Una risata non mi seppellirà
Ho sempre pensato che come andavo, andavo bene.
Certo non hai nessuno con cui confrontarti quindi vai e dici: ca*** come vado. Le gambe girano, il fiato pompa aria, le ruote volano sull’asfalto, con un fruscio di foglia portata dal vento.
E se qualche volta venivo superato, dicevo: bé mi sembra abbastanza allenato un mezzo professionista. Se poi superavo, bé allora mi sentivo quel’orgoglio adrenalinico scorrere dal petto alle gambe, e passando biascicavo un “’ngiorno” quasi distratto a fiato trattenuto.
Io andavo, e per come andavo, pensavo che andavo bene. Ridevo e per come ridevo, mi sentivo soddisfatto.
Poi è arrivato lui. O meglio lui ci sta da un pezzo, ma era un bambino. Se lo portavo in bici con me, era per fare un giretto intorno casa. Come tutti i papà fanno con i loro bimbi, “Stai attento! Stai vicino al marciapiede! Guarda avanti! Stai diritto !” Cose normali no?
Poi qualche tempo fa l’ho guardato con un occhio diverso, dal basso verso l’alto: è cresciuto. Gli ho detto: “Ti va di venire a farti una pedalata con me ?”
Si è vestito con le mie giubbe invernali da ciclista, che gli stanno larghe e corte, non ha le scarpe con l’aggancio, il cardiofrequenzimetro è troppo largo per il suo petto. Io rido . La prima volta è andata tranquilla, lui un po’ spaventato dal traffico, dalla parole cinquanta e chilometri. Io fuori forma, che facevo da professore: tieni la ruota, fai il cambio, la postura, la curva, la salita, la discesa, il fuori sella, bevi, mangia. E ridevo quando gli gridavo “Tira!”. Ridevo della mia esperienza riversata sul bambino. Tira ! Che io non pedalo.
Ora se ne sta lì davanti a me, seduto a terra a sgranocchiare una barretta. Soffia un vento caldo di scirocco su questo colletto tra lo Strega e il Catria.
Mezz’ora fa eravamo ai piedi di questa salita. E io lo avevo capito che il bambino non c’era più. E che chi mi pedalava a fianco era un ragazzo a cui il traffico non faceva più così paura. Un ragazzo che forte dei consigli del padre, ora “cambiava” e non tirava più fino allo stremo della fatica, si risparmiava. E rideva.
Quando è cominciata la salita me lo sono tenuto vicino: “Non conosci la strada! La salita è impegnativa!” Scuse banali da vecchio capitano spompato, al giovane gregario.
Quando posso andare? Quel sorriso sotto gli occhiali da sole, il baffetto appena imperlato di sudore, la bocca chiusa in un normale respiro nasale. “Quando sulla destra ti trovi un abbazia puoi andare”.
Pedala “frenato”, le gambe potrebbero girare al doppio, ogni tanto si volta a guardarmi, e ride. E io con indifferenza faccio finta di respirare normale, anche se sto andando quasi al massimo. Che mi inventerò dopo? Quando la salita si mette in piedi, e le gambe si inchioderanno? Intanto lui si volta, mi guarda e ride, soddisfatto e contento.
E adesso dietro alla curva appare l’abbazia, non è sulla sua destra, è ancora di fronte, ma è il segnale, e parte. Non si volta neanche. Scarica un paio di rapporti, si alza sui pedali e parte. Se ne va, incurante che la strada davanti a lui sembri un muro, fregandosene che alzando la testa, a sinistra, in alto, sopra di lui, si affaccia il primo tornate, come la prua di una nave messo lì a guardare la valle. Pedala di pancia, di forza, per di niente di testa. Ma a quindicanni della testa te ne freghi.Te ne freghi se il rapporto e così duro che ti scompone, stringi i denti e passi davanti al cartello del dodici percento con una risata beffarda e te ne freghi. E’ stato un attimo, ed è già scomparso dietro la curva, e quando io ci arrivo non lo vedo più. E’ avanti e magari ride, soddisfatto e contento.
Se ne andato, lo sapevo, sono tornato a pedalare da solo su queste salite. Sarà così anche la vita, ad un certo punto si alzeranno sui pedali e partiranno, scattando in avanti, verso le loro salite, verso le loro montagne. E noi fermi lì, a fare cosa? Ad aspettare? Ma per carità! Mi alzo anche io sui pedali, più forte di un tempo, mettendocela tutta, stringendo i denti in una grinta ritrovata. Perché quando arrivo su in cima, non sia troppo il distacco che prendo. Orgoglio di vecchio ciclista incallito. Speranza di padre.
Ora se ne sta lì davanti a me, seduto a terra a sgranocchiare una barretta. Soffia un vento caldo di scirocco su questo colletto tra lo Strega e il Catria. Respiro a fatica spompato dalla rampa, e lui ride soddisfatto e contento “Due minuti e mezzo. Ti ho massacrato”. Ride.
Due minuti e mezzo? Ma allora ancora vado! Per come era partito me ne aspettavo quattro o cinque. Invece due e mezzo sono ancora una speranza. Lo penso in silenzio il viso affranto, per non dare a vedere quel filo di orgoglio che ho dentro, mentre mi tuffo in discesa, stavolta lui dietro spaventato dalla velocità, ma ancora per poco, che ride soddisfatto e contento.
Dai che è ora di pranzo, andiamo a casa a farci una:
Risata con girdiniera e la salsa tonnata
Non vi dico cosa fare del riso, vi dico solo di usare un buon carnaroli, di scolarlo al dente e di freddarlo in un piatto di portata allargandolo bene.
La giardiniera invece è un lavoro da orefice per ottenere una brunoise quasi perfetta, fatta di carota, sedano, zucchina e peperone rosso spellato. Una volta tagliata la verdura va cotta in acqua e aceto 4:1, soluzione che va salata e zuccherata a piacimento. La cottura va fatta separatamente per le verdure, ottenendo una cottura uniforme e che lasci la croccantezza in evidenza. Condite la giardiniera con olio evo buono e correggete di sale se occorre. A parte preparate una salsa tonnata ottenuta con 300gr. di tonno sott'olio buono, e 3 uova sode che hanno bollito sette minuti e mezzo, se vi piace aggiungete un paio di filetti di acciuga sotto sale, ben puliti. Passate al mixer aggiungete olio evo, sale al bisogno e un goccio di marsala.
Servite a tavola lasciando ai commensali il divertimento di incorporare gli ingredienti.
E ridete, perché nella vita non ci si deve prendere troppo sul serio.
Certo non hai nessuno con cui confrontarti quindi vai e dici: ca*** come vado. Le gambe girano, il fiato pompa aria, le ruote volano sull’asfalto, con un fruscio di foglia portata dal vento.
E se qualche volta venivo superato, dicevo: bé mi sembra abbastanza allenato un mezzo professionista. Se poi superavo, bé allora mi sentivo quel’orgoglio adrenalinico scorrere dal petto alle gambe, e passando biascicavo un “’ngiorno” quasi distratto a fiato trattenuto.
Io andavo, e per come andavo, pensavo che andavo bene. Ridevo e per come ridevo, mi sentivo soddisfatto.
Poi è arrivato lui. O meglio lui ci sta da un pezzo, ma era un bambino. Se lo portavo in bici con me, era per fare un giretto intorno casa. Come tutti i papà fanno con i loro bimbi, “Stai attento! Stai vicino al marciapiede! Guarda avanti! Stai diritto !” Cose normali no?
Poi qualche tempo fa l’ho guardato con un occhio diverso, dal basso verso l’alto: è cresciuto. Gli ho detto: “Ti va di venire a farti una pedalata con me ?”
Si è vestito con le mie giubbe invernali da ciclista, che gli stanno larghe e corte, non ha le scarpe con l’aggancio, il cardiofrequenzimetro è troppo largo per il suo petto. Io rido . La prima volta è andata tranquilla, lui un po’ spaventato dal traffico, dalla parole cinquanta e chilometri. Io fuori forma, che facevo da professore: tieni la ruota, fai il cambio, la postura, la curva, la salita, la discesa, il fuori sella, bevi, mangia. E ridevo quando gli gridavo “Tira!”. Ridevo della mia esperienza riversata sul bambino. Tira ! Che io non pedalo.
Ora se ne sta lì davanti a me, seduto a terra a sgranocchiare una barretta. Soffia un vento caldo di scirocco su questo colletto tra lo Strega e il Catria.
Mezz’ora fa eravamo ai piedi di questa salita. E io lo avevo capito che il bambino non c’era più. E che chi mi pedalava a fianco era un ragazzo a cui il traffico non faceva più così paura. Un ragazzo che forte dei consigli del padre, ora “cambiava” e non tirava più fino allo stremo della fatica, si risparmiava. E rideva.
Quando è cominciata la salita me lo sono tenuto vicino: “Non conosci la strada! La salita è impegnativa!” Scuse banali da vecchio capitano spompato, al giovane gregario.
Quando posso andare? Quel sorriso sotto gli occhiali da sole, il baffetto appena imperlato di sudore, la bocca chiusa in un normale respiro nasale. “Quando sulla destra ti trovi un abbazia puoi andare”.
Pedala “frenato”, le gambe potrebbero girare al doppio, ogni tanto si volta a guardarmi, e ride. E io con indifferenza faccio finta di respirare normale, anche se sto andando quasi al massimo. Che mi inventerò dopo? Quando la salita si mette in piedi, e le gambe si inchioderanno? Intanto lui si volta, mi guarda e ride, soddisfatto e contento.
E adesso dietro alla curva appare l’abbazia, non è sulla sua destra, è ancora di fronte, ma è il segnale, e parte. Non si volta neanche. Scarica un paio di rapporti, si alza sui pedali e parte. Se ne va, incurante che la strada davanti a lui sembri un muro, fregandosene che alzando la testa, a sinistra, in alto, sopra di lui, si affaccia il primo tornate, come la prua di una nave messo lì a guardare la valle. Pedala di pancia, di forza, per di niente di testa. Ma a quindicanni della testa te ne freghi.Te ne freghi se il rapporto e così duro che ti scompone, stringi i denti e passi davanti al cartello del dodici percento con una risata beffarda e te ne freghi. E’ stato un attimo, ed è già scomparso dietro la curva, e quando io ci arrivo non lo vedo più. E’ avanti e magari ride, soddisfatto e contento.
Se ne andato, lo sapevo, sono tornato a pedalare da solo su queste salite. Sarà così anche la vita, ad un certo punto si alzeranno sui pedali e partiranno, scattando in avanti, verso le loro salite, verso le loro montagne. E noi fermi lì, a fare cosa? Ad aspettare? Ma per carità! Mi alzo anche io sui pedali, più forte di un tempo, mettendocela tutta, stringendo i denti in una grinta ritrovata. Perché quando arrivo su in cima, non sia troppo il distacco che prendo. Orgoglio di vecchio ciclista incallito. Speranza di padre.
Ora se ne sta lì davanti a me, seduto a terra a sgranocchiare una barretta. Soffia un vento caldo di scirocco su questo colletto tra lo Strega e il Catria. Respiro a fatica spompato dalla rampa, e lui ride soddisfatto e contento “Due minuti e mezzo. Ti ho massacrato”. Ride.
Due minuti e mezzo? Ma allora ancora vado! Per come era partito me ne aspettavo quattro o cinque. Invece due e mezzo sono ancora una speranza. Lo penso in silenzio il viso affranto, per non dare a vedere quel filo di orgoglio che ho dentro, mentre mi tuffo in discesa, stavolta lui dietro spaventato dalla velocità, ma ancora per poco, che ride soddisfatto e contento.
Dai che è ora di pranzo, andiamo a casa a farci una:
Risata con girdiniera e la salsa tonnata
Non vi dico cosa fare del riso, vi dico solo di usare un buon carnaroli, di scolarlo al dente e di freddarlo in un piatto di portata allargandolo bene.
La giardiniera invece è un lavoro da orefice per ottenere una brunoise quasi perfetta, fatta di carota, sedano, zucchina e peperone rosso spellato. Una volta tagliata la verdura va cotta in acqua e aceto 4:1, soluzione che va salata e zuccherata a piacimento. La cottura va fatta separatamente per le verdure, ottenendo una cottura uniforme e che lasci la croccantezza in evidenza. Condite la giardiniera con olio evo buono e correggete di sale se occorre. A parte preparate una salsa tonnata ottenuta con 300gr. di tonno sott'olio buono, e 3 uova sode che hanno bollito sette minuti e mezzo, se vi piace aggiungete un paio di filetti di acciuga sotto sale, ben puliti. Passate al mixer aggiungete olio evo, sale al bisogno e un goccio di marsala.
Servite a tavola lasciando ai commensali il divertimento di incorporare gli ingredienti.
E ridete, perché nella vita non ci si deve prendere troppo sul serio.