vacanze.
Basta su tutti i servizi sui regali in genere.
Basta con le interviste ai bambini per chiedergli cosa hanno chiesto a babbo natale.
Basta con i servizi su cosa mangeremo per il pranzo di natale e poi per il cenone, con il solito alimentarista che spiega come ci dovremmo nutrire, le calorie delle lenticchie, il ferro, il rame e tutti i metalli pesanti.
Basta poi con i servizi sulle dieta post cenone, con l’ alimentarista che mi rispiega che non dovevo mangiare, ma tanto ormai ho magnato, e che ora mi spiega che adesso devo mangiare tanta frutta.
Basta con i servizi sui posti dove andranno in vacanza gli italiani.
Basta anche sui servizi degli italiani che rimangono in città.
Basta con i cinepanettoni, e con i loro trailer che durano quanto il film, chiudete i cinema e riapriteli a febbraio.
Basta con i discorsi a reti unificate, che finché erano due le reti, via, via, ma adesso.
Basta con i servizi sui vip che vanno a Cortina, a Cortina ci vanno solo loro.

Basta dai… questo Natale fate i bravi risparmiateci tutti i vostri soliti cilici del Natale. Fateci un regalo grande, diteci solo Buon Natale, il giorno che ci metteremo a tavola con la famiglia e infiliremo le forchette ne:

L’antipasto: strudel di carciofi e radicchio, con crema di zucca all’asiago e sale nero.


Per 4 persone

Per la pasta dello strudel:Impastate 250 gr di farina, con 100 gr. di burro, 50 ml di H2O ghiacciata e un uovo, aggiungete un pizzico di sale e poi fate riposare in frigo per un paio d'ore.

Stendete la pasta e riempitela con due carciofi che avrete scottato in una casseruola a fuoco lento per una decina di minuti profumandoli con aglio e prezzemolo, aggiungete due cespi di radicchio trevigiano, diviso in due, anche questo scottato in padella, 2 minuti per parte. Da ultimo aggiungete dell'Asiago allevo semistagionato (3 mesi) in mancanza di questo va bene anche l'Asiago fresco. Chiudete la pasta in forma di strudel spennellatela di rosso d'uovo e infornate a 200° per 30/40 minuti o finché lo strudel non risulterà bello dorato.

Per la crema:In una casseruola mettete 300 gr di polpa di zucca mantovana, con 200 gr di latte intero e 100 gr di panna fresca. Lasciate sobbolire per una ventina di minuti, a fuoco basso, finchè la zucca sarà disfatta. Passate al frullatore ad immersione,giusto un paio di colpi. Rimettete sul fuoco aggiungete 100 gr di Asiago allevo grattugiato, fate sciogliere. Mettete il preparato nel sifone e caricate con due cariche di gas. Servite caldo con lo strudel cospargendo la crema con sale nero hawaiano.



Se vi capita qualche servizio "originale" segnalatemelo pure

28 novembre 2010

Un momento soltanto


Se non qui, se non ora. Se potessi scegliere per un momento, un momento soltanto, non troppo, il minimo per non farmi pentire. Ecco se potessi. Ora vorrei tornare a guardare un sole al tramonto. Mentre si spegne tra il mare e le colline di questa terra.

Se potessi per un solo momento, attraverserei la strada, passerei tra gli ombrelloni ormai chiusi. I passi pesanti sulla ghiaia della spiaggia: “i ssasi”. Arriverei fino alla battigia, là dove si confonde con la linea di scogli. Vicino alla torretta del bagnino, lì, proprio lì, quasi sotto. Mi siederei sul lettino chiuso. Il tramonto alle spalle, il vento che strappa le lacrime agli occhi, le onde. Le onde più sotto che si rincorrono fin contro gli scogli, i loro spruzzi salati, nel tepore di un giorno che muore, nel fresco di una sera che arriva.
Mi perderei tra il rimbombo del mare e il frastuono del vento. Sotto un cielo terso che passa dal rosso, all’arancio fino all’azzurro più evanescente.

Giocherei con i sassi: prima piccoli lanci, timidi tuffi che non lasciano traccia. Poi sempre più grandi, più lontani, in cerca di consapevolezza. Ci giocheresti con me ?
No, non a far la rana. Ché oggi le onde ingoiano sassi, come le rane le mosche. No, solo a lanciarli lontano, un tiro via l’altro, finché il braccio non ti comincerà a dolere, lì dove s’attacca alla spalla. Un tiro via l’altro, a prender la mira nel mare. Il punto dove cade, portato a riva dall’onda. Calcolare la velocità del mare e il tempo dal lancio. Più lontano il mio ! Ma forse il tuo !


Prender la mira con la punta di Ancona, lì tra San Ciriaco e la piattaforma dell’Api. La vedi c’è una nave che aspetta, dritta al mio sasso. Resta immobile nonostante queste onde, che ci fan galleggiare nella sera che arriva. Il sole adesso si è infilato tra le finestre del ristorantino vicino. Gli ruba i colori, e ci porta solo il grigio della sua sagoma indistinta. Lo attraversa come un fuoco che brilla, e strappa le ombre di una coppia che mangia seduta ad un tavolino. Le porta fin qui, quasi vicine al “moscone”.
Lo vedi? Ora fanno un brindisi, lui solleva il bicchiere, lei lo imita, poi pian, piano le ombre si toccano, si confondono, si piegano a baciare il grigio turbinio delle onde e poi tutto si perde, nella bianca spuma del mare.

Il rosso si è spento in un blu pesante come un drappo di velluto. Non c’è più la coppia seduta al tavolino, con il loro brindisi. Il ristorantino è poco più di un ombra. E i sassi, non vedi più dove vanno a cadere. La nave ha acceso le luci, sempre ferma tra la piattaforma e le luccichio del porto. E anche Ancona, adesso, sembra ormeggiata al colle del Guasco, mentre più in là il braccio del faro spazza il cielo il sopra il mare.

Se non qui, se non ora. Se potessi scegliere per un momento, un momento soltanto, non troppo, il minimo per non farmi pentire. Ecco se potessi, ora vorrei tornare su quella spiaggia, a tirar sassi alle navi.

Le cannocchie con gli spaghetti


Cannocchie, pannocchie, cannocce, cicale, sparnocchie.
Chiamatele come vi pare, compratele ancora vive. Pulitele eliminando le zampe e tagliando il bordo del carapace con una forbice, poi apritele delicatamente estraendo la polpa. Mettete a bollire l'acqua salatela e poi lessateci uno spaghetto che abbia consistenza e ruvidezza (un Ma' Kaira alla chitarra è consigliato).


Mentre lo spaghetto si lessa, fate rosolare in poco olio evo uno spicchio di aglio e qualche zesta di buccia di limone. Quando l'aglio comincia a rosolare eliminatelo. Un attimo prima di cavare la pasta al dente mettete le cannocchie sul fuoco, e fatele saltare a fuoco vivo, scolate la pasta e saltatela con le cannocchie, spruzzate con una manciata di prezzemolo tritato e ancora olio a crudo. Impiattate e mangiate, fintanto che non comincia dolervi il braccio lì dove si attacca alla spalla.


Se vuoi veder meglio clicca sulla foto

16 novembre 2010

Minchia !

Buio. Luci. Buio. Visi.
La testa appoggiata al vetro del finestrino. Il riflesso del mio viso che si confonde con quello della gente sulla banchina in attesa, mentre il treno frena, rallenta, e io sfilo davanti a quelle facce distratte. Le porte si allineano, quasi per magia, con quelle della stazione. La voce femminile, ha annunciato il nome della fermata, prima in cinese e poi in inglese, qualcosa tipo "sailcatzoche". L'aria compressa apre le porte. Escono in pochi, salgono in molti. Valige trascinate a forza, sbattono, si incrociano. Valigie da emigrazione. Valige da vacanza. Valigie da viaggio breve. Piccola valigia da due notti. Business luggage, in tacchi a spillo, coordinato trolley ventiquattrore piquadro, in misto pelle di vitellino tirato a lucido, regalo dell'ultimo natale. Si parcheggia accanto al mio trolley: puro pvc color celestino stile "celosoloioelaritrovosubitoallariconsegnabagagli" graffiato, e non griffato, da una mezza vita di giri attorno al mondo. Il set piquadro di pelle tirata a lucido, si scosta leggermente schifato dall' insulsa presenza. Il mio trolley celestino, plastica dozzinale, maniglie consunte, affonda le mani in tasca, e si appoggia al tubo di alluminio in precario equilibrio, mentre il treno riparte dalla stazione "sailcatzoche". Occhiali scuri calati nel buio di questa metro, che corre verso l'aeroporto, stile “bimba non sai con chi hai a che fare”. Armeggia con le rotelle nel tentativo di girarsi verso il coordinato piquadro, mentre il treno, si tuffa veloce in una curva a sinistra, sbuca dalla terra e comincia a correre in mezzo ai palazzi di Lai Chi Kok. La valigia celestina perde l’equilibrio, tenta invano di agganciarsi da qualche parte, ma se tieni le mani in tasca, egli occhiali da sole … con una figura di merda, che “te la raccomando” finisce a terra, pesante come un ubriaco sovrappeso, che sbatte nell’ordine: naso, bocca e denti. Mi alzo e la vado a risollevare per punizione la piazzo faccia al muro, lontana dal coordinato di vitellino piquadro, se sa mai dovessimo pure far danni. Gli assesto una zampata, in quello che dovrebbe essere il suo culo, che la piazza in linea perfetta con la parete del treno.

Torno al mio posto ora occupato da una coppia che mi osserva felice, sguardo ebete idiota stile: “che ci stava seduto lei qui ?”. Mi seggo dall’altra parte del corridoio, al loro fianco, unica possibilità. La coppia continua ad osservarmi, si scambiano sorrisini e battute, che non sento a causa di Zaz che mi canta nelle cuffie. Ma con la coda dell’occhio vedo i loro movimenti, tra il curioso e l’agitato. Il visetto di lei, seduta vicino al finestrino, che si affaccia sulla spalla di lui. Lui ha un’aria da “tranquilla è tutto sotto controllo”. Marsupio, telefono alla cintura, la stampa dei biglietti del volo nel taschino della camicia, insieme alla penna parker. Lei a l’aria tipo “scusa ma dove siamo”, magliettina Kelvinclain, jeans strappati al ginocchio destro e alla coscia sinistra, nike penultima moda e zainetto… Invicta ! Potrei vincere la lotteria nel riconoscere noi italiani dallo zainetto invicta in giro per il mondo. La bocca di lui si muove, guarda verso di me. Lo guardo. Zaz canta: “Moi aussi j'ai une fée chez moi ….”. Non sento. Lui aspetta una risposta di una presumibile domanda che mi ha fatto e che io non ho sentito, lei di più. Sfilo le cuffie. Questa me la paghi !
“Sorry !?” Mi mastico la prima erre e sputo la seconda con indifferenza. Ora hanno qualche dubbio di più. Non ho mica lo zainetto invicta, eppure sembrava italiano, ma non ha mandato a cagare la valigia in italiano quando l’ha presa a calci ? Boh chissà. Intanto non mollo lo sguardo mentre loro si stanno consultando, e lei diventa tutta rossa: mamma mia che figura.
“Aiutino da casa ?!” Faccio con l’espressione più indifferente che riesco a sparar fuori. Neanche le labbra muovo.
“Aah ma allora è italianoooo !!!”
Perspicace ! Un fulmine ! Quasi avanti direi !
“Tse… Siculo sono ! Di Corleone! “ Rimetto le cuffiette. La “r” di Corleone non si è quasi sentita, strisciata molto meglio di quella del “sorry” di prima. Rimetto Zaz dall’inizio. Minchia siciliano vero sembravo. Mancava solo un bel piatto di … Merdé avercelo adesso un piatto di caponata come dio comanda. Ecco ora mi si pianta anche la voglia. Questa te la farei proprio pagare, tutto il viaggio di rientro con la voglia di caponata. Te la farei proprio pagare se potessi.

Una caponata


Io la faccio così: pulisco e taglio a cubetti 1 kg di melanzane, le lascio perdere la loro acqua per una ventina di minuti salandole appena. Nel frattempo pulisco e taglio a julienne 500 gr di cuori di sedano che poi lascio appassire in padella con olio evo senza farli soffriggere. Metto da parte e poi nella stessa padella faccio sudare in olio evo due cipolle affettate, una volta che sono appassite aggiungo una manciata di capperi dissalati e altrettanto di pinoli, per i puristi direi 60 gr ciascuno, aggiungo poi una quantità di olive verdi (ascolana) e nere (taggiasche) che potrebbero apparentemente aggirarsi intorno ai 250 gr. A questo punto aggiungo 500 gr di pomodori a cubetti, a cui ho eliminato buccia e semi. Lascio andare a fuoco vivo per una ventina di minuti. Mentre la base va, strizzo le melanzane e le sbollento in acqua, per un minuto. Asciugo e poi friggo in un dito di olio evo, scolo e asciugo in panno assorbente. Ora incorporo le melanzane e il sedano alla base di prima. Correggo di sale se serve. Abbasso il fuoco e aggiungo finalmente 50 gr di zucchero e mezzo bicchiere di aceto di vino. Lascio ancora andare finché non si asciuga e finché l’odore forte di aceto non è scomparso.


A questo punto dovete lasciarla freddare, meglio se la mangiate il giorno successivo, ve lo garantisco. Io me la son fatta accompagnata ad un arrosto di pollo.

Minchia siculo sono !


10 novembre 2010

Incastramenti

Non è facile, a volte proprio non lo è. A volte ci si sente incastrati, dal tempo che vola e le cose da fare. Incastrato come un libro in uno scaffale di una libreria, quando l’ultimo libro infilato lo si è infilato di traverso e facendo leva verso gli altri. Che se non fosse legno pesante lo scaffale si sarebbe già aperto.

Il risultato è che non si combina niente si prova a farne tante, a correre di qua e di là ma alla fine hai quella sensazione che tutto è ancora da fare.
Guardo il calendario, cerco un fine settimana che ha attaccato un giorno di festa, ma l’ultimo mi è passato sopra mentre lavoravo dalla'altra parte del mondo. Anche Natale quest’anno ha scelto di arrivare di sabato, a gennaio ho altri programmi e a Pasqua pure, magari per le ferie di agosto trovo un paio di giorni.

Fuori piove, l’erba del giardino andrebbe tagliata, le foglie cadute andrebbero raccolte, magari falcio anche quelle e le raccolgo con l’erba. Il tavolo e le sedie della terrazza andrebbero portate in garage, l’ombrellone smontato e anche lui in garage. Piove. Però magari tra poco smette. La libreria è da mettere in ordine, e qui dentro non piove, anche in garage sarebbe il caso di ricavare dei sentieri liberi per attraversarlo anche li non piove, però fuori si. Il prossimo fine settimana. Si ma il prossimo fine settimana c’è l’architetto e la domenica a pranzo da amici, il prossimo ancora a prendere l’olio e poi gli amici che vengono.
“Allora ?!”
“Allora piove, Matti e non posso falciare l’erba, il tavolo e le sedie ...”
“Allora, fammi un dolce !”
“…”
“Quello rotondo tutto arrotolato con dentro la cioccolata e la crema ! Tanto se piove !!”

Rotolo antipioggia


Batto 3 uova con 60 gr di zucchero semolato e un pizzico di sale. Lascio che la macchina viaggi al massimo dei giri per un 15 minuti, alla fine l’impasto deve scrivere, poi metto a 1,5 di velocità (Kenwood) e incorporo 50 gr di farina setacciata e 15 gr di fecola di patate. Continuo con una spatola di silicone e poi verso in una teglia rettangolare imburrata (45x25). Se non avete un’impastatrice, montate gli albumi fermi con il pizzico di sale e metà dello zucchero, e il resto a parte per incorporare il tutto alla fine. Infornate a 200° per circa 10/12 minuti e comunque fintanto che il colore comincia a virare verso il “bruno”. Per la crema pasticcera e per quella al cioccolato buttate un’ occhio qui.
Rifilate i bordi del pan di spagna, disponete su un foglio di carta forno che vi aiuterà a spostare il dolce. Bagnate con una bagna di alchermes e rosolio, abbondante. Spalmate le creme, lasciandone un poco da parte, arrotolate con attenzione, disponete sul piatto di portata. Spalmate la crema lasciata da parte e attaccate i bordi del pan di spagna che avete prima rifilato, e che avrete passato per 3/4 minuti al grill. Spolverate con zucchero a velo e godetene mentre fuori piove.



Ah giovedì sera verso le 19:30 sono su Radio Radicchio, Omen nomen, a parlare del senso della vita. Non so se sono più fuori io, o loro che chiamano me per parlare del senso della vita....

25 ottobre 2010

Vecchi pipistrelli


La casa è fredda. Di più: è ghiaccia come solo le case disabitate sanno esserlo. Fuori potrebbe esserci la più calda giornata d'estate, ma qui dentro farebbe comunque freddo. Di quei freddi solitari, che solo l'abbandono riesce a dare. Di quei freddi attaccati alle mura come pipistrelli neri, che quando ti infili nelle stanze, con un battito d'ali svolazzano sulle tue spalle, e li restano per tutto il tempo che servirà alla memoria per farli scappare via.

Mi muovo piano come un intruso, un ladro, in mezzo a questo nulla che resta. Apro porte di stanze, che sono come laghi di ricordi in cui tuffarsi. Sul suo comodino la vecchia radiolina nella custodia di finta pelle, matite gialle, e un piccolo fascio di "settimane enigmistiche". Cassetti che il tempo ha chiuso per sempre, gonfi di umidità che non li fa più scorrere. Il salone oramai vuoto, qualcuno ha portato i mobili in altre stanze, altre case. I passi rimbombano sul pavimento, contro le mura macchiate di muffa. Sul tavolo della cucina restano oggetti irriconoscibili, pezzi di dispensa e vecchi piatti "sbeccati". Solo la crepa sul muro, é ancora attuale, oggetto di una vecchia e infinita causa legale con i vicini, resta la sola ad aspettare che un giudice la faccia sparire. La porta dello studio é un invito ad entrare, il nulla che resta é un invito a fuggire. I libri che tappezzavano queste mura, il divano di lana rossa, il vecchio giradischi, tutto sparito, donato ad un museo, ad altre case. Resta solo la poltrona di mia nonna accanto alla finestra. Mi seggo, lo sguardo sul vecchio orto e più oltre verso il paese. Non se ne vanno i pipistrelli, per quanto mi stringa addosso la giacca a vento, restano aggrappati ai ricordi che riaffiorano.

Le giornate passate in questa stanza lei su questa poltrona, immaginava, più che vederlo, il mondo fuori di quella finestra, mentre io sul divano sfogliavo libri quasi più grandi di me. Restavo per ore ad ascoltare. Il suo ciacolare era la colonna sonora della mia immaginazione. A volte mi riportava a terra con una domanda diretta o con un racconto che dovevo per forza seguire, ascoltare. Altre volte impartiva ordini, seduta su quella poltrona, alle figlie che di la in cucina che preparavano il pranzo, più salato, meno cotto, la pasta da buttare per il figlio; mio zio. Passavano così i sabati e le domeniche d'inverno, davanti al quel camino sonnecchiante, davanti a quell'orto affacciato sulla finestra di quello studio. Da quella libreria lessi i miei primi romanzi, raccolsi le prime emozioni della carta stampata, i viaggi più belli quelli che solo la fantasia sa far fare. Su quel divano che non c'é più, tra quei libri ormai scomparsi.

I pipistrelli mordono ancora, svolazzano ogni volta che provo a scacciarli in cerca del calore di quei ricordi. Resto a guardare la mia immagine sfocata sul vetro, l'orto é nascosto dall'erba ormai alta, a malapena intravedo la punta del campanile del paese, lontano tra gli alberi di fico. Aspetto in questo silenzio che qualcosa si possa rianimare, che una voce mi possa far trasalire. Ma non ci sono rumori, non ci sono voci e non ci sono più i profumi. Solo l'odore languido di terra fredda, della muffa dei muri, invece dei profumi di un'infanzia prima e di un'adolescenza poi, così vicina in questa stanza, così lontana da questa casa.

Mi alzo, me ne vado, torno nel mondo, attraverso il corridoio buio e lungo e lascio che i pipistrelli fuggano via, mentre la fantasia mi tiene ancora bambino a correre tra queste stanze invase dalle nostre grida e dal profumo caldo della zuppa di ceci che bolliva in cucina.

I ceci vanno al mare
(il grillo con i ceci in zuppa)



Per 4 persone vi occorrono due astici e 200 gr di ceci di Colfiorito secchi, o quelli che preferite voi.
Lasciate i ceci in ammollo per almeno un giorno intero, cambiate l'acqua un paio di volte. Metteteli a lessare in poca acqua salata,(usate poco sale questa è anche la zuppa) che dovrete aggiungere man, mano che occorrerà. Profumate con 2 spicchi d'aglio in camicia e un paio di rametti di rosmarino. Un paio d'ore a fuoco lento e coperti dovrebbero bastare e comunque decide la cottura a vostro piacimento.

Preparate il sugo di Grillo: sciogliete un paio di scalogni, tritati finemente in poco olio evo. Lasciateli appassire aiutandovi con poca acqua calda quando questa sarà del tutto evaporata, aggiungete una decina di pomodori piccadilly o 5 di quelli ramati, privati dei semi e della pelle e fatti a cubetti. Lasciate cuocere a fuoco vivo per una decina di minuti, profumate con qualche foglia di basilico, salate, pepate e poi mettete da parte in un contenitore. Nella stessa padella mettete i due astici. Gli astici devono essere divisi in due per il senso della lunghezza. Se questa operazione che porta alla morte l'animale non riuscite a farla, chiedete al vostro pescivendolo di fiducia di sostituirvi nell'incombenza, eliminando anche le viscere (ma solo quelle). Rosolate gli astici a fuoco vivo e coperti, quando risulteranno belli rossi spegnete, incorporate il liquido rimasto al sugo fatto precedentemente. Recuperate tutta la polpa, spezzando le chele e le gambe, poi rimettete tutto in padella, sugo, polpa e a questo punto i ceci con parte del loro brodo di cottura. Correggete si sale e pepe. Lessate dei maltagliati che avrete ricavato da una sfoglia classica, tagliandoli a rombi abbastanza grandi. Scolateli al dente, poi finite la cottura saltandoli in padella, aggiungendo se occorre il brodo di cottura dei ceci. Servite con un filo d'olio a crudo.


Il cece cosí cotto e condito anch’esso con un filo di olio evo e accompagnato da una fetta di pane bruscato "tostato" é uno dei piatti della tradizione di questa parte di Marca e della mia famiglia.

16 ottobre 2010

Il pane del ritorno


World Bread Day 2010 (submission date October 16)

Ho gli occhi gonfi di lacrime.
Il freddo del mattino mi si gela in faccia e negli occhi. Cammino veloce le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, le spalle ingobbite. La giacca a vento che salva appena il corpo, ci vorrebbe un cappello di lana, ci vorrebbero i guanti, e ci vorrebbero un paio di pantaloni appena più pesanti.
Corro quasi, lungo i marciapiedi deserti, di questa città affollata di turisti addormentati.
E' l'ultimo giorno, tra qualche ora me ne ritorno a casa, son tutti lì a desiderare questo ritorno quasi come dieci giorni fa desideravano la partenza. Quel bisogno di ritrovare se stessi nei luoghi che ci appartengono. Infilarsi nella routine normale e accogliente della propria vita. I gesti e i tempi di sempre, la sveglia presto per andarsene a scuola, la colazione fatta in piedi sulla penisola della cucina. L'orologio che incalza spietato, i minuti che passano, la fuga verso il bus, l'elenco delle cose dimenticate, il libro, la sciarpa, la merenda. Poi tocca al più piccolo, una sorta di catena di montaggio con un ciclo scandito e preciso, la colazione, i denti, la cartella e fuori. Ancora. L'elenco delle cose dimenticate, il libro, la sciarpa, la merenda. E poi la telefonata dopo che tutti sono usciti, la giornata che va verso la sua storia che comincia.

E io che cammino nella solitudine di queste strade, un cielo che passa dal grigio all'azzurro, un tempo che promette si essere comprensivo e di regalarci un pezzo di sole. Giro l'angolo e la vedo. La signora sta mettendo fuori il cartello che in tedesco forse annuncia pane fresco o chissà cosa, ha appena aperto. Rallento e resisto al freddo. Ostento indifferenza e poi mi infilo nel caldo abbraccio della panetteria. Ed è così da tutta una vita: ci sono due profumi a cui mi abbandono. Un pugile sul ring che stanco di saltare e difendersi, ad un certo punto, allarga le braccia al gancio finale, che lo stacchi da terra e lo liberi dalla fatica e dal dolore una volta per tutte. Ecco per me il profumo del caffè appena tostato e quello del pane appena sfornato sono i due pugni a cui mi abbandonerei volentieri.

Quella fragranza quasi palpabile, quella crosta che senti scricchiolare sotto le dita, aprirla con le mani mentre me ne torno a casa, staccandone pezzi tiepidi che si affacciano dal sacchetto e mangiarmelo per strada. Uno dei piaceri a cui non rinuncerò mai, neanche dopo morto. Ma oggi no, oggi è troppo freddo, e poi oggi sono venuto a comprare il pane del ritorno, il pane del viaggio. Quattro o cinque pezzi chiusi in un sacchetto, che nessuno sa che ci sono, e che tutti immancabilmente non ricordano esserci, se non quando una punta di fame collegherà lo stomaco alla memoria. Sarà Spaccaball allora lanciare il sasso e Leo a meravigliarsi come ogni volta. Apriranno il sacchetto e veloci, come se fossero appena tornati dalla ritirata del Don, addenteranno i fiocchi salati, e sarà solo un piccolo miracolo se rimarrà per me un pezzettino di:

Bretzel



La sera prima preparate un polish con 100 gr di farina 00, 5 gr di lievito disidratato (oppure 8 gr di lievito di birra), e 100 gr di acqua. Impastate con un cucchiaio amalgamando bene gli ingredienti e poi mettete in frigo per almeno 12 ore.

Il giorno successivo preparate una miscela con 250 gr di farina 00, e 150 gr di Manitoba, aggiungete 12 gr di sale e 12 gr di zucchero, miscelate bene. Incorporate il polish preparato la sera prima, 50 gr di burro ammorbidito e 200 gr di acqua, o quanta ne prende per avere un impasto morbido ma che non sia eccessivamente appiccicoso.
Lasciate lievitare in un ambiente caldo (22°/24°) per circa 2 ore.

Mettete l'impasto su un piano ben infarinato dividetelo in parti uguali formando dei cordoncini di ca. 50 cm, lo spessore dipende dal vostro gusto. Ne dovrebbero venire una decina con l'impasto preparato. ora formate i fiocchi tipici dei Bretzel e disponeteli su di un piano infarinato e lasciateli lievitare per altri 20/30 minuti.

In una pentola portate a bollore 4 litri di acqua, e poi abbassate il fuoco e lasciate sobollire, aggiungete 3 cucchiai da cucina di bicarbonato di sodio (occio che l'effetto può essere vulcanico). Regolate il fuoco in modo che possiate avere una buona visibilità (capirete). Ora immergete i Bretzel due a due, finché non appariranno lucidi (30/40 secondi). Scolateli con una schiumarola e disponeteli su di un canovaccio in modo che scolino bene. Alla fine trasferiteli su di una placca con carta forno, cospargeteli con un fleur de sel, e infornateli immediatamente a 220 gradi per 20 minuti o finché il colore non sarà di vostra soddisfazione.




Questo post partecipa al contest di Zorra: Qui

11 ottobre 2010

Ho adottato una ricetta

Mmmh
Ha la l'espressione del viso pensierosa, di chi sta per emettere il giudizio di un esame. Per una volta, in queste occasioni, è lui a dare il voto e non a prenderlo. Un secondo pezzo di carne sparisce in bocca, le mandibole si mettono al lavoro senza troppo sforzo, gli occhi sul piatto in segno di profonda riflessione. Allunga una mano verso il bicchiere di vino. I riflessi granati del Lagrein brillano al sole caldo di questa domenica di un autunno che non arriva. Il collo teso nel gesto del bere, il sorso di vino che si infila in gola, forse un filo troppo velocemente. Schiocca la lingua soddisfatto, mi guarda, lo sento dire che nella salsa c'è il limone e poi un qualcosa di dolce che non capisco. Lascia la frase tra l'interrogativo e l'affermazione.

Ci penso, magari lui da il giudizio, ma io mi tengo l'ingrediente. Lo guardo. Allora? Sembra volermi dire. Ma si va te lo dico ma ti faccio soffrire. Gira gli occhi in un gesto di insofferenza superiore, che nasconde una curiosità da morsi, però al tavolo 'stavolta. Prugne! tolgo i dubbi. Mi guarda meravigliato un sorriso di compiacimento, che fa sparire un'altro pezzo di carne in bocca, stavolta lo assapora soddisfatto e beato. Bono! Ma perché le prugne?

E adesso che ti dico, che sono un rompicoglioni e che tre anni fa rompevo le palle a chi buttava i soldi pubblici per raccontare cazzate tipo l'arrosto alle prugne? Tutto documentato qui. O che non contento ci ritornavo pentendomi per l'arrosto alle prugne, ma sproloquiando contro l'ignoranza e la stupidità sempre qui. Che vuoi che ti dica che anche adesso nello stesso sito confondono "pesarese" con "pescarese", ma che non me va più di romper(mi) le palle. E che magari uno strafalcione di questo tipo è un male d'augurarsi, rispetto alle vagonate di letame che ti tocca vedere. E' che son stanco. Son stanco di sentir cazzate, di leggerle e di doverle sopportare. Son proprio stufo.
Allora sai che c'è, oggi ti ho cucinato un piatto tipico dell Marche:

L'arrosto di vitello alle prugne



Ho preso un pezzo di vitello, per l'esattezza la parte delle costolette che ho disossato, (ma potete anche non disossare). Ho chiuso il tutto in una rete. In una casseruola ho messo olio evo e una noce di burro (40 gr), e 4 fette di pancetta fresca, vi ho tuffato una cipolla a pezzi grossolani tre carotine, uno spicchio di aglio, rosmarino, santoreggia e una foglia di alloro.

Ho messo il pezzo di carne (due per me) a rosolare a fuoco vivo ben bene. Ho lasciato che la carne prendesse quel bel colore bruno girando più e più volte e poi ho sfumato con un paio di bicchieri di Tocai ... oopsss di Friuliano doc. Ho tolto ed eliminato la pancetta. Lasciato sfumare per qualche minuto, tappato con un coperchio a buona tenuta e infornato per 45 minuti a 145°. Dopo questo tempo ho aggiunto all'arrosto la buccia di mezzo limone e quella di un mandarino, lasciandole intere per recuperarle poi. Ho aggiunto quattro belle prugne (le mie erano grandi quasi quanto una pesca) fatte a pezzi grossolani e rimesso in forno alla stessa temperatura per altri 45 minuti.

Ho tolto dal forno eliminato la foglia di alloro, e le bucce degli agrumi, ho passato la salsa con un frullatore ad immersione, affettato l'arrosto e servito caldo accompagnato da degli involtini di sformatino di patate e con la prugna nature.



Tanto con tutte le balle che ci sono in giro, una più, una meno !!! (sulla regionalità del piatto intendo)

01 ottobre 2010

Quando inizia un ritorno?

Quando inizia un ritorno ?
Quando si comincia a tornare ?
Quando è che un viaggio “gira”, e hai la sensazione di andare verso il luogo da cui sei partito ?

Tiro fuori lo yoyo che mi ha regalato Spaccaball. Stringo bene la cordina attorno al suo asse. Faccio il cappio all’estremità libera e ci infilo il dito medio della mia mano destra. Fin quasi a scomparire in fondo all’ultima falange. L’inventario del viaggio. Le cose che si ammassano nella mia valigia, stanche di armadi sempre uguali e tutti i giorni diversi.
Lo stringo nel palmo della mia mano ne apprezzo il peso, il perfetto bilanciamento nonostante la forma conica, il morbido della gomma arancione. Quel fremito freddo che sento: l’attimo prima di partire, l’attimo prima di volare via lungo quel filo. Poi è tutto un susseguirsi cacofonico di gesti automatici. Le code, il traffico, la folla, una babele di lingue, puzze e profumi. Migliaia di volti sconosciuti che affollano questo presente, come tele di una galleria di un passato senza fine. Il colpo secco e impercettibile del polso, la mano che si apre per lasciarlo fuggire, la mia mano il suo abbraccio. Il “fffrrrrrrr…” sottile nel silenzio di questa stanza, dentro al mondo, lontano dal mio.

Di fuori, nel buio della notte, è quasi giorno pieno, di gente che non ha tempo per il sonno, di un traffico che scorre veloce quasi caotico. Il frullo leggero è rotto dal “tgiiing …” acuto di un messaggio che arriva. Sorrido. Ha passato l’ultimo mese ha mostrare il suo nuovo telefono: una reliquia dismessa dal nonno, di cui ha decantato improbabili capacità tecnologiche. Un mese passato ad elemosinare, invano, un scheda, per sdoganare, e dare finalmente uno scopo a quello strumento.
Ha ingoiato una sfilza di “no” talmente lunga da minare la resistenza del più stoico elemosinatore. Poi mentre io non c’ero, qualcuno preso da stanchezza, o impietosito da quell’espressione triste che si sarà attaccato addosso, gli deve aver comprato una scheda. Prima è arrivato un messaggio: “ciao papà, sono Matteo” ha scritto la “c” minuscola e la “M” del nome maiuscola. Poi sono arrivate tre telefonate, o meglio tre tentativi, che hanno lasciato passare la sua vocetta squillante solo per per dire “Ciao pap….” Per tre volte è caduta la linea. Ho tentato di richiamare ma il telefono era spento. Una reliquia appunto, che si resetta ad ogni chiamata.

Fuori, oltre la strada, sullo specchio scuro del mare, ora, passan le luci di una nave. Le guardo scomparire verso la città dalla parte opposta, fintanto che non le confondo in mezzo ad altre navi, alle luci dei palazzi, alle voci della gente, come i visi di quella galleria. Lo yoyo scende con il suo “fffrrrrrrr…” triste. Con l’altra mano scorro il menù del telefono: messaggi, Matti, apri.
E’ quasi in fondo, lo sento: la corda tesa, il polso piegato in avanti e verso il basso, pronto. Guardo il messaggio di mio figlio, ha un senso di arrampicato, di veloce. Come il cono di ferro e gomma che sta per arrivare giù in basso. “Ecco perché non fonziona tu sei troppo lontano”
Il polso scatta veloce, secco, lo yoyo gira su stesso a vuoto per qualche attimo interminabile, sospeso, come quel “troppo lontano”. Poi quando penso che potrebbe fermarsi lì, spegnersi, sento che morde, si riarrotola sul filo e ricomincia a tornare. Il viaggio gira si riorna, verso la mia mano, verso quell’abbraccio che mi aspetta.

Insieme: la pesca al vino di visciole con gelato allo zabaione e crumble di mandorle


Una pesca a persona bella tosta e consistente a cui toglierete la buccia bruciandola velocemente con un cannello o sui fornelli del gas, e passandola poi con uno strofinaccio pulito. Sciroppate le pesche in uno sciroppo composta da 300 gr di acqua,100 gr di zucchero e 300 gr di vino di visciole di Cantiano. Lasciate sobbolire per una ventina di minuti poi toglietele dal fuoco e raffreddatele. Lasciate addensare lo sciroppo continuando il bollore finché non vi sembrerà abbastanza denso.
Per il gelato: battete 4 tuorli con 200 gr di zucchero, portate 60°C 1/2 litro di latte e incorporatelo alle uova continuate a cuocere fino a 70°C a bagnomaria. Raffreddate aggiungete 250 ml di panna e 80 ml di marsala almeno "vergine". Mettete nella macchina per il gelato e lasciate andare.
Per il crumble: incorporate 100gr di zucchero semolato con 100 gr di farina, 50 gr di burro a pomata e 75 gr di mandorle tagliuzzate nel verso della lunghezza, lavorate con le dita fino a formare delle briciole irregolari. Infornate il tutto a forno ventilato + grill 170° per una quindicina di minuti.
Per la preparazione: in un bicchiere di vetro mettete la pesca fatta a fettine bagnata con il suo sciroppo, due quenelle di gelato allo zabaione, sbriciolateci sopra il crumble e guarnite con qualche visciola di Cantiano e ancora un po' di sciroppo


Sto tornando.

19 settembre 2010

Ad Oleo


E’ come una bava di ragno, tenuta tra le dita.
Sottile, scivolosa, quasi eterea. La tengo con le unghie, mai con i denti, ma con con forza, stringendo la punta delle dita. Così accompagno i suoi movimenti, tiro, poi mollo, con la coscienza di un adulto e il cuore di un ragazzo. La lascio muoversi, stando attento a non tirare troppo, a non rompere l’ illusorio legame che ci tiene ancora vicini, meno lontani di un tra poco, non distante.

A volte m’illudo di sentirla vicina, la tensione quasi svanita, sparita. A volte, terrorizzato mi sembra scomparire, fuggire lontano. E allora come il ragno, a cui strappo la tela, ricostruisco quella bava sottile. Pian piano, girandoci intorno, indifferente, distratto, lo riporto vicino. Impongo regole, le spiego, mi illudo che vengano comprese, mollo qualcosa di quel filo sottile, e penso che adesso si rompe, forse si rompe, certo che si romperà, ma non ancora. Convivo, che è un vivere strano, con questa adolescenza che non cresce, e non son convinto che debba farlo. Non è lei che deve crescere, lei c'è, ci sarà, c'è sempre stata.

Me la porto addosso, attento a non commettere errori vissuti nella mia, dubbioso dei deboli segnali che passano e spaventato da quelli che potrebbero non passare. A volte mollo, perché per nuotare ci vuole l'acqua e anche profonda, ma anche qualcuno pronto con un salvagente, una pacca sulle spalle, uno sguardo di fiducia. A volte stringo fino all'impossibile, duro contro duro, a chi la dura di più. Poi dopo un po', ma un po' anche più po' di un po', molliamo, ma non senza aver prima ripreso tutte le misure l'uno dell'altro, ritastato tutti i polsi e pettinato tutti i peli. Allora uno sguardo basso e un "scusa dai", messo lì, al posto giusto, ci riportano vicini. Legati di nuovo da quella bava di ragno, sottile, scivolosa. Riconquista del conquistato che era, a volte anche con materiali messaggi di affetto portati, magari da un piatto di:

Fagioli con le cotiche



Dal vostro macellaio vi fate dare un paio di pezzi di cotica, puliti e lavati. Avrete cura di ripassare bene la parte esterna per eliminare i peli, usando, a vostro piacimento, o una fiammeggiata sui fornelli di casa o un rasoio usa e getta tri-lama. Raccomando vivamente di non utilizzare schiume, specialmente al mentolo.

Fatto ciò, scotterete per 5 minuti in acqua bollente salata le cotiche, e poi con un coltello affilato toglierete il grasso in eccesso, per poi riprendere la cottura fino a che risulteranno cotte ma non troppo (torneranno sul fuoco). Nel frattempo avrete lessato un chilo (sporco) di fagioli borlotti freschi o un 400 gr già "sdaginati" oppure un 250 gr. di fagioli, sempre borlotti, secchi e ammollati per almeno una giornata. Anche in questo caso io lascio i fagioli belli al dente avendo cura di farli bollire in acqua e sale, con una carota e una costa di sedano. A parte preparate un soffritto con cipolla, sedano, carota, qualche pezzetto di gambuccio di prosciutto, aggiungete della salsa di pomodoro, le cotiche che avrete tagliato a striscioline una foglia di alloro. Salate e pepate e se piace aggiungete un po' di peperoncino. Aggiungete i fagioli con la loro acqua di cottura, se freschi. Se fossero secchi vi conviene cambiare acqua dopo una prima bollitura. Lasciate insaporire bene per una ventina di minuti, servite accompagnato da fette di pane tostato.


Questo piatto sono la passione, una delle tante, di Leo. Magari per riconquistare il vostro adolescente basta una cioccolata calda.

12 settembre 2010

Morire dove si nasce

Se ti dico Ascoli cosa ti viene in mente?
E si, certo le olive all’ascolana. Poi ? Dai fai uno sforzo !... La Quintana. Bravi !!
Nient’ altro ? Eh si, perché de Ascule che ne saio io .
Magari chi ci è stato un paio di posti se li ricorda: Piazza del popolo, il Palazzo dei Capitani del Popolo, il forte Malatesta e il ponte di Cecco. E poi il caffè Meletti lo storico Salotto della città


A me se dici Ascoli mi vengono in mente i monti. Le montagne, meglio. Meglio ancora i monti della Sibilla: i Sibillini. Mi viene in mente il freddo di un inverno di più di venti anni fa. La sera che scendeva presto. Attraversammo le Marche lungo la spina dorsale che sono i suoi monti. Non fu un viaggio, fu una traversata di altri tempi, qualcosa che forse facevano i nostri nonni. Fu un andare quasi fuori del tempo, con altri pensieri altre memorie, quelli di ragazzi venticinquenni che si affacciano sul mondo, lo guardano e si fanno una grassa risata.

Evitammo le autostrade, ci infilammo lungo le provinciali e facemmo così tante curve che anche l'auto aveva il maldimacchina. Matelica, Castelraimondo, San Severino. "Anche se non è di strada te passamo a prende lo stesso, però ci prometti che stai zitta, o che parli la metà del solito". Tolentino e poi verso il lago di Fiastra, lì finirono le conoscenze del nostro navigatore umano, oltre non eravamo mai andati. Ci perdemmo dalle parti di Camporotondo Fiastrone, non passava anima viva e per chiedere informazioni bussammo ad un casolare, apriti cielo. “Se non andè via a rrompe li coioni chiamo la pulizia”. Tentai di far notare che “pulizia” non è quella con la luce sul tetto della macchina, ma dovetti desistere per seguire la banda nella fuga. Ritrovammo la strada per sbaglio, o meglio grazie ad una teoria che qualcuno poi si convinse aver valore scientifico, secondo la quale tentando di sbagliare avremmo indovinato, visto che prima avevamo sbagliato tentando di indovinare. Contento lui. Quando arrivammo a Sarnano era già buio, e Amandola ci passo fuori dai finestrini senza che ce ne accorgessimo. Comunanza non ho mai capito dove fosse, o meglio, il paese sembra disperso nella valle, e la sola cosa che si vede è la zona industriale, con la grande fabbrica che ci aspettava, ma questa non è la storia. Arrivammo da Roverino, solo perché dopo avergli telefonato ci aspettò sulla strada. Nel frattempo era scesa la nebbia, pioveva e il freddo ti mordeva le spalle. “Andate a custodivve, e poi venite giù a cenà”.

Se mi dici Ascoli io sento ancora quel freddo, vedo il buio di quella notte. Se mi dici Ascoli sento l’aria fredda dei Sibillini che scende giù e corre verso il mare, e vedo le luci delle vetrine di quel ristorante perso in quella notte, e i suoi :

Maccheroncini di Campofilone


Lu Maccheroncì de Campufilò si fa solo a Campofilone e dal 1998 sono un prodotto tipico tradizionale di questa regione. Ora c'è da dire anche un' altra cosa, e cioè che dal gennaio di questo anno Campofilone non è più in provincia di Ascoli Piceno ma bensì di Fermo. E si, ricordate quel progetto politico di razionalizzazione delle provincie di cui tutti si sono riempiti la bocca, ecco quella era un' altra cazzata elettorale. Per ora le province le stiamo razionalizzando in aumento.
Comunque i Maccheroncini altro non sono che una "tagliatella" (perdonassero i Cmpofilonesi) tagliata sottilissima, il taglio nasce dalla tradizione di conservare la pasta per lungo tempo essiccata, e per quando possa sembrare assurdo più è sottile meno si spezza. Una volta lessata e scolata al tende va condita con il più tradizionale dei sughi marchigiani, un ragù fatto con un soffritto di carote, cipolle e sedano sciolto in olio evo e burro, si aggiunge polpa di vaccina macinata e la si lascia soffriggere ben bene. Si sala, si pepa, si aromatizza con noce moscata e un paio di chiodi di garofano, si sfuma con mezzo bicchiere abbondante di vino rosso. Una volta riassorbito il liquido si aggiungono un paio di cucchiai di concentrato di pomodoro sciolto in una tazza di brodo bollente, e quindi i pomodori pelati. Si lascia sobbollire a fuoco lento per 2 o 3 ore e il gioco è fatto.



Perché sulla tavola per far la pasta ? Perché quella sera Roverino mi disse che i Maccheroncini "aano da morì, do so nati, quindi sulla spianatora!"



01 settembre 2010

La mia estate


Passo la punta delle dita su questo marmo, bruciato dal sole e dalla salsedine.
Tento con l’unghia di portare via il nero del tempo, quelle vene di vecchio lasciate dalle intemperie. Non ho ancora guardato oltre questa balaustra. Ho sceso la scalinata a testa bassa, gli occhi puntati sui miei piedi, voglio che la vista da questa terrazza sia un colpo, un “pam” di colori, ecco perché ora ho gli occhi chiusi. Magari qualcuno mi starà guardando, magari sembrerò ridicolo, o forse mezzo matto. O magari solo un po’ strano.

Non vedo, ma sento: sento il profumo del mare più sotto, quello dell’oleandro salendo lungo la scala, il profumo di pietra di questo marmo, sotto le dita. Le grida allegre dei bambini che si arrampicano sul monumento alle mie spalle, il vociare di un gruppo di marinai seduti sulle scale, e poi il tonfo dei tuffi di chi più in basso sta facendo il bagno dagli scogli. Sento il garrire di qualche gabbiano lontano, il rumore sordo dei motori di barche che passano a largo.
C’è un sole caldo alle mie spalle, un sole di fine estate. Di quelle estati passate in fretta, che lasciano il segno , ma non ora. Più avanti quando cominceranno a farsi rimpiangere, non ora, non ancora. Mi cullo alla calda carezza di questo tramonto, ai suoni di questo pomeriggio, ai suoi profumi e alla vista che non ho ancora visto.

Resisto. Gli occhi chiusi in questo gioco con me stesso, fintanto che non sentirò arrivarmi qualcuno vicino, e allora per vergogna, per imbarazzo, li aprirò. Ma all’ultimo momento, solo un attimo, prima di ritrovarmi assieme ad altra gente. Un attimo prima, per godermi fino in fondo dell'attesa di questo spettacolo, che trascina ricordi, come catene pesanti trascinate dal tempo.
Respiro. Il vento leggero e fresco che soffia dal Conero mi carezza i pensieri. Poi qualcosa mi sfiora. Sento una mano piccola, paffutella, infilarsi a forza tra le mia dita. E’ l’attimo, quell’attimo che aspettavo. Spalanco gli occhi. Una distesa azzurro turchese mi esplode davanti, la seguo fin dove s’incontra con un cielo cristallino, terso, di un azzurro elettrico. Il mare è punteggiato dal bianco delle barche, il verde del monte intorno catalizza tutto quell’azzurro e come in un enorme imbuto, lo concentra qui dentro sulle scale del Passetto di Ancona e sul bianco di questa balaustra.
Un traghetto enorme si affaccia su questo quadro e lentamente si infila tra i puntini bianchi evitandoli in punta di piedi. Matteo me lo indica, lasciando la stretta che ci legava. Mi chiede dove va, non tanto lontano quanto ci piacerebbe. Parliamo, mentre più sotto i bagnanti fanno gli ultimi tuffi dagli scogli, all'ombra di dove siamo. E quando gli chiedo se sente i profumi mi fa si con la testa, li sente. Lo guardo annusare, tirando la testa verso l’alto e riempendosi i polmoni.

Che profumi senti? Ci pensa, riflette, socchiude gli occhi. Io sento il profumo delle vongole.
Davvero? Si sento il profumo delle vongole, con il pomodoro e la pasta. Sicuro?
Mi concentro e forse lontano, più in basso, dietro alla balza, verso le grotte, forse, mi pare di sentire il dolciastro del sugo. Possibile ? Forse, chissà !

Il profumo del Passetto d’Ancona: rigatone in guazzetto di vongole


In una padella grande faccio aprire le vongole, esclusivamente autoctone, a fuoco vivace e senza condimenti di sorta. Dopo cinque minuti le tolgo dal fuoco con il loro sughetto e le tengo da parte. Nella stessa padella faccio rosolare in poco olio evo 3 spicchi di aglio fin quasi a farli sbrucciacchiare, aggiungo un trito di erba cipollina, poi butto 250 grammi di pomodorini piccadilly sfilettati. Li lascio appena appassire, aggiungo sale e fermo la cottura. Lesso un 100 gr di rigatoni per cranio: millerighe n. 62 del Cav Cocco, ma poi si lamenteranno per la modica quantità che qualcuno paragonerà a "dietetica razione ospedaliera". Scolo la pasta al dente un tre minuti prima del tempo e finisco la cottura in padella, aggiungendo poca acqua di cottura e per ultime le vongole con il loro guazzetto. Alla fine spolvero con un trito di prezzemolo freschissimo, tagliato al volo dal giardino, e condisco con un ultimo filo d'olio evo sul piatto.

Si era questo il profumo che sentivo.
E voi ? Avete riportato qualche profumo dalla vostra estate ?

10 agosto 2010

Giusto una puntata

Ci arrivo con un giro lungo, passaggi per niente scontati. Il percorso sul navigatore è quasi indice di pazzia, non fosse dettato dall’allergia di Spaccaball. Da Treviso salgo verso il Cadore fino a Misurina, poi tutta la Val Pusteria, e giù fin quasi a Trento, da lì mi faccio tutta la val di Non e mi infilo nella Val di Sole. Risalgo il Noce che già il pomeriggio si spegne dietro alle dolomiti del Brenta.
Arrivo a Malè in una quasi sera che profuma di bosco e di pioggia passata da poco. La piazzetta è piccola quasi minuscola per contenere la chiesa del paese. Un piccolo merletto che si ripete di piazza in piazza, a differenza di molti paesi della nostra montagna, nati lungo le strade che portano in su. La gente si muove lenta, nel ritmo tipico della vacanza. Il vociare e le chiacchiere scivolano liquide in accenti che si confondo.


Anche lui se ne sta rilassato, accoccolato sotto la veranda del suo ristorante l’immancabile sigaretta tra le dita. Al suo fianco il suo capo: Mara, chiacchiera con un’amica. Gli vado incontro, attraverso la piazza, Matti mi stringe la mano. Sono uno dei tanti turisti, al primo sguardo, che si aggirano per la valle e per il paese. Poi mi mette a fuoco, mi riconosce, e allora è come lo ha descritto lui. Non ti sei mai incontrato, non sai che voce abbia l’altro, quanto sia alto, se è magro, più grasso, ma è come se ti conoscessi da una vita. Ti saluti con un abbraccio, di quegli abbracci del ritrovarsi. E questo allora è Spaccaball e lui è Leo, e le sue imprese con te in bici. Ma allora esiste anche una moglie. Mi siedo al tavolo mentre Mara premurosa ci porta da bere. Ed è come per le gare delle moto, come dice Matteo, facciamo un giro di pista, scaldiamo le gomme proviamo l’assetto e poi via.


Da lì in poi Maurizio è un fiume in piena: racconti, aneddoti, domande. Un concentrato che dobbiamo riuscire a far stare tutto in due serate, in cui chiaramente lui deve anche cucinare. Cominciamo da quando siamo partiti e parliamo di tutto, poco di politica in verità.
Quando si fa l’ora si infila in cucina, per ridarci appuntamento di lì ad un paio d’ore. Ma non scompare, riappare tra una portata e l’altra e racconta di cibo, di piatti e di idee. Alla fine ci accomuna anche il concetto del cibo: ricordo, momento, pensiero, ogni ricetta una storia.


Così ci passa sotto la forchetta, il tortino di cannellini, pomodori e ricotta, indimenticabile goduria, poi la polenta di storo con lo zola e il trentingrana, e ancora la vellutata con gnocchetti di ortiche, la prenderò per due sere di fila.
Cala la sera e il freddo, Matti si scalda le mani con la candela, dobbiamo ancora acclimatarci alla montagna. Leo è una macchina da guerra, quando arrivano i primi quattro diversi, roba da far smadonnare lo chef, ma non stasera, li affronta come davanti ad una salita. La tagliatella al ragù di cervo e porcini, la rifarò a casa, la pasta e fagioli attraversa tutte le valli, dal veneto a qui, il raviolo ripieno di capriolo con una ricotta stagionata affumicata. Mi alzerei ora, subito, adesso, sazio e soddisfatto un bicchiere ancora di teroldego a mo’ di calice della staffa e via.


Invece arrivano anche i secondi, Leo gode prima con gli occhi poi con il palato. Il cervo alla piastra con la giardiniera: è tutto da provare, il salmone alla griglia e poi un gulash con polenta. Passa uno stinco di maiale per il tavolo a fianco, ma la luce è poca e non mi sembra il caso di far aspettare anche estranei alla famiglia, per una foto.
Se ci riuscite provate anche i dolci, lo strudel di mele è come ve lo farebbe vostra nonna se fosse nata e vissuta in trentino, il tiramisù ai lamponi e pistacchi è l’ultima variante di Mara e poi un semifreddo: una mousse allo Chardonnay trentino DOC, che ha un solo difetto: è tanto !


Ecco Maurizio è come la sua cucina, piacevole, loquace, curioso e sincero. Siamo stati bene, di più: benissimo.

Grazie Chef e grazie Capo

El Barba
P.zza S. Maria Assunta
38027 Malè (Tn)
0463 901122



20 luglio 2010

gudsziguà

Il rumore è assordante e per parlare dobbiamo urlare. Basterebbe questo per farci grondare di sudore, il resto lo fanno i 40 gradi e il 95 per cento di umidità. Il calore che le quaranta presse plastica di questo reparto vomitano fuori, è solo un dettaglio.

Dieci secondi
Ha il fiato corto, si guarda attorno, la camicia attaccata alla pelle, i capelli come se fosse appena uscito dalla doccia. Andiamo ? Me lo chiede con un filo di voce e un espressione di rispetto, per chi sta lavorando. Un minuto, devi aspettare un minuto. Aspettiamo il minuto mentre le macchine aprono le bocche gli stampi arretrano e sputano pezzi e calore.

Venti secondi
Forse ora starà facendo i conti, di quelli fatti a mente, così difficili da giovane, e più facili da vecchio se mangi pane e numeri. Starà pensando che quei 10 centesimi sul sedile posteriore di quel taxi ad Hong Kong li doveva proprio prendere, anche se andavamo di corsa, anche se dietro strombazzavano e anche se erano solo 10 centesimi di euro.
E come fai a dargli il giusto valore a quei 10 centesimi se lo devi far capire ad un ragazzo di sedici anni. Sedici anni vissuti qui nel 2010. Che gli dici? Eh ai tempi miei! Ah quando ero giovane io!

Trenta secondi
No non funziona, come pretendi che capisca quando un ghiacciolo costava centocinquanta lire e con duecento ci prendevi un quotidiano. Non funziona, no. Allora serve qualche giusto confronto, raffronto, proporzione. Hai presente una pizza margherita? Bene ora dividila in sei fette come fai di solito. Poi prendi una di queste fette poi dividila in 10 pezzetti. Ecco uno di quei pezzi sono 10 centesimi. Si il bordo, ecco il bordo. Ma io il bordo non lo mangio mai. Il bordo non lo mangia nessuno, il bordo lo lasciano lì tutti. Aspetta. Allora prendi quel gelato nuovo e strafigo quello che non mi ricordo come si chiama. Quello famoso con il cioccolato fuori il variegato all'amarena dentro e che ha qualche pezzetto di croccantino, ecco hai presente? Ecco in quanti morsi lo mangi ? Dieci, dodici morsi? Ecco mezzo morso sono 10 centesimi. Mezzo morso? Si va bé quando siamo con gli amici di mezzi morsi me ne vanno via una mezza dozzina.

Quaranta secondi
Ed è qui nella zona industriale del mondo che forse ad un ragazzo dei nostri tempi, gli riesci a far percepire cosa stiamo diventando, cosa gli prepara la vita. E allora dai, vieni questa volta, ti porto con me.
Sono stato in Cina, ho visto Hong Kong, le luci, i grattacieli, i mercatini di Mong kok,i bar alla moda di Hollywood road, e i negozi di Wan Chai. Poi sono entrato in Cina, in quella vera, e ho capito un po' di cose. Poche magari, perché a sedici anni hai ancora gli occhi di un ragazzo. Piccole cose che ti lasciano piccoli segni. Come le ferite che ti fai da ragazzino e che quando te le riguardi da adulto, da uomo fatto ti ricordi il dolore e le lacrime. Ecco magari da questo viaggio con mio padre qualche piccola cicatrice mi resterà.

Cinquanta secondi
Respira a fatica fa caldo quasi troppo per chi non ci è abituato. Mi guarda lo guardo e capisco che ha capito. Fa cenno con la testa e poi apre la bocca dice qualcosa, non sento. Sopra il rumore delle macchine urla più forte: “Scusate !”
Il plurale è rivolto a me e al mio collega che con il piglio di padre e di figlio cresciuto nella campagna del basso Veneto, primo a studiare di tutta la famiglia, gli spiega che non c’è da scusarsi. Se alla fine hai capito, le scuse non servono.

Sessanta secondi
Un minuto, urlo sopra il “Daaang” ritmato delle presse. Ecco quanto valgono 10 centesimi di euro: un minuto di lavoro in fabbrica. Un minuto di lavoro se sei in Italia, 10 minuti se fossi in Cina.
Torniamo al fresco dei quaranta gradi fuori. La lezione è finita. Sfila quasi di nascosto, la sua moleskine, e ci scrive qualcosa sopra. Si torna in albergo per oggi chiudiamo.

Good Xīguā


C'è poco da scriver ricette, è tutto lì in quel che vedete, a parte che la Xīguā (sziguà)西瓜, il cocomero, in Cina è la frutta più popolare tra i Guó wài, gli stranieri. La bravura di chi la prepara è tutta nella speranza che si ricordino di tenerla in frigo. E il trucco è in quel "Good" messo prima. Senza quello il risultato sarà del tutto scadente.

Zàijiàn