18 luglio 2011

Iamme ah



Non credo che andassi già a scuola, o forse si. E comunque se andavo a scuola avrò fatto si e no la seconda elementare se non la prima. Non mi ricordo molto, ma quel poco che la mente ha conservato è una fotografia nitida dai contorni sfocati. Se muovo lo sguardo della memoria, quello che metto a fuoco sono altri ricordi, altri momenti della stessa casa che, per osmosi, si associano a questo ricordo. Pensieri più che altro, vaghe associazioni di sapori, colori: una scatola marrone con il disegno della pizza sopra, il profumo che usciva dal forno. Buono, una falsa sensazione di piacere che oggi trovo solo in rarissime pizzerie.
Pizzerie che nella mia infanzia non esistevano. Non chiedetemi perché, ma per la prima pizza al piatto ho aspettato di essere diciassettenne, fine anni settanta o giù di lì. Prima di quel tempo, la pizza era rarissima e solo al taglio quando passavo le estati a Viareggo, o quella in scatola della "Catarì" che preparò quella volta mia madre.

Da lì in poi è stato un po’ come quando tutti dicono che un certo film è bello, bellissimo, ma a te non piace proprio. Te ne stai zitto ecco. Magari non commenti, o lasci che il dubbio venga interpretato, ammiccando distratto per far capire che non era proprio ‘sto granché. Per la pizza è andata un po’ così, tendenzialmente pochi posti che mi dessero soddisfazione, parlo sempre delle mie zone si intende, e quando ne trovai uno che mi piaceva, anche se era un filino fuori mano, mi chiuse le porte in faccia dopo un paio di anni diventando un semplice bar. Da lì ho cominciato a farmela, chiaramente seguendo le istruzioni, che oggi considero “bestemmie”, che un qualsiasi mortale trova sui pacchi di farina: venticinque grammi di lievito per mezzo chilo di farina, oggi ci impasterei trentatre chili virgola tre periodico di farina.
Diciamo che rimaneva giusto il piacere dello stare insieme, e di qualche amico d’oltralpe che apprezzava oltremodo. Io continuavo a nicchiare, ammiccavo storcevo la bocca e biascicavo qualche si, senza vantarmi troppo.

Poi ho aperto questo blog, un paio di mesi dopo ho anche messo la ricetta, di quel tempo, della pizza. Un post di qui mi vergogno profondamente, oggi, ma che non cancello, perché è il segno che solo i coglioni non cambiano mai idea. Da lì ho iniziato a cercare informazioni, a sperimentare ricette, a spiare i forum o blog di altri, a provare pizzeria vere, a chiedere, "Huè guagliò mo basta addumannà !!" . Diciamo che ad un certo punto, dopo qualche anno, sono arrivato a qualcosa che ho considerato “straordinario”. Una domenica decido che si pranza con la pizza, una ricetta di Paoletta rivista e rimaneggiata, 36 ore di maturazione dell’impasto, in teglia con forno elettrico. Una sorta di apoteosi, godimento allo stato puro, quasi. Esco in giardino tutto soddisfatto e il vicino: l’amico Massimo, con cui condividiamo la passione per il cibo, sforna una delle prime pizze cotte con il suo nuovo forno a legna, e me la passa da sopra la rete che divide i due nostri giardini.

Il mondo addosso mi è crollato: fragrante un cornicione che si scioglieva in bocca, un calcio nel basso ventre e mentre in ginocchio cerchi di riprenderti uno dritto in bocca, chiaramente una metafora, il calcio, non la pizza. E allora giù sotto a riprovare, pietre refrattarie, alta idratazione, maglia glutinica accentuata, glutine inesistente, puntata corta, puntata lunga, frigo, temperatura ambiente; e se mi son dimenticato qualcosa mettetecelo voi che comunque, io, l'ho sperimentato. Dall’altra parte della recinzione nel frattempo si sfornavano pizze che avevano una curva di miglioramento come le mie, ma che erano partite molto più avanti. E allora ? E allora ...

Mi son comprato il forno a legna



E ora volete la ricetta !? Si ma quale ? La 1, la 2, la 3 o la 4 o ... eh si perché ne ho provate tante:

1
Impasto a mano, maturazione di 48 ore, puntata di 40 ore in frigo a 6°C, staglio e appretto a temperatura ambiente: cornicione enorme, da arrampicarcisi su e tentare il suicidio, bolle come quelle che i pagliacci fanno al circo, centro evidente e spesso.

2
Impasto a macchina, maturazione di 30 ore, puntata di 40 minuti, staglio e appretto in frigo a 6°C, 4 ore prima della cottura rigenero e temperatura ambiente: cornicione evidente, non ci sali ma ci resti aggrappato con le mani. bella "leopardatura" con tanto di ruggito, centro sottile.

3
Impasto a mano, maturazione di 14 ore, puntata di 9 ore a 19°C, staglio e appretto a temperatura ambiente. Cornicione alto e fragrante meno evidente che nelle maturazioni lunghe, ma se lo metti in bocca scompare velocemente, sciolto senza riserva.

4
Impasto a macchina, maturazione 14 ore puntata di 40 minuti a temperatura ambiente, staglio e appretto di 9 ore a 19°C, 4 ore prima della cottura rigenero del panetto e fine appretto a temperatura ambiente: cornicione evidente e "leopardato" pizza fragrante e centro consistente.

5
Impasto a macchina, maturazione 12 ore puntata di 40 minuti a temperatura ambiente, staglio e appretto di 8 ore in frigo a 6°C e 4 ore a temperatura ambiente: cornicione meno evidente di tutte, pizza morbida che puoi piegare a portafoglio senza problemi, centro sottile.


E allora prendiamo la numero 3:

1600 gr di farina non troppo forte W 250/260 (Spadoni da supermercato se non avete una Caputo Pizzeria)
1000 gr di acqua
1,2 gr di lievito di birra (in inverno raddoppiate)
50 gr di sale

Sciogliete il sale nell'acqua aggiungete metà della farina non setacciata e impastate fino ad ottenere una crema liscia e uniforme. Aggiungete il lievito di birra che avrete spezzettato in poca farina, poi continuate con la restante farina aggiungendo un cucchiaio alla volta, aggiungete il cucchiaio successivo solo quando l'impasto avrà preso il precedente. Occorreranno circa 20 minuti, e se siete bravi vi avanzerà anche un po' di farina. L'impasto deve risultare morbido e non troppo liscio. Mettete in un contenitore ermetico e lasciate riposare in un luogo fresco max 19°C. Dopo otto ore circa formate i "panielli" di ca. 240 gr (ne vengono 10 con queste proporzioni). Lasciate ancora maturare, sempre in contenitore ermetico, per altre 6 ore a temperatura ambiente non superiore a 25°C. Stendete a mano (Vietato il mattarello) condite a piacere e poi infornate per 60/90 secondi a seconda della temperatura del forno a legna 350°C / 400°C

Questo tipo di impasto potrebbe essere anche usato in forno elettrico, usando una pietra refrattaria come base che deve essere portata almeno a 200°C, posizionatela a max 10 cm dalla resistenza a cielo del forno. Infornate la pizza quando la resistenza è accesa, in tre minuti dovreste avere una pizza simile a quella cotta in un forno a legna ma simili solo in parte.
Per essere tranquilli in un elettrico seguite questa ricetta o quella del "Maestro" Adriano.



Iamme ah

07 luglio 2011

Incatenato ai ricordi


C’è un’aria che pesa. Che pesa come tutte le sfighe del mondo. Un cielo più basso dei minareti delle moschee, nero, rotondo di nuvole gonfie, come i grassi osti dei locali che affollano questa viuzza, stretta e scoscesa.
Arranco tra la cacofonia di tutte le voci che mi urlano contro, raccolte in questo unico suono, che ogni tanto si mischia al clangore dei taxi intasati nelle vie laterali. Il giallo è il colore vincente fra le auto in coda perenne in questa città. Giallo canarino carico, giallo antico, giallo arrugginito, giallo fiammante pronto allo sfregio, giallo taxi e giallo privato. Tassisti, ex tassisti, finti tassisti e taxi di seconda mano. E poi mani inchiodate sui clacson, braccia come appendici dei volanti, o volanti appendici di braccia al volante stesso. Si consumano più trombe di clacson che chili di olio ad Istanbul.

Ogni tanto la mia guida mi indica qualcosa da guardare, veloci attraversiamo strade e stradine lui parla, cita la storia, tutta la storia di cui questo posto è impregnato. Tremila anni sotto ai miei passi, tremila anni tra le mura rifatte. Cammino qui “sull’opposto del cieco” dove l’oracolo ha indicato il punto della fondazione di questa città, la città del re Byzas. Ogni tanto tra questi pezzi, oramai moderni, di storia antica, si affaccia il corno d’oro, lontano, sinuoso come un grande serpente, si infila nella terra. Non brilla al sole di questo tramonto grigio, come nelle cartoline che ogni tanto si affacciano, sembra più una grande pozza di melma nera e marrone, attraversata da un paio di ponti, da un paio di navi, da un paio di mondi. Rimane lì, del tutto anonimo a quell’aurea disegnata dai libri di storia, dai romanzi, e dalle leggende. Neanche la catena che lo chiudeva riesci ad immaginarti più, incastrata oramai tra il traffico e i palazzi.

Un profumo di pioggia imminente mi assale, lo respiro preoccupato. Guardo Mustafà correre davanti a me, driblare il flusso umano che ci viene incontro: siamo gli unici in pausa pranzo, per tutto il resto del mondo è l'ora del pranzo. Non è un quartiere di affari, è un posto per turisti segnato dai pantaloni corti, le snickers degli americani, le ciabatte dei tedeschi, le tuniche dei locali. Accelero il passo, una grossa goccia mi colpisce precisa, vedo Musta indicarmi qualcosa, lo sguardo soddisfatto da scopritore che cerca consenso. Seguo il suo braccio, la mano e poi il dito, oltre: la grossa torre di Galata, rotonda con il suo tetto a cono, troneggia presuntuosa, affacciandosi sulla piazza, mi volto verso il mare e verso il "corno", certo che una catena da qui fin dall'altra parte ! E poi arriva.

Lo scroscio d'acqua mi sorprende quasi al centro della piazza. Corro e forse per una teoria fisica che non ho ancora capito, peggioro le cose. Prendo una strada, ora, in leggera discesa, mi sembra che Mustafà si sia infilato giù di qua, ma non lo vedo. La pioggia ha fatto saltare gli “schemi di gioco”: lo strombazzare del traffico ha raggiunto livelli allarmistici, la gente corre in maniera disordinata, le tende, le pensiline, i rifugi alla pioggia sono assaltati, lungo il bordo del marciapiede già scorre un fiumiciattolo di acqua che trascina con sé la lordura delle strade. Cerco con lo sguardo un ancora di salvezza, la giacca è ormai zuppa e sento la sensazione decisa del bagnato sulle spalle. Poi l’ancora mi afferra per un braccio, un uomo grosso e ingombrante vestito di una maglietta che una volta è stata bianca, mi butta dentro ad un locale: una sorta di budello lungo e stretto un bancone nel fondo circondato dai fumi della cucina, qualche tavolo lungo le pareti e uno stretto passaggio al centro. I tavoli sono tutti occupati in uno se ne sta seduto Mustafà mi sorride beato, miracolosamente asciutto e mi indica un grosso piatto di:

Boulgur di pesce e verdure


O come preferite chiamarlo: bulgur, bulghur, boulghour, boulgour, boulgoul, boulghoul, bulghul o bulgul non è altro che il grano cotto al vapore, essiccato e poi ridotto in piccoli pezzi. Lo lasciate ammollare in acqua fredda per una decina di minuti e poi lo lessate in una quantità di acqua pari al doppio del suo volume per una quindicina di minuti, scolate e lasciate riposare per qualche minuto e poi lo servite caldo come se fosse un pilaf o freddo come taboulé.

La mia ricetta prevedeva una cottura in un fumetto di pesce, nessun tipo di “sgranatura” che consiglio nel caso di taboulé, un ripasso in padella a fiamma viva, dove precedentemente avevo cotto in poco olio delle zucchine a tocchetti, aggiungendo a fine cottura dei pomodorini datterini che hanno appena sentito il calore, salatura in ultimo per evitare i liquidi.


Dopo aver fatto insaporire il Boulgur, l’ho servito accompagnandolo ad una insalata di mare tiepida fatta di seppie, mazzancolle, cannocchie, “moscioli”, vongole e polipo. Tutto condito con un ottimo olio extravergine di Cartoceto.

20 giugno 2011

Magari serve

È ritornato il sole. Un sole che ancora non bolle, un sole fresco, piacevole. La galleria in cui mi infilo me lo nasconde di nuovo, come ha fatto quella prima, e quella prima ancora. Riappare alla fine, come se mi aspettasse dall’altra parte del buco, per accompagnarmi in questa giornata. Lui per una strada io per quella opposta. Vado verso il mare, ma per fermarmi prima, pochi chilometri dalla costa, in mezzo alle colline. Un altro mare fatto di vigne, poi campi di grano, strisce di macchia a circondare i "fossi" che abitano le depressioni di questa terra. Poi di nuovo su a risalire: grano, vigne, stradina, paese, e poi di nuovo giù, ancora così fino al mare.

Un senso di ansia mi prende alla gola, un lieve fastidio che mi fa tirare un paio di bei respiri . Mi capita quando devo incontrare persone che non conosco o che conosco poco. Un senso di ansia che mi divide, tra l'io che dice ma che ti frega. E quello che dice: tornate a casa, lascia perdere, che ti frega! In effetti. Magari alzo il telefono e chiamo: un imprevisto, mi hanno anticipato il volo di domenica sera, sto male, la mamma, il figlio quello piccolo che fa sempre più effetto rispetto al grande. Macché, sto benissimo stanno tutti bene. O meglio io ho questo velo di ansia e questo senso di colpa per il tempo che sto rubando a quelli lasciati a casa. Ecco, è anche il senso di colpa a pesare: un furto di due settimane, il doppio rispetto alla consuetudine ricorrente di lavoro in trasferta.

A che servirà ? Ma servirà ?

Magari si.
Magari serve a conoscere posti nuovi, dove non passerei neanche se mi pagassero, ma dove adesso passo, causa mia distrazione, forzatamente guidato dalla voce della scatoletta attaccata al cruscotto.
Magari serve a scoprire un posto che sicuramente non conosco e che forse avrei dovuto conoscere, e che se avessi conosciuto, avrei riconosciuto.
Magari serve a riabbracciare un paio di vecchi amici abbastanza nuovi, che conosco da quando sono qui, a scrivere.
Magari serve a conoscere chi conosco da tempo, ma non ho ancora mai conosciuto, se non per quello che scrive.
O magari serve per imparare a fare le:

Freselle

(direttamente dai corsi di Paoletta e Adriano)
Ingredienti:

600 gr di farina così miscelata: 525 gr di “00” per pane + 75 gr di rimacinata di grano duro
120 gr di LM appena rinnovato
5 gr di lievito di birra fresco (LB) (aumentare fino a 10 gr in inverno)
14 gr di sale
1 cucchiaino di malto
420 gr di acqua a Temperatura Ambiente (TA)

Sciogliere il LM a piccoli pezzetti in 350 gr di acqua direttamente nel bicchiere della macchina ( o in una ball capiente se si impasta a mano).
In un contenitore a parte sciogliere nella restante acqua il LB e il malto.
Aggiungere metà della farina nel contenitore grande e avviare la macchina a vel.1 con la foglia (a mano impastate con una spatola direttamente nel contenitore) quando la farina sarà assorbita aggiungete la restante acqua con LB e la metà (25% del tot) della restante farina. Continuate ad impastare fino all'assorbimento. Aggiungete il sale e la farina rimanente, fate assorbire. A macchina inserite il gancio e fate andare a vel. 2 per 15 minuti finché l'impasto non pulisce la tazza e incorda. A mano trasferite sul piano di lavoro appena infarinato e lavorate a mano e spatola incorporando più aria possibile.

Disponete sul piano di lavoro e lasciate riposare per 30'. Diamo una prima piegatura di sovrapposizione e lasciamo riposare per altri 30'. Torniamo ad allargare senza sgonfiare l'impasto e facciamo le pieghe di “tipo 1” e mettiamo a lievitare, in un contenitore chiuso da pellicola a TA, fino a oltre il raddoppio 3-4 ore.

Allarghiamo l'impasto con delicatezza e poi formiamo dei panetti da 100gr circa e lasciamo lievitare sul piano coperti per 50 min circa. Foriamoli inserendo un dito con decisione, e poi giriamoli sul dito per formare l'anello, allarghiamo molto il foro e rotoliamo l'anello tra le mani. Mettiamo su una placca con carta forno. Lasciamo raddoppiare, poi inforniamo a 230° per ca. 20'.
lasciamo intiepidire e tagliamo a metà, facciamo asciugare in forno con tagli rivolto in alto a 150° per circa 25' con sportello a fessura.

Nella foto sono condite con i classici pomodorini aggiunti di olive taggiasche, In seconda battuta con melanzane grigliate e condite con olio e una spruzzata di aceto di vino.

La tazzina?
Nella tazzina giace una spuma di pomodoro, siffatta: Fate a pezzi 400gr di pomodori ramati, scottatoli in una scodella antiaderente a fuoco medio per un 15 minuti. Passate il pomodoro con il passa verdure, e poi con un colino finissimo. Rimettete sul fuoco finché non raggiunge il bollore e fate andare per 10 minuti a fuoco basso. Pesate 200 gr di salsa (dovreste averne tanta così), conditela con sale, pepe (macinato finissimo), olio al peperoncino, mezzo cucchiaino di zucchero e, se piace, un poco di salsa Worcestershire. Incorporate 1 foglio di colla di pesce, che avrete ammollato in acqua fredda, ben strizzato. Lasciate raffreddare e poi inserite tutto in un sifone, caricate con una cartuccia e riponete in frigo capovolto per almeno 2 ore. Al momento di servire decorate con pomodorini secchi o confit.


13 giugno 2011

La prima volta


Il maresciallo sta camminando su e giù lungo la stanza, misura a grandi passi l’ufficio: tre passi e mezzo soltanto. Da una parte la sua scrivania, di lato a questa, sulla sinistra, la finestra che da sul giardinetto della caserma, dalla parte opposta un piccolo tavolino con una macchina da scrivere, e una sedia che sembra di quelle dei banchi di scuola. Sopra la sedia un altro carabiniere, le spalle della giacca con una punta di freccia rossa. Di fronte alla scrivania, tra la finestra e il banchetto di scuola ci siamo noi quattro. Fa caldo il sole di agosto picchia di brutto nel pomeriggio pieno, le cicale "ragliano" che sembrano un macchinario a motore: la finestra che da sul giardinetto è aperta, ogni tanto folate di vento caldo vengono dentro, a farmi sudare più di quanto già non faccia. Con la coda dell’occhio osservo la strada oltre il giardinetto, se qualcuno dovesse passare, potrebbe anche vederci, vedermi. E se qualcuno mi vede in caserma, e lo dice a mio padre, mio padre mi ammazza. Sicuramente mi ammazza. Oppure mi riempie talmente di botte che, forse, sarebbe meglio se mi ammazza. Quelle morti, subito, istantanee.

Ecco adesso se potessi rimettere indietro l’orologio del tempo … Ci deve essere un modo per fermarsi, per dire: “no fermi, non vale”. Come quando giochiamo a nascondino e uno non riesce a trovare un nascondiglio, e allora si ferma tutto il gioco. E no, appunto, non vale. Si, non vale neanche fermare il gioco. Se in 100 secondi non riesci a trovare un nascondiglio, sei tu che hai problemi, mica il gioco. Comunque rimetterei indietro l’orologio del tempo, fino a ritrovarmi sulle scalette della chiesa quando qualcuno ha detto, “andiamo giù a Camartoni a fregare le ciliegie da Mazzi" Ecco io se potessi adesso direi “No, raga. Aspettate.” Invece siamo partiti, la strada in discesa ha aiutato lo slancio e neanche in cinque minuti ci infilavamo tra le vecchie case della Croce. L’orto di Mazzi in bella vista, la recinzione con la rete a rombi larghi che poco può contro lo slancio di questi dodicenni eccitati dal "vietato". Un salto e via chi si arrampica sull'albero, chi sotto tiene la maglietta allargata per raccogliere i frutti, le foglie, i rami. Ma come i rami? Ma come ti è venuto in mente di spezzare un ramo? Per far prima ! Per far prima? Ma sei deficiente ?! I rami ? Se c'è una cosa che ti insegnano a non rompere i rami degli alberi da frutto.

E’ che a dodici anni se non sei stupido, sei deficiente, se poi di dodicenni ne metti insieme quattro non fai 12x4=48 per qualche strano motivo di matematica che si mischia ai neuroni 12x4 in questo caso fa un 8 scarso.

“Signor poliziotto …!” Qualcuno rompe la sequenza dei miei pensieri. A parlare credo sia stato Massimino. Non ha fatto in tempo a finire “…ziotto” che il maresciallo che camminava per la stanza in maniche di camicia rimboccate, la giacca appoggiata sulla sedia, è diventato tutto rosso e si è messo a urlare. Urla che sembra matto, mi urla in faccia convinto che a parlare sia stato io. Urla talmente tanto che mi tremano le gambe. Il mucchio di ciliegie appoggiato sopra la sua scrivania è scomparso dietro di lui. Ciliegie calde prima, figurati adesso, caldo su caldo. Il ramo spezzato, invece, lo tiene in mano, ancora, il signor Mazzi, in piedi dietro di noi. Sembra un bastone tipo quello del papa, solo che è pieno di foglie, che si stanno appassendo, e di ciliege. Ogni tanto una ciliegia cade e allora il signor Mazzi la raccoglie e la tiene nella mano libera. Intanto le urla continuano "CA-RA-BI-NIE-RE, CA-RA-BI-NIE-RE "Se continua ad urlare giuro che mi metto a piangere. Speriamo che passi mio padre, così mi vede mi ammazza ed è tutto finito.

Poi è un attimo, si sente solo il suo respiro, son tutti in silenzio, non che prima parlasse qualcuno, ma adesso non respirano neanche. Aspettano qualcosa, qualcosa da me, perché tutti gli occhi sono puntati su di me: i miei amici mi guardano, il carabiniere alla macchina da scrivere mi guarda, il signor Mazzi mi guarda e anche il maresciallo mi guarda. Io lo guardo mentre piegato sopra di me, paonazzo dall’arrabbiatura, punta il dito indice all’altezza dei miei occhi. Suggerite ! Ecco mi passa per la testa lo stesso pensiero che ho, quando la prof mi chiama alla lavagna per l’interrogazione: suggerite per favore ! Ma per quanto resto in ascolto non sento nessun sussurro. Ha fatto una domanda. Si sicuramente ha chiesto qualcosa. Ma cosa ? Una goccia di sudore mi scivola lungo la schiena, sempre più veloce, e per come sono seduto rigido e teso in avanti, non c’è nulla a fermarla, si infila nelle mutande e arriva fin giù dentro alle chiappe. Ingoio, prendo fiato e …
“Sc... scusi … signor ... Poliziotto, mi ripete la domanda ?!”

L’avessi mai detto in due secondi due, ci ritroviamo tutti fuori dalla caserma, con il maresciallo che ci urla dietro, strappa i fogli dalla macchina da scrivere per tirarceli. Abbasso la testa mentre un foglio mi si volteggia davanti c’è scritto:

“lajsd kjaskjqj kjsadlkudo lakjsdaklsu kasjlkjdlqkje iqjkajkj jkaljsda jkdhqo khsakjh pakshdiuywp​qiw djaskj dqwi ojdoijdkajio hjw d oi jdijo ….” ma che lingua è ?

Restiamo in mezzo alla strada la porta della caserma sbarrata, tesi, disorientati, ma anche rilassati, il signor Mazzi col ramo in mano ci guarda la faccia in una smorfia di diniego. Ma come poliziotto ? Quello è un carabiniere !
Visto mai un carabiniere nei telefilm: Staschi e Ach sono poliziotti, Ponciarelli è un poliziotto, Kogiac era un poliziotto, e anche sulle strade di San Francisco, dove c'è quello con il naso grosso, tutti poliziotti, mai visto un carabiniere.
Tutti annuiamo alle affermazioni esperte di Massimino. Il signor Mazzi butta il ramo e se ne va. E con le ciliegie che ci facciamo ?

Strudel di ciliegie con crema frangipane


Per la pasta tirata dello strudel
150 gr di farina per dolci
80 gr di acqua tiepida
1 cucchiaio di olio di oliva
1 pizzico di sale
1 cucchiaio di aceto di vino bianco

In una scodella impastate gli ingredienti fino ad ottenere un impasto liscio e morbido, che farete riposare in frigo per una mezz'ora.

Per la crema frangipane
125 gr di mandorle macinate (o farina di mandorle se preferite minor consistenza)
100 gr di burro
125 gr di zucchero
50 gr di farina setacciata
1 uovo intero
1 tuorlo
Con una spatola amalgamate il burro morbido con lo zucchero, aggiungete le mandorle, incorporate l'uovo e il tuorlo, e poi la farina. Inserite tutto in una sac à poche e lasciate per mezz'ora in frigo, per riacquistare consistenza.


Preparazione finale
400 gr di ciliegie snocciolate
2 cucchiai di mandorle tritate o pan grattato
Burro fuso per spennellare

tirate la pasta con il mattarello stendendola su di un canovaccio infarinato, lavoratela a lungo fino a renderla sottile e trasparente, se la pasta resta troppo spessa risulterà dura dopo la cottura. Imburrate tutta la pasta con un pennello e del burro che avrete fatto fondere. Cospargete 1/3 della pasta con un po' di farina di mandorle o del pan grattato, disponete un poco di crema frangipane sopra alla zona dove avete cosparso le mandorle, stendete le ciliegie, ricoprite con la restante crema frangipane (io per la cronaca ho anche aggiunto gocce di cioccolato) e richiudete a rotolo, avendo cura di imburrare ancora mentre arrotolate.

Infornate a 180 gradi, per circa 40 minuti a metà cottura spennellate lo strudel, con un rosso d'uovo a cui avrete aggiunto due cucchiai di zucchero di canna, che deve rimanere consistente.

Io dovrei confessare altre piccole cose:

  • la distruzione di tutti i vetri delle finestre di una casa che consideravamo "abbandonata", i proprietari vivevano a Ferrara e quella era la loro casa di vacanza;
  • il furto di varie cose nell'alimentari del paese, un estate venimmo colpiti dal raptus cleptomane;
  • la distruzione della tenda in plastica dello stesso alimentari, andavano di moda gli Scoubidou ve li ricordate ?
Per tutto quanto sopra, abbiamo sempre avuto colloqui con la "polizia" locale. E voi avete mai combinato qualcosa da ragazzini ? Un po' di sano coming-out coraggio !

06 giugno 2011

Dormiveglia

Socchiudo gli occhi, un senso di ansia, leggera, mi ha colto nel sonno. Un sonno veloce, rapido, un dormiveglia più veglia che dormi. Guardo fuori dal finestrino, il treno corre lungo la statale, ogni tanto supera auto che tentano, invano, una gara senza storia. Dai finestrini di quelle auto a volte si affacciano faccette di bimbi curiosi, che guardano la macchia di colore correre avanti. Qualcuno saluta, qualcuno fa linguacce, smorfie, facce, mentre la macchia rosso accesso e grigio lucente si allunga verso il mare. Oltre la strada l'ondeggiare morbido delle colline della mia terra, inframezzato da interruzioni di cemento che passano come in un film di un secolo fa. Mi sistemo sul sedile, e resto a fissare la risacca verde dei campi contro il cielo azzurro. Un cavallo nero, enorme, mi galoppa incontro, ci incrociamo veloci, lui immobile, sospeso nel suo galoppo illusorio, mentre il treno si infila nella raffineria di Falconara. Respiro quel vago odore pungente che ha segnato la mia infanzia, una sapore dolciastro in bocca, una via di mezzo tra liquirizia e asfalto. La fiamma sulla torre brucia lenta confondendosi con il rosso del tramonto verso le montagne lontane.

Il treno rallenta le prime case appaiono ai lati. Una volta qui c'era un passaggio a livello, proprio all'ingresso della città. Ogni volta che passavamo era chiuso, in attesa di un treno in partenza o di uno in arrivo. La stazione di Falconara mi scappa via veloce, senza neanche darmi il tempo di riconoscerla. Poco più avanti riconosco la fermata del bus della mia scuola. Da li attraversavo la statale "stai attento alle macchine mi raccomando !" ed entravo in città. Il negozio di dischi dove passavo dei lunghi quarti d'ora a guardare le copertine degli album appesi in vetrina, i nomi impossibili che cercavo di memorizzare, per poi "rivendermeli" a scuola, per non essere meno degli altri. Poco più in là il negozio di abbigliamento della "fiorucci" dai prezzi impossibili. Mia madre che ci scopiazzava i capi esposti in vetrina, cuciva giacconi, camice, maglioni fu con uno dei suoi giacconi che feci l'inverno del secondo ragioneria: uno splendido "fiorucci" tarocco, prima che arrivassero i cinesi. Più avanti la chiesa dove giocavano a pallavolo, loro gli altri, io non sono mai stato bravo abbastanza per meritarmi un'entrata in campo. Oltre la chiesa a sinistra la mia scuola, i pomeriggi passati ad aspettare l'inizio delle lezioni, quando esisteva ancora il doppio turno. La notte che arriva alla terza ora, il sonno, la fame, la stanchezza, il buio, le lezioni con le luci accese quando a casa si apparecchiava la tavola suonava la campanella. E via ancora: chiesa, destra, negozio, dischi, fermata, bus.

Butto uno sguardo a sinistra, da quella parte il mare si affaccia verso questo treno che scivola oramai stanco della corsa. Qualche barca, un paio di pontili, mi avvicino a quella che una volta era casa mia. La prima volta che presi l'autobus per tornare a casa da scuola non contai le fermate e quando tutti i miei compagni scesero, e da fuori del finestrino si sbraciavano per farmi scendere, io feci segno di "no" che preferivo andare a casa. Mia madre mi aveva spiegato che non dovevo seguire i miei compagni quando facevano cose strane. Quando il bus ripartì cominciai a non riconoscere i palazzi che mi scorrevano in faccia: me ne stavo andando verso Ancona. Mi attaccai al campanello della "fermata a richiesta" fino a farmi diventare il pollice bianco, scesi terrorizzato e m'incamminai da dove ero venuto. Mi aspettava un amico, uno solo rimasto per compassione, e quando mi chiese dove ero andato, gli dissi che volevo vedere una cosa laggiù più avanti. Mi vergognavo della mia dabbenaggine. Un pontile mi appare a sinistra davanti, e a destra il sotto passo di Palombina Vecchia.

Riconosco il posto dove c'era il giornalaio: una casa vecchia di mattoni, dove compravo "Billy Bis" e "Ghibli" e due pacchetti di figurine a settimana: quelle di UFO. All'angolo c'era, e c'è ancora, un bar, proprio di fronte alla fermata per Ancona, ci compravo solo i biglietti del bus. Il posto puzzava, sapeva di legno marcio e di muffa, e non volevo mangiare o bere niente che venisse da lì. In mezzo all'incrocio la pensilina del sotto passo che porta(va) alla spiaggia, nuova di ferro e con il tetto in vetro, una volta era in cemento bianca e azzurra. Più indietro, poco prima della salita c'è ancora un enorme tiglio quasi in mezzo alla strada, sotto quell'albero si metteva Alfredo il pesciarolo. Il treno è passato ma io chiudo gli occhi e mi fisso quell'incrocio per sempre per tutto il resto del tempo, prima di non ricordarmelo ancora.
Aveva un carretto piatto a due ruote, Alfredo, con il fondo di lamiera, metteva il pesce sopra ad un letto di ghiaccio tritato, che mi ricordava la granita dei gelati al limone, qualche alga lungo i bordi, nascosto al sole all'ombra del tiglio. Un paio di secchi azzurri e vecchi penzolavano, sotto al carretto uno pieno di fogli di carta e buste di plastica, un altro che tutto faceva tranne che raccogliere l'acqua del ghiaccio, che lasciava un lungo rivolo fino alla statale. Non ho mai visto quel carretto muoversi: Alfredo già c'era quando io scendevo per andare a scuola, ed era scomparso quando tornavo. Sembrava che la terra, l'asfalto della strada, lo sputasse e lo risucchiasse ogni volta.

Mia madre scendeva con me e mentre io andavo alla fermata del bus lei si fermava a comprare il pesce. Il pesce di noi montanari scesi al mare, un pesce più povero di quello che il mare già dava, un pesce di poca fantasia i merluzzi da fare lessi o in minestre aggiustastomaco, sempre esclusivamente di venerdì, dopo gli gnocchi del giorno prima, scritto nel libro delle tradizioni, qualche volta apparivano anche:

Le seppie con i piselli di mia madre, ma anche i paccheri miei



Per 4 persone
vi occorrono 4 seppie di media grandezza, pulite e lavate. Separate i tentacoli e le braccia e divideteli al centro facendone due o tre ciuffi ciascuna, tagliate il resto delle seppie a listarelle. In una casseruola mette a soffriggere due spicchi di aglio in poco evo, quando l'aglio comincia a colorire tuffate le seppie e lasciatele rosolare ben bene. Quando il liquido comincerà ad addensare, salate (poco) e pepate (tanto) e poi sfumate con mezzo bicchiere di vino bianco e lasciate evaporare completamente. A questo punto aggiungete il pomodoro pelato ne bastano 300gr / 400gr. Fate riprendere bollore e poi chiudete con un coperchio e lasciate andare per 15 minuti a fuoco basso. Dopo questo tempo aggiungete i piselli 250 gr già puliti, incorporate bene al sugo e lasciate andare per un quindici minuti coperti. I piselli debbono restare al dente. Ora aggiungete i paccheri (80 gr a persona) e fateli incorporare al sugo, tenete a parte dell'acqua bollente o del fumetto di pesce sempre bollente che vi servirà da aggiungere durante la cottura.

Lasciate cuocere sempre coperto, ogni tanto aggiungete l'acqua o il fumetto se il sugo si addensa troppo e la pasta non è cotta. Se vi siete regolati con acqua e fumetto arriverete alla cottura della pasta con un sugo denso e una pasta impregnata e trasudante il profumo di mare che da quell'incrocio respiravo mentre tornavo a casa da scuola.

22 maggio 2011

Rustico


Rustico
Due cose questa parola mi riporta alla memoria. La prima é un sostantivo, un aperitivo che impazzava nei matrimoni degli anni ottanta. Rustici vari, i Rustici dello chef, i nostri Rustici. Rotoli di pasta sfoglia, sempre industriale e congelata, mi rifiuto di pensare che venisse fatta in loco, al cui interno aleggiava la memoria di un ripieno,che forse un tempo aveva abitato il luogo. Ne restava dunque il vago ricordo, l'eterea memoria, come in quei luoghi abbandonati da persone care o dai ricordi dell'infanzia, dejà-vu infiniti, che si arrolotolano l'un l'altro in un improbabile abbraccio alchemico. L'acciuga era l'inquilino più evidente, non per la quantità, certo che no. Ma il suo sapore deciso ne esaltava anche minime presenze molecolari. L'altro elemento evidente era il "vriustel" esoticamente germanico, invase le patrie terre insieme al "cuore di palma". Il vriustel della mia giovinezza sapeva di chimico fumo e null'altro, oltre il sapore di fumo era l'unico elemento che si poteva riconoscere, tradiva la sua presenza, si vedeva, c'era. I peggiori ? I "vuoti": li infilavi in bocca, lungo gli stretti bordi di piscine impossibili (l'aperitivo in piscina era il top della moda) li masticavi al sole di maggio, perpendicolare sui vassoi di salami sudanti e su mezze forme di grana gocciolante, e non sentivi nulla. Masticavi e masticavi ma niente. E alla domanda del vicino che, tenendo in mano il rustico incriminato, ti chiedeva cosa c'era dentro rispondevi: "vuoto". Vuoto, forse no, magari c'era qualcosa ma le terminazioni nervose delle papille gustative non erano riuscite a localizzare l'eventuale sostanza. E quindi era vuoto. Restavi a fissare il vicino con una espressione compassionevole, che nascondeva però, un profondo senso di vendetta: dai forza! Mangialo !

Rustico.
La seconda cosa che mi torna alla memoria é la forma aggettivizata di questa parola. La "R" leggermente allungata e calcata come a sottolineare la grezzaggine implicita nel soggetto destinatario. Una sorta di carta vetrata che ti raschiava la pelle per rendere evidente la poca educazione, la poca grazia messa nel fare le cose, la mancanza di attitudine al "self-improvment" direbbero oggi tra i banchi dei master in "business developpment". "Quanto sei rustico" mi diceva mia nonna. Rustico non era la negazione assoluta e definitiva, no era un elemento di classificazione, di definizione che quello che eri, quel che facevi si catalogava in qualcosa di definito, magari anche ben fatto, ma che rimaneva in un aurea di grezzaggine, di poca grazia. Rustico era il contrario di grazioso. Grazioso veniva citato con fare cantilenante e in un sorriso beato, accompagnato da occhi lacrimosi. Rustico aveva una sua struttura ben definita: prima era accompagnato da un suono gutturale "mgh" secco e deciso, la bocca pendeva verso il basso in segno di disapprovazione e il "quanto" si intramezzava nella frase." mgh! Quanto sei rustico!"
Ma "rustico" non offendeva, lasciava indifferenti, a volte divertiti, del tutto inoffensivo, quasi quanto "accidioso" ma quella è un'altra storia.

Poi magari con il tempo, quando si diventa grandi, adulti consapevoli della società che ci circonda si potrebbe, obbligatoriamente condizionale, diventare anche:

Dolcemente graziosi

Mi sono cimentato fuori dalla mia cucina "rustica" e terragna (def.:che sa di terra) un dolce che poco ha a che vedere con me, un po' per la complessità, la lunghezza dei tempi di preparazione e per un ingrediente : il cioccolato bianco, di cui non riesco ad entusiasmarmi. Ma leggendo e navigando nel mondo di Pinella, fantastica e bravissima pasticcera, mi sono innamorato di queste strisci di colore .

Copio e incolla, con venerazione, dal blog di Pinella la sua ricetta di "millerighe" :

Per il cremoso di fragole
400 g di purea di fragole ben setacciata
4 cucchiai rasi di zucchero
3 g di gelatina in fogli da 2 g

Far idratare i fogli di gelatina in acqua ghiacciata. Versare alcune cucchiaiate di purea in una ciotolina, scaldarla benissimo al microonde e sciogliervi lo zucchero. Nella stessa ciotola contenente la purea calda, aggiungere la gelatina ben strizzata e mescolare per rendere il composto omogeneo. Scaldare pochissimo al microonde la restante purea e versarvi il contenuto della ciotolina amalgamando bene i due contenuti.

Per la mousse di cioccolato bianco al profumo di limone
80 g di latte intero
2 g di gelatina in fogli da 2 g
scorza di un limone
150 g di cioccolato bianco Ivoire Valhrona
160 g di panna semimontata

Scaldare il latte con le scorze del limone e lasciarlo in infusione per 30'. Idratare i fogli di gelatina. Eliminare la scorza dal latte, riscaldarlo ancora e aggiungere la gelatina ben strizzata. Ridurre in schegge il cioccolato e farlo fondere al microonde. Passare al setaccio il latte caldo e versarlo in tre riprese al centro del cioccolato fuso emulsionando bene fino ad avere una ganache liscia e brillante. Unire la panna semimontata.

Preparazione dei bicchierini
Preparare dei bicchierini alti e stretti come quelli classici da spumante oppure da cocktail. (oppure come i miei) Velare il fondo con un cucchiaio di salsa di fragole. Riporre in abbattitore oppure in frigorifero.
Stratificare la mousse al cioccolato e riporre ancora in frigo. Velare di nuovo con le fragole solo a perfetto raffreddamento allo scopo di mantenere una certa nitidezza nella stratificazione.
Ultimare con uno strato di mousse al cioccolato.

Io ho aggiunto delle scorzette di limone candite: fate bollire le scorzette per 3 minuti in acqua, scolate e lasciate freddare, preparate uno sciroppo con 150gr. di zucchero semolato e 50gr. di acqua, portate a bollore e immergete le scorzette per 2 minuti, scolatele e lasciatele raffreddare. Ripetete l'operazione per 3 o 4 volte.

15 maggio 2011

Vicini

Profuma di una tarda primavera, l'aria della mattina. Un velo di grigio nasconde l'alba, lontano grandi nuvole-pesce galleggiano sopra le colline. Mi siedo nel fresco della terrazza, il profumo del caffè lascia il posto a quello della terra, un profumo gonfio di pioggia imminente. La brezza del mattino ne ha i segni inconfondibili, il volo delle rondini si é fatto più basso, fino a rasentare i tetti delle case, il gatto dei miei nipoti continua a girarmi intorno, si accoccola sul tavolo a poca distanza dalla mia tazza di caffè; ce ne restiamo silenziosi ad osservare le grandi nuvole-pesce che si allungano sotto l'effetto del vento, si schiacciano, si assottigliano e poi scompaiono trasformandosi nel velo uniforme che copre il cielo. Il gatto si Volta verso di me, come a chiedermi che fine possa aver fatto l'enorme pesce, sorseggio l'ultimo sapore, oramai , di caffè, mentre un'espressione incerta e dubbiosa mi si disegna in viso. Restiamo assorti nelle nostre teorie meteo-ittiche non dico una parola, figuriamoci lui.

Una folata di vento Più forte delle altre risveglia il volo delle rondini, lo alza di una decine di metri ma loro picchiano di nuovo verso il basso e tornano a poco metri da noi. Il gatto le osserva, facendo roteare la testa mentre segue il loro volo, ho la sensazione che sia affamato per come reagisce all'avvicinarsi di una rondine più delle altre e al suono della tazzina di caffè che si posa sul tavolo. Ci guardiamo ma senza troppe smancerie, lui lo sa che con me non attacca, le facce piagnucolose di gatto affamato non mi fanno effetto, sono vecchia scuola: topi, sorci, uccelli caduti dai nidi, lucertole, e rospi se proprio siam presi dalla fame. Niente paté al salmone in versione sformatino nouvelle cousine.

Una goccia di pioggia piomba a due centimetri dal mio caffè finito, osservo in giro e ad un paio di metri a terra ce ne un'altra. Il gatto le ha sentite anche lui, si da una stirata allungando le zampe davanti mentre con il muso quasi sfiora il tavolo sul quale ha passato gli ultimi venti minuti. Capisce che il minimo sindacale gli é già stato concesso e allora scivola a terra passando dalla sedia al mio fianco, le gocce di pioggia stanno aumentando e cominciano a lasciare il segno anche sui miei vestiti. Mi alzo dal tavolo, raccolgo la tazza, faccio un cenno al gatto, e per un attimo ho la sensazione che voglia darsi una sfregata sulla mia caviglia sinistra, ma, probabilmente, percepisce la mia sottile disapprovazione e con un cenno della testa si avvia al riparo verso la casa dei suoi padroni. La pioggia sta iniziando sul serio, le nuvole si raggomitolano l'una sull'altra, osservo la collina di fronte, e faccio un fischio al gatto. Lui si ferma si volta e mi guarda, gli faccio cenno verso est, sopra la collina tre grandi nuvole-pesce si sono fermate ad osservare la pioggia che sta arrivando qui da noi. Mi infilo sotto la veranda mentre uno scroscio lo sorprende ad osservare i pesci: ti piacerebbe eh ?!

Un gatto aspetta, le acciughe scappate



Lesso delle linguine Ma-Kaira in acqua abbondante, quando sono al dente le scolo e le salto in padella per pochissimo tempo (meno di un minuto) con un paio di cucchiai di colatura di alici e pinoli tostati. Spengo la fiamma e passo gli spaghetti in una pirofila, aggiungo olive taggiasche denocciolate e pestate al mortaio grossolanamente, pomodorini secchi sott'olio, e un paio di cucchiai per persona di mollica di pane tostata (in padella o al grill). Aggiungo prezzemolo tritato e una grattata di parmigiano. Servo tiepidi, in estate anche a temperatura più bassa se non freddi.

Per i pomodorini secchi sott'olio
Taglio a metà i pomodorini piccadilly o ciliegino, li dispongo su di una placca coperta da carta forno. Metto in forno a 65°/75° gradi finché non saranno giustamente disidratati: 4/6 ore, a me non piacciono eccessivamente secchi, lascio raffreddare e poi li metto in vaso con origano un paio di spicchi d'aglio e un peperoncino coperti da olio evo. Dopo una settimana passata in frigorifero sono pronti ad essere utilizzati.

19 aprile 2011

Ultimate

Fossi il bambino che sono stato, fosse il tempo del tempo passato.
Mi stropiccerei gli occhi, nella luce grigia di un mattino di quasi primavera, nel risveglio caldo di coperte e di imbottite in una stanza fredda di sole che deve arrivare. Guarderei l’espressione beata dei miei fratelli dormire al mio fianco, la testa ribaltata all’indietro, la bocca spalancata. Scivolerei silenzioso dal letto enorme sul pavimento gelato, a piccoli passi scalzi correrei in cucina, nel caldo abbraccio della stufa accesa.

Fossi l’uomo che sono, fosse il tempo che è.
Mi piegherei sul sonno dei mi figli le bocche spalancate in un sonno senza pensieri. Me ne scenderei in cucina quando ancora la luce del mattino e solo una striscia grigia contro il profilo della collina di fronte. Il piacere di preparare la colazione a chi ancora dorme di sopra.

Fossi l’uomo che sarò, fosse il tempo che verrà.
Mi asciugherei gli occhi dalle lacrime della stanchezza, nel buio di un giorno che non arriva, resterei solitario ad aspettare un sole distante. Il tepore tiepido di un caffè che si fredda, la solitudine che imprigiona i pensieri. Chissà se ci sarà ancora:

La colazione di Pasqua



Di tutto quello che c'è nel piatto vi sparo la versione definitiva e ultima della pizza di Pasquaal formaggio, come si fa nell'entroterra marchigiano, questa ricetta annulla e sostituisce tutte le altre di questo blog, e giuro che non la modificherò più, essendo la mia ricerca della perfezione conclusa e giunta al termine.


gr 320 di lievito madre rinnovato due volte (con un giorno di riposo ad ogni rinnovo)
gr 350 di farina tipo Manitoba
gr 350 di farina tipo "0"
gr 80 di pecorino romano grattugiato
gr 250 di parmigiano reggiano stagionato (almeno 24 mesi) grattugiato
gr 250 di pecorino fresco tagliato a pezzi
gr 70 di strutto
gr 50 di olio evo
gr 18 di sale
gr 10 di pepe
gr 12 di zucchero
nr 7 uova intere
gr 140 di acqua
gr 12 di lievito secco

Sciogliete il lievito madre nell'acqua tiepida insieme allo zucchero e al lievito secco. Iniziate ad impastare (con la macchina a vel 1 e con il gancio, altrimenti a mano) e aggiungete farina poco alla volta e le uova alternandole con la farina, lasciandovi qualche cucchiaio di farina da parte. Aggiungere i formaggi grattugiati, e una volta incorporati, anche il sale e il pepe. Aggiungere l'olio e lo strutto avendo cura che il primo si sia ben assorbito e aggiungendo un poco di farina messa da parte in precedenza. Lasciare impastare (aumentando la vel a 1,5) fino ad incordatura.

Mettere l'impasto in una ciotola e tenerlo ad una temperatura di 26° fino al raddoppio (circa 1/1,5 ore).

Ribaltare l'impasto su un piano infarinato, spezzarlo (con questa quantità vi verranno 3 pizze di media grandezza), sgonfiarlo e dargli le pieghe . Prima di effettuare le pieghe disporre il pecorino fresco a pezzettoni, in modo che le pieghe lo incorpori all'impasto.

A questo punto mette l'impasto nei contenitori imburrati o "instruttati", e lasciate a lievitare a temperatura di 22° 26° per almeno 3/4 ore.

Infornare a 200°/210° per 20 minuti e poi abbassate a 180° per altri 35/40 min. Provare la cottura con uno spiedino di legno.


A questa colazione mancano solo le uova sode colorate, voi aggiungetele, e tenete viva questa tradizione di una terra che pian piano scomparirà.



Se siete curiosi chiedete. Buona Pasqua

12 aprile 2011

Fame

Ho fame.
Il pensiero mi si fissa nella mente all’improvviso , inaspettato. Freno nel caldo della a-quattordici direzione nord, estate anticipata anche nel traffico, condizionato dai lavori della terza corsia che durano da un anno e lo faranno per altri tre.
Non è una fame da cibo però. Nel senso che se penso di fermarmi al prossimo autogrill a mangiare un panino tra Civitanova e Porto Recanati, la fame mi passa.

La coda avanza con una lentezza pachidermica, la radio racconta di come affrontare l’adolescenza dei propri figli, sento gli occhi di Lella, al mio fianco, che scrutano la mia espressione. Uno psicologo elenca le cinque cose che un genitore dovrebbe fare, ad ogni voce dell’elenco il mio sorriso si allarga: “celo tutte”. Guardo mia moglie, questo non vuol dire che siamo bravi genitori, è come quando vai a fare una prova da sforzo cardiovascolare, il mio amico cardiologo mi ricorda sempre, che si va tutto bene, ma che il giorno dopo potrei morire d’infarto. Son soddisfazioni !

Il senso di fame sta tornando, mentre il monte Conero mi appare di fronte sulla destra, la sua gobba possente che si tuffa nel mare di un azzurro assurdo, se guardo lontano il cielo e il mare sono un tutt’uno. E quel senso di fame si acuisce.
Accelero, ora so dove andare: il sole, il mare una giornata come questa non possono che portarti laggiù, come quando eri ragazzo.

Avranno aperto ? Il dubbio aleggia nell’aria. Qualcuno avrà aperto con una giornata così come fai a non andare a:

PORTONOVO



Scendi giù dalla piazzetta prendi sulla sinistra, certo puoi andare anche diritto verso il "Fortino" e verso "il Clandestino" di Moreno Cedroni, ma mi spiace, la Portonovo vera, quella di noi ragazzi che facevamo "seghino" a primavera per venire fin qui, è quella che scende a sinistra verso Anna, Marcello, Emilia e Giacchetti.


E' la Portonovo del costume da bagno al posto delle mutande, di un asciugamano nascosto nella borsa della scuola, del "mamma guarda che questo pomeriggio non torno che vado a studiare da un amico". Dell'autobus che ti porta fino al Poggio e poi giù a piedi, o della vespa "ETR" che l'amico "ricco" sfoggia soddisfatto e che va bé pe' stavolta te porto. E' la Portonovo passata, dove un piatto "de ciavattoni" o de "tajatelle" ce lo facevano per cinquemila lire con l'acqua pure.



E' talmente caldo che rinuncio al tavolo fuori a picco sotto il sole e mi rifugio nel fresco dello chalet. Mi sembra quasi fantastico che chi mi serve al tavolo, possa essere lo stesso che lo faceva più di trenta anni fa: facce scolpite nella memoria del tempo, inconfondibilmente ritrovate ogni volta.


Magari il menù è cambiato ma alcune cose son lì, scolpite sulla pietra come la faccia del cameriere: "i Moscioli con le mollighe", "i Sardoncini scottadito" e "i Ciavattoni sol sugo de mare".


Magari con quelle vecchie cinquemila lire oggi ci fai più poco, magari è il prezzo del biglietto per fermarti lungo la salita, prima di tornare a casa, a guardare un'ultima volta quella striscia di sassi bianchi e quel mare di un azzurro assurdo, che se guardo lontano il cielo e il mare sono ancora un tutt’uno.


Portonovo (Ancona)

06 aprile 2011

Corsia 1

All’inizio era nella “pozza”. Ottanta centimetri di acqua invasa da post neonati sguazzanti e schizzanti. Lui quasi decenne, un po’ in disparte, l’acqua a lambirgli la pancia, le braccia conserte, cuffia e occhialini calzati. Espressione tra la commiserazione e l’incazzato, per tutti gli schizzi che gli arrivavano. Quattro lezioni in cui ci si è messo di “buzzo buono”: galleggiamento, sbattimento, schiumeggiamento, annaspamento; alla quinta lezione è stato trasferito nella piscina grande.

“Non tocco !” mi ha detto al telefono dopo la prima sessione nel piscinone. La voce aveva una nota di leggera preoccupazione, un qualcosa che mi ha fatto dubitare sul fatto che “annaspamento” sia un sinonimo di nuoto. Attaccarsi al bordo alla fine di ogni vasca, con leggera indifferenza da nuotatore navigato, suggerii indifferente al tono preoccupato. Rimorsi a non finire e immagini di affogamenti vari.
“E’ lunga !” è stato il commento dopo la seconda lezione. L’ho rassicurato suggerendogli pause di riposo tra una vasca e l’altra, che saranno mai venticinque metri. Bé io che non ho la tecnica, tengo la prima vasca ma a metà della seconda comincio a sentirmi un filino pesante.
“Vado storto !” terza lezione, commento tombale. Preoccupazione della mamma sulle capacità natatorie del pargolo e su difetti di fabbricazione legati a orecchi, equilibri e chiocciole varie. Nuota te a dorso la prima volta e vammi dritto come un fuso, ho rassicurato per procura telefonica tutta la famiglia.
“Non mi muovo !” alla quarta lezione immagino una sindrome da regresso natatorio. Mi sorgono dubbi di fisica e di dinamica dei fluidi: può una massa di acqua dieci volte superiore ad un’altra influenzare il movimento di un corpo che in essa viene immerso e subisce una spinta costante? “Questa rana proprio non mi riesce !” Ah ecco, era la rana che non lo fa muovere.

Alla quinta lezione presenzio con un giorno di ferie per osservare il giovane natante. Mi seggo sulle gradinate della piscina e lo vedo entrare in acqua nella corsia più lontana da me: la numero otto. Metà dei natanti di quella corsia hanno tutti la cuffia uguale al giovane sotto osservazione, l’altra metà simile. Però riesco comunque ad individuarlo: nel libero, stile che gli si addice di più, invece di fare tutta la vasca fa una sosta alle scalette della piscina: recupero netto di quattro metri complessivi. Nel dorso, che va molto migliorato, rimedia, per ogni vasca, due craniate al bordo di cemento e due invasioni di campo sulla corsia sette, ma non è vietato e non è fallo. Nella rana, nonostante la partenza in “pole” viene doppiato inesorabilmente, causa gambe non sincronizzate nella spinta e testa che asincrona respira nel momento sbagliato.

La sera me lo prendo in camera sua, lezione di vita natatoria. Le scalette non servono, dal lì manca solo una bracciata e ora sei talmente bravo che puoi farla senza problemi (autostima). Sul dorso guarda il soffitto di tavole di legno, prendi una striscia di tavole e seguila (concentrazione). Per la rana simuliamo fino a notte fonda il movimento prima in piedi nella stanza uno di fronte all’altro e poi su uno sgabello (problem solving).

Dopo qualche lezione ancora nella corsia otto, l’altro giorno mi chiama la genitrice, con voce fiera mi spiega che è arrivato un altro maestro, ha detto al nostro natante di farsi una vasca a dorso e una a rana. Non ha craniato contro il bordo della piscina e non ha fatto invasioni di campo, il tempo della rana era uguale a quello del dorso e la testa usciva sicura sulla spinta delle gambe. Il nuovo maestro lo ha fatto uscire dall’acqua senza spiegazioni. Mi è stato raccontato che il piccolo pesce aveva un’espressione triste e impaurita tipo “e adesso che ho fatto?” E’ stato invitato a prendere il suo accappatoio e a seguire il nuovo maestro, mentre la maestra di sempre lo salutava con un sorriso, e lui continuava a non capire.

Il telefono ha squillato dodici minuti dopo la fine della lezione, ho simulato indifferenza e distacco mentre la vocetta del natante diceva tutta soddisfatta: “Papà ?!... Corsia Uno… con quelli grandi!”


Fish&Chips


Il trucco di questo piatto sta tutto nel farlo sembrare o il più britannico possibile, o l'esatto contrario a seconda dei gusti. Personalmente le poche volte che ho avuto l'ardire di testarlo in terra britannica ho sempre trovato la panatura o la doratura, a seconda, carica di olio. E si che se ben fatto alla fine piace e aggrada tanto quanto un cartoccio di polpette. Ma parliamo della ricetta.

Le patate: farinose e tagliate abbastanza grandi (diffidate da chi ve le rifila per farle piccole) io le scotte due minuti in acqua bollente, le asciugo bene e le friggo in olio di semi a 180°. Per questo piatto mi piacciono poco croccanti onestamente.
Per il pesce: Merluzzo tutta la vita, se possibile tranci di filetto di animale di grandi dimensioni, carne più consistente, altrimenti filetti interi di merluzzetti locali (quelli in foto) ATTENZIONE: estremamente delicati e a rischio di rottura, ma di una dolcezza impagabile. A mali estremi anche filetti congelati, ma proprio estremi.
Il filetto di pesce, dopo esser stato asciugato anche esso, va passato nella pastella. Io preferisco la pastella alla panatura.
Per la pastella: un uovo che va battuto con un pizzico di sale, 100 gr di farina "00" e acqua gassata (la più gassata che trovate in commercio) e ghiacciata, talmente ghiacciata che io la metto in congelatore per un 40 minuti e poi la utilizzo fino ad avere una consistenza bella cremosa della pastella. Passo il pesce velocemente e lo friggo prima che si alzi la temperatura della "crema".


Servo subito senza salse e senza limone ma con una spolverata di sale appena.

The little big Fish !!!!

28 marzo 2011

Bread of Life



Il tassista si ferma di fronte a me, stand numero due di Hung Hom, direzione penisola. Da poco è iniziato a piovere, una pioggia leggera ma insistente. Aspetto che il tassista scenda per prendere la mia valigia e caricarla nel bagagliaio. Ma invece di fare tutto quello che viene in mente a me, si mette a mangiare da una tazza di cartone apparsa dal nulla. I bastoncini infilano noodles in bocca come una linea di montaggio, immagino il rumore del risucchio che li fa sparire come fossero animati di vita propria, busso un paio di colpetti sul vetro, si volta mi guarda come se fossi un imbecille sotto la pioggia, senza ombrello e senza giacca a vento. Gli urlo in inglese se può scendere a caricare la mia valigia. In tutta risposta vedo il cofano rosso aprirsi invitante, rinuncio, smoccolo e giro intorno all'auto, sbatto la mia valigia nel bagagliaio con cattiveria, le sospensioni oscillano, per un attimo mi sfiora il desiderio che un angolo tagliente riesca a sfondare, la bombola di gas che alimenta tutti i taxi di Hong Kong. Un' esplosione, una palla si fuoco e ciao noodles.

Salgo, il tempo di chiudere la portiera e dò l'indirizzo del mio albergo al mangiatore di spaghetti di riso. Quello non capisce, ripeto: Nome_dell_albergo, Strada_dell_albergo, che per un intersezione interplanetaria hanno lo stesso identico nome: Nathan, hotel il primo road il secondo.
Niente.
Caccio il telefonino apro "Google Maps" zummo sul mio albergo in modo che i caratteri cinesi siano ben visibili. Fuori la pioggia è aumentata, figure confuse corrono oltre il parabrezza del taxi, le gocce riempiono l'abitacolo del loro trambusto, un paio di mani sono rimaste paralizzate su altrettanti clacson, che tutto possono, tranne che agitare il mangiatore di spaghetti cinesi. Guarda il mio telefonino senza guardarlo. E poi come se calasse un carico da undici all'ultima mano di briscola al bar, mi spiega che se pronunciassi meglio i nomi in inglese lui avrebbe capito sicuramente. Mette la prima, parte e nel farlo riempie di totale soddisfazione i suonatori di clacson, convincendoli che lo strumento infernale ha veramente superiori poteri nel far smuovere il traffico di questa città.

Affondo triste nel sedile nero, stile divano di nonna in puro "scai", al mio fianco giace abbandonata una copia del China Daily, la data è quella di oggi, ma sono talmente incazzato che leggo senza leggere, d'altronde se la pronuncia non è perfetta non oso immaginare il resto. Ogni volta che abbasso il giornale per voltare pagina vedo lo sguardo soddisfatto del "driver" spiarmi sullo specchietto "fish-eye". Scorro il summary delle tragedie del mondo e alla terza o alla quarta pagina scopro che è morta Liz Taylor, per un attimo non capisco, non ricordo se era morta da molto, e allora questo è un anniversario, oppure no.
No. Se ne è andata mentre ero in giro per la Cina. La foto a colori mostra fans piangenti che carezzano la sua stella sul marciapiede di Hollywood. Invece la foto sulla pagina appena a destra ma in bianco e nero, mostra la cartina del Myanmar e il titolo informa di almeno settantacinque morti per una scossa di terremoto, almeno, forse, comunque in bianco e nero.

Il mangiatore di spaghetti ha parlato. Lo guardo nello specchietto mentre mi sento chiedere un "Sorry ?" gentile, lui fa la faccia sofferente e mi chiede quanti bagagli ho caricato. Sfoggio il più stronzo dei miei sorrisi "I don't remember. If you don't load them, you never know how many there are". Stavolta ho la sensazione che la pronuncia sia stata quasi perfetta, la sua faccia vale quanto un otto stampato sul registro di quando andavo a scuola.

Scompaio di nuovo dietro il giornale, fuori mi corrono incontro i grattacieli della penisola, le insegne dei negozi mi passano sopra, protese in mezzo alle strade come braccia allargate alla ricerca di clienti. La cacofonia ovattata di questa fornace umana mi ronza in testa come un acufene, è questione di stile di Lifestyle o di Lifefood come recita il paginone centrale del giornale, diagnostica il male del vivere moderno, consiglia la cura anche per la l'anima, sopratutto per l'anima. Grazie già fatto.

Bread of Life





14 marzo 2011

Un campo di papaveri


C’erano quattro piccoli sassolini incastrati tra le pieghe della ferita, poi altri più piccoli che l’ultimo goccio d’acqua della bottiglia non era riuscito a togliere. Usando la punta di un mignolo staccò un paio di pietruzze, le più grandi, le altre si continuavano a mischiare con il sangue che tornava ad uscire copioso, dal ginocchio devastato dalla caduta. Caduta ! No non era stata una caduta era stato un tuffo spettacolare ma non era servito a niente.

Era andata bene per quasi tutta la partita, loro se ne erano stati rintanati nella loro metà campo a difendersi dagli assalti dei suoi compagni. Lui era restato fra i pali della porta a guardarli giocare, attento ad ogni traiettoria della palla. Aveva scambiato due chiacchiere con il suo stopper: si era informato se quella sera si sarebbero ritrovati al “circolo”: il bar del paese. Si chiamava così perché era il circolo sociale dei lavoratori della miniera e potevi entrare solo se tesserato, ma entravano tutti. Il sabato sera si ballava pure, e anche quel sabato. Quando lo stopper si era allontanato, risalendo fin quasi al centro campo lo aveva provato a chiamare, non tanto per la compagnia ma perché uno stopper a centro campo non è uno stopper.
Così aveva chiacchierato con Franco che dalle tribune era venuto a vedere la partita dietro la rete della sua porta. Più che chiacchierare aveva risposto a monosillabi alle sue insistenti domande: chiedeva di tutto, qualsiasi cosa gli passasse per l’anticamera del cervello. Ma la cosa che proprio aveva colpito Franco, erano i suoi guanti di pelle. Non si capacitava proprio del perché avesse bisogno di quei guanti con il caldo che faceva quel giorno. Franco era proprio indietro, non li metteva mica per il freddo, che ne sapeva lui.

La domenica prima l’Ambrosiana Inter aveva vinto il suo quinto scudetto, aveva giocato a Bologna in casa dei leoni e aveva vinto per due a zero, quando la domenica, ancora prima, aveva perso in casa con il Novara e la Bologna era andata a vincere a Genova contro il Liguria. Facile certo, quelli erano già retrocessi, morti, scomparsi, in serie B. Si erano ritrovati all’ultima di campionato con gli stessi punti, l’Ambrosiana e la Bologna, e lo scontro diretto in casa loro. Da infarto. Aveva sentito la partita alla radio e nella canicola del due giugno del quaranta, Perucchetti le aveva parate tutte, non se ne era fatta passare neanche una. E in quella partita, portava un paio di guantoni, così aveva detto il radio cronista, nonostante il caldo. Magari non di pelle come quelli che indossava lui, che erano di suo padre.
Ma vuoi mettere, qui fra questi due pali, biondo con gli occhi azzurri, i guanti infilati e lei sulla gradinata, che continua a fissarlo, a non staccargli gli occhi di dosso. Lui che si muove saltellando, poi si pianta al centro di quella riga tirata con il piede nella polvere di giugno. Le gambe piegate, i muscoli tesi pronto a tuffarsi in un volo plastico e leggero, sulla palla che arriva. Disteso verso l’angolo in alto a sinistra della porta, la dove c’è lei seduta sulla gradinata. Un vestitino bianco con dei grandi fiori rossi, come i papaveri nei campi di grano qui sotto, le ginocchia raccolte fin quasi al petto, ogni tanto la testa che si piega in uno sguardo sognante e lontano. E allora lui si ferma a fissarla, la guarda negli occhi, perché da qui, da questi due pali, è più facile farlo, che non quando gli sta vicino e si vergogna come un cane.

Ma le palle non arrivavano, Giovanni lo stopper, era riuscito a bloccare tutte le discese del centravanti avversario, ma ogni volta aveva faticato più di quella prima. Se stai al centro campo non fai lo stopper, e per fermare gli avversari devi correre come un deficiente. Ecco era un deficiente, lo aveva chiamato e richiamato, gli aveva detto di rientrare, di stare più vicino. Aveva urlato anche all’allenatore ma quello aveva fatto un gesto con la mano come per dire: ma dai tanto è finita. Finita un par di palle, appunto. Aveva visto il loro terzino destro rubare palla sulla sua fascia, proprio sotto le case del paese, una manciata di secondi dalla fine. Era venuto giù diritto come un fuso, passando sotto al proprio pubblico, che stava in piedi sul terrapieno sopra al campo. Quelli avevano urlato come i matti, fin quasi a farsi scoppiare le vene del collo. Giovanni aveva tagliato la metà campo con una diagonale verso la sinistra ad intercettare quel terzino. Rosso e sudato, gli occhi strabuzzanti. Il pubblico aveva urlato di più, e il terzino si era allungato la palla di un metro, persa! Invece no, quel metro di spazio gli era servito a saltare le gambe di Giovanni, che in scivolata, sfinito, cotto e spompato, puntava diritto le caviglie dell' avversario. Il terzino era passato, più fresco di novanta minuti passati a giocare corto invece che a recuperare. Era passato e correva.

Dopo aver saltato i tacchetti di Giovanni, aveva corretto la sua traiettoria centrandola appena verso il suo centravanti, il quale tranquillo come se si fosse alzato da un tavolo di bar, si stava preparando al cross. Neanche l'ombra dei suoi compagni, neanche un difensore a tenerlo, non tanto marcato, ma anche solo "osservato", macché erano tutti verso la metà campo in recupero rossi come pomodori maturi in mezzo ad un campo, ma di calcio. Lui si era spostato sulla destra per coprire lo specchio della porta da quel lato, pronto al tiro dell’attaccante. Invece quel terzino del cavolo, con l’ultimo filo di respiro rimastogli in gola, aveva caricato il destro, e mollato un tiro che aveva preso anche un effetto di esterno.
La palla non era veloce, ma era dall' altra parte, lui aspettava il centravanti e invece era stato il terzino a tirare. Fanculo ai terzini!

Si era tuffato, proprio come nei sogni ad occhi aperti, era volato nell’angolo verso la tribuna e aveva visto oltre la rete, il vestito bianco con i papaveri rossi. Aveva sentito la palla sfiorargli la punta delle dita, ma la pelle del guanto non aveva fatto presa su quella liscia del pallone di cuoio. Poi aveva sentito un urlo, una bestemmia, un insulto, il dolore al ginocchio sinistro, la polvere calda di giugno che entrava nel naso, negli occhi e in bocca. Aveva visto l’arbitro con le due braccia alzate, indicare verso la miniera, il suo allenatore che menava calci al secchio dell’acqua, Giovanni che lo guardava sdraiato sulla fascia, e tutta la squadra avversaria raccolta in una massa intricata di teste e mani confuse che saltava in mezzo al campo.

Le altre pietruzze non se ne volevano andare, magari più tardi suo padre, infermiere, ci avrebbe passato una garza sopra, imbevuta di tintura di iodio. Lei invece se n’era andata quasi subito, quando aveva alzato lo sguardo, confuso tra la polvere del campo, le tribune erano quasi vuote, come se la gente non aspettasse altro, e i papaveri su quel vestito bianco non c’erano già più. Aveva aspettato che i suoi compagni se ne fossero andati, i musi lunghi con lui. Era restato sul prato tra il campo e la strada, finché anche anche il rombo sordo del Gilera Sirio dell'allenatore si era perso verso il paese. Si tirò in piedi a fatica, il ginocchio dolorante, era quasi ora di cena, zoppicava vistosamente e il dolore era più di quanto si era immaginato, e forse stava anche aumentando. Fortuna che casa sua era proprio sopra il campo sportivo ! Alzo lo sguardo e nell’ombra degli alberi, che costeggiavano la strada, vide la figura minuta di sua madre che lo stava aspettando, intorno gli trotterellava sua sorella più piccola: due anni appena, l’ultima di loro quattro. Già gli correva incontro a braccia larghe gridando il suo nome: Checco, Checco, Checco…

L’aria era tiepida, un cielo terso stava colorandosi di sfumature giallo rossastre, il sole tramontava dietro il monte del Doglio, prese la sorellina per mano. La sera cominciava a profumare di fresco, non sentiva più l’odore della polvere del campo, ma ora era il basilico dell’orto, i fiori di sambuco lungo la strada e quello più dolce della cena che arrivava da casa, fanculo agli stopper!

Il Coniglio in Padella


Prendete un coniglio di quelli buoni, magari di casa come diciamo noi. Dopo averlo lasciato per qualche ora in acqua corrente fredda, lo asciugate bene e con una mannaia lo fate a pezzi, considerate che un coniglio medio vi rende un 12 pezzi circa, più chiaramente il fegato, il cuore e i reni (non si butta nulla, anzi). In una padella (o una casseruola) antiaderente, mettete circa 50/60 ml di olio evo, fiamma media, 4/5 spicchi di aglio "vestiti", un rametto di rosmarino spezzettato, salvia a piacere, appena l'olio è bello caldo mettete i pezzi di coniglio e alzate la fiamma. Fate rosolare ben bene, 15 minuti, salate, pepate e poi sfumate con 120/150 ml di vino bianco secco. Lasciate evaporare per un minuto, abbassate la fiamma e coprite con un coperchio. Lasciate cuocere per un'ora e mezza circa. Già basterebbe così, ma se volete a 30 minuti dalla fine della cottura, potete aggiungere una manciata di olive per decorare e insaporire questo piatto che è terra di questa terra, come la polvere di quel campo.


Note a margine:
Checco era mio zio. Era nato nel ’21, ed era un bel ragazzo, alto, biondo e con gli occhi azzurri, ed era un grande portiere. Due giorni dopo quella partita, che magari non fu mai giocata, a tutta la sua generazione sarebbe cambiato il mondo. Non si sposò mai, forse aspettando un campo di papaveri.

06 marzo 2011

Son mia de Venezia


“E tu da cosa sei vestito ?”
A parlare è stato Zorro. Ha la maschera tirata sulla fronte e sulla barba disegnata con un pennarello, ci sono evidenti tracce di zucchero a velo.
Guardo alle sue spalle sul tavolo dei dolci, non ho visto nulla con lo zucchero a velo. E' la festa di carnevale di tutta la scuola e la ricreazione dura di più. Possiamo stare a scuola vestiti con le maschere, e poi mangiare i dolci che le mamme hanno portato, e che i bidelli hanno messo su due tavoli nel corridoio. C'è una confusione terribile, bambini che corrono e si buttano per terra, lotte tra pirati, cauboi che inseguono indiani, coriandoli che volano, e che rimangono attaccati al miele delle castagnole. Ne ho dovuto buttare una perché non riuscivo proprio a staccarli tutti, i coriandoli. Peccato !

“Allora ? Da cosa sei vestito?” L’Arlecchino che gli sta di fianco continua ad ingollare un maritozzo ripieno di panna e nutella. E’ un Arlecchino sui generis piuttosto grassottello, ha un manganello di plastica giallo e rosso, infilato nella cintura che è scesa, in maniera preoccupante, sotto il ventre piuttosto prominente.

“Sono vestito da Brighella”
Zorro, mi scruta con aria interrogativa. Arlecchino non fa una piega, la panna sguscia da un lato della bocca, mentre assesta un morso al maritozzo. E’ velocissimo: sposta il boccone sulla destra e poi con la lingua raccoglie la panna che sta per finire per terra.
“E chi sarebbe Brighella ?!” mi fa Zorro curioso.
“E’ un amico di Arlecchino” gli rispondo felice che qualcuno finalmente mi rivolga la parola e faccia amicizia con me.

Zorro mi guarda dubbioso, si volta verso Arlecchino e gli chiede: “Ma lo conosci?” Arlecchino sta finendo il maritozzo e con la bocca piena muove la testa in segno di negazione, ingoia il mezzo maritozzo e sentenzia biascicando che io non faccio la Quinta A.
“E’ che Brighella è amico di Arlecchino nella storia! Non qui a scuola.” tento di spiegare.
“Che storia ?” Chiede Arlecchino, con la bocca ora libera di parlare

“La storia delle maschere no !” faccio io “Tu sei di Venezia” e indico Arlecchino “Mentre io venivo da un altro posto vicino a Milano mi pare, e poi ci siamo conosciuti.”
Zorro è costernato, piuttosto confuso. Infila la spada nella cintura del vestito fa cadere il cappello sulle spalle, che rimane legato con il laccetto sul collo.
“Guarda che lui non è di Venezia!”
“Eh no è! Io so de Falcunara alta ! E poi ‘ndo è che ce semo conosciuti ?! Io è la prima volta che te vedo ! ”

Lo avevo detto a mamma che questa maschera non l’avrebbero capita i miei compagni di classe. Ma lei è andata a cercare sui libri qualcosa di originale che nessuno avrebbe avuto, appunto ! Ha comprato la stoffa e mi ha cucito la maschera, cappello compreso che non mi sono messo e ho lasciato nella cartella, perché sembra un cappello di un cuoco più che un cappello di carnevale. Mi guardo i pantaloni di raso bianco con delle strisce verdi che si ripetono sulla pancia, anche il mantello “dublefas” bianco e verde, che puoi mettere da una parte o dall’altra, è abbastanza ridicolo. Venendo a scuola ho provato a correre per vedere se volava, ma è troppo corto e pesante per poterlo fare. Mentre quello di Zorro vola anche se sta fermo, nero, lunghissimo e leggero.

Guardo Arlecchino che continua a scrutarmi. “Di dove sei ?” gli faccio
“De Falcunara alta !” ammicco con la testa.
“Era buono il maritozzo? “Arlecchino sorride soddisfatto e mi fa cenno di si.
“Ne voi uno ? Ce ne stanne ancora !”
“Nooo, preferisco le castagnole !“
“Booone !” fa Zorro “C’ henne pure quelle co' lo zucchero a velo sopra ! Noi le chiamemo le frittele“

Ma allora come a Venezia !

E frittoe !


Anche in questo caso voglio sentire le voci fuori dal coro: E Frittoe xze tipiche del Veneto ma ogni casa ha la sua ricetta, quindi prego accomodatevi.
Queste sono fatte battendo 3 uova con 150 gr. di zucchero semolato e un pizzico di sale. Ho aggiunto 50ml di Rhum, 50ml di grappa, 50ml di latte, 50ml di olio evo, il succo di un arancia a cui prima avevo grattugiato la buccia per incorporarla nell'impasto. Ho aggiunto i semi di mezzo baccello di vaniglia, 450gr di farina "00", 100gr di uvetta ammollata e 50gr di pinoli. Alla fine ho incorporato mezza bustina di lievito chimico per dolci.
Fritte in olio di semi e mangiate passandole prima in zucchero semolato e poi in quello a velo.


Tempo fa ne assaggiai una versione in una trattoria tipica della Marca Trevigiana che per poco non mi ha steso in terra. Una morbidezza allucinante e un'occhiatura da sogno, in pratica erano solo crosta, fritta zuccherata e dolce, così soffici da sciogliersi in bocca.

Quella volta mi permisi, malauguratamente, di chiedere la ricetta al "paron" dell'osteria con il risultato che per poco non vengo cacciato a pedate. Sono sicuro che erano una versione con lievito di birra, ma penso con lievitazione lunga fino ad ottenere il "velo" ... ti ho sgamato anche se fai (giustamente) il prezioso !

Ah la storia è vera, son sicuro che vado a cercare, a casa di madre da qualche parte ci sta ancora il vestito di Brighella, ma il cappello no, quello l'ho fatto sparire il giorno stesso.