28 febbraio 2010

Terre diverse, storie simili

Mi mancano le montagne! Se non vedo montagne, mi perdo. Il mio senso d’orientamento si annulla in pianura, in questa pianura che corre veloce lungo questa filo d’asfalto che porterebbe al mare. Lo avessi seguito sarei arrivato al mare, invece seguo l’auto che mi precede, che si infila in stradine strette costeggiate di canali. Sbuchiamo in sputi di paesi, manciate di case, capannoni solitari e poi pianura ancora. Non vedo. Le cose più alte che vedo sono i serbatoi di acqua, che qui, l’acqua, per farla scendere la devi prima far salire. Continuiamo a cambiare strada, scorciatoie che non memorizzo, si va verso il fiume, quel fiume di sassi, che sembra scorrere senz’acqua, ma che poi si ingrossa, ingigantisce e si ribalta sull’uomo.
Il fiume sacro ceduto e riconquistato, poi ricostruito, allagato dai disastri dell’uomo su a monte: “Quanto pesa un metro cubo d’acqua ?”
Andiamo verso l’argine di destra, a confine tra i comuni che da quasi mille anni si scambian capponi il sette di agosto. Prima di arrampicarmi sull’argine leggo una lapide che parla di quell’Ernest che aveva dubbi su per chi dovesse suonare la campana. Salgo, e guido sul culmine di quest’argine come un funambolo che cammina sul filo, mi affaccio sull’ansa a destra, il Piave scorre nero e possente, più dietro il ponte di barche accende i lampioni, il traffico ci passa sopra lento. A sinistra la campagna, fin verso Treviso, e oltre a nord finalmente una striscia più scura, lontane le montagne.

Ho ascoltato i racconti del mio amico,di suo padre e sua madre, ricordi di campagna come i miei, terra diversa ma sempre dura. La certezza matematica che anche qui, alle spalle di quella Venezia ora quasi solo turistica, il maiale è lo stesso maiale che conosco io. Cresce allo stesso modo e muore nello stesso periodo. E’ su quello che fa dopo, che le cose cominciano a definire confini più chiari. Io cito le spallette, i prosciutti, le lonze, le braciole, ma non qui. Qui tutto o quasi finisce macinato e insaccato, questa è terra di soppresse, che chiamarli salami è come dare del prosciutto ad un Culatello. Grosse, dai calibri quasi impossibili, il budello gentile o quello di manzo a farne da camicia, si ma camicia di forza. Ne stendo una fetta sopra un pezzo di pane irregolare, in bocca il calore scioglie il grasso, mastico la sua dolcezza, la sapidità speziata della carne e quel retrogusto che scoprirò poi, segreto di famiglia. Il vino intramezza i bocconi, e ripulisce la bocca al successivo.
Una stagionatura che passa prima dall’umidità calda di tinozze che per sei giorni bagnano il pavimento cosparso di trucioli di abete. La fioritura della muffa e la sua stabilizzazione con l’aria fredda di gennaio e febbraio, e poi la stagionatura. Per ritrovarsi a quasi un anno di distanza ad assaggiare questa unicità.

Lo so è vero, non è ancora tempo di soppressa, i salami son freschi e se son freschi qui ci fanno un'altra cosa, e io me ne invento un’altra ancora:

Salame cotto e polenta, crema di baccalà e riduzione di Piave mezzano



Preparate la polenta il giorno prima, lasciatela in frigo per tutta la notte, tagliatela in dischi di un paio di centimetri, tagliate grosse fette di salame fresco. Scaldate una padella antiaderente e abbrustolite la polenta, poi scaldate il salame una ventina di secondi per parte, quasi che il grasso non deve sciogliere. Tenete in caldo.

Per il baccalà e per 8 persone. In un pentolino antiaderente sciogliete un paio di acciughe sotto sale, che avrete prima lavato e deliscato. Aggiungete 400gr di baccalà ammollato e deliscato anch’esso. Lasciatelo rosolare per una decina di minuti, fintanto che il liquido che produce non si riassorba quasi tutto. Mentre rosola sminuzzatelo con un cucchiaio di legno. Aggiungete 400 ml di latte e lasciate sobbollire per una ventina di minuti.Non salate non serve. Passate il baccalà ad un colino e lasciatelo scolare bene, tenete il latte di cottura da parte, servirà a correggere eventualmente la consistenza. Passate il baccalà con un frullatore ad immersione aggiungendo evo finché non otterrete una crema spumosa. Potete preparare anche il giorno prima, abbiate l’accortezza di aggiungere il prezzemolo tritato solo all’ultimo momento però. Impiattate a piacimento e condite con una riduzione di Piave Mezzano grattugiato e lasciato sciogliere in poco latte bollente e poi raffreddato.



14 febbraio 2010

Quando c'eran i Comunisti

C’è stato un tempo si, in cui ho fatto politica. O almeno così mi sembrava. Un tempo in cui giovane studente iscritto ad una federazione giovanile, affrontavo i massimi sistemi e mi confrontavo con i piccolissimi. Un giaccone a scacchi neri e azzurri, sinonimo di nessuna fede calcistica ma di limitata disponibilità di scampoli. Cucito da mia madre, per economia familiare, con tanto di pelliccetta sintetica sul collo a competere con il freddo umido di Ancona. Una borsa a tracolla, stile militare, vuota di libri, e con pochissime scritte, che sono ancora qui a pensare cosa scriverci sopra. Un’ accenno di barba, il pugno chiuso in corso Stamira, seduto in mezzo alla strada sotto il palazzo della Provincia dove lavorava mio padre. La prima manifestazione a recriminare una scuola che non fosse in un vecchio convento. Una decina di celerini che neanche si scomodorano a tirar fuori i manganelli, ma che ci presero a schiaffi e calci in culo. Politici di oggi, allora estremisti della parte opposta, che osservavano soddisfatti. Ma sì va, che son quasi le una e mi tocca ritornare a casa per pranzo.

Un’ elezione nel consiglio d’Istituto delle superiori strappata con un “c’hanno rotto i coglioni” Io Anconetano emigrato nella scuola di campagna. Una convocazione dal preside perché era meglio non usare parolacce, e un paio di scapaccioni di mio padre che faceva da segretario nella stessa scuola. E poi si senton repressi oggi (!) Una politica passata nella sezione del paese, il direttivo mensile la domenica mattina, la prima giunta di sinistra “ insieme ai comunisti”, lo studio delle delibere settimanali, i consigli comunali, perché non vuol dire forse: “arte di governare la città”? E quel quasi ci siamo, dai che è fatta, stavolta governiamo l’Italia, in quel giugno dell’ottantaquattro il sorpasso impossibile inimmaginabile “l’effetto Berlinguer” lo chiameranno poi. Quell’ esser di sinistra ma non così tanto da farmi votare “si” un anno dopo a quel referendum che divise per sempre la sinistra, ma che riportò l’inflazione sotto le due cifre.

Un “guerreggiare politico” che si combatteva finanche nelle feste di partito, nelle estati paesane, in quelle cucine improvvisate negli spogliatoi del campo sportivo. Una guerra combattuta a suon di menù: noi con due piatti imbattibili un paio di mila porzioni di fagioli con le cotiche e di trippa alla parmigiana. I comunisti, che con senso progressista da “nuvel cusin” tutta indigena, si spingevano fino al mare e al sugo di pesce per condire le tagliatelle. Camei iconografici della politica di quei tempi. Senza contare le salsicce e le braciole che sfrigolavano a moto continuo, ma che erano scontate come il pane, dovevano esserci e basta. Noi a scippare concetti tutti territoriali del comunismo più radicato, un furto a mani basse sulle origini più profonde della sua storia: la piadina con il prosciutto. Loro che rispondevano con una lasagna che poco si prestava alla “provvisorietà” della cucina e del “ristornate” che la serviva, ma che faceva tanto novità.

Poi quell’estate come tante altre estati: superai lo striscione con su la scritta “Festa dell’Unità” preceduta da un numero che non ricordo. Buttai una carta da cinquecento lire nello scatolone con su scritto “offerta libera”. Superai la ruota della fortuna, ammiccai un saluto all’amico, più che compagno, che grigliava salsicce. Ignorai volutamente l’orchestra “Mario Riccardi” con tanto di pullman cinquanta posti sponsorizzato, e andai verso la cassa . Lessi il menù attaccato sul piano del tavolino, con quattro passate di "scotch" e vidi quel piatto. Curioso abbinamento senza politica identità. Ritirai il bigliettino con il numero e con scritto sopra la consumazione. Mi passarono il piatto sformato dal peso del cibo e bollente nel tepore dell’estate di agosto, nell’altra mano un bicchiere di vino rosso ghiacciato, che poco conoscevamo delle temperature di servizio. Mi sedetti sotto il tendone, sordo ai “compagni”, che discutevano di massimi sistemi, affondai la forchetta nel piatto e in quel momento l'orchestra "Mario Riccardi" intonò l'Internazionale, rimasi estasiato, perduto, e vacillante da quel primo indimenticabile boccone di:

Polenta alla Carbonara



Non state a fare storie è chiaro che la mia è una variante di quella che facevano i comunisti, ma d'altronde anche i comunisti son cambiati nel frattempo.
E dunque rimediate polenta del giorno prima, oppure fatela appositamente per usarla il giorno dopo, Oppure compratela già pronta che a volte si può anche fare di queste cose. Per quattro boccucce preparate un soffritto con quattro salsicce, quattro braciole di capocollo e un paio di etti di pancetta affumicata. Se pensavate a qualcosa di "light" cambiate canale. Sciogliete pancetta e salsicce in una casseruola aggiungete il capocollo tagliato a cubetti, fate assorbire il liquido e poi rosolate bene, sfumate con un mezzo bicchiere di vino bianco ghiacciato, (giusto per rimanere in tema). Tagliate la polenta a fette e in un contenitore: teglia, cocottina, formina o quel che volete voi componete il piatto "stratificando" la polenta, seguita dal sugo bene spruzzata di parmigiano e poi ancora polenta a fette e via così. Mettetela in frigo per un paio d'ore, o in congelatore per mezz'ora. Quindici minuti prima di servire toglietela dalla formina passatela nel forno con funzione grill al massimo spolverata di un poco ancora di parmigiano. Nel frattempo preparate una salsa di carbonara: battete due uova intere, salate, pepate aggiungete se piace noce moscata, e parmigiano. Cuocete a bagnomaria finché la crema non diventa densa e conditeci la polenta caldissima.


Eh si quando c'eran i comunisti !

07 febbraio 2010

Un mare che profuma di terra

Non dico nulla. Volto l’auto dalla parte opposta e vado. Dove andiamo ?
Vicino. No anzi lontano, più lontano di quest’alba che buca le nubi alle nostre spalle, più lontano di quanto tu possa immaginare, così vicino che non riuscirai neanche a scaldarti dal freddo di questa mattina. Ma non rispondo alla domanda, non voglio incrinare, questo pezzo di pianoforte che sta passando sul paesaggio che scorre aldilà dei finestrini.

Il grigio degli alberi in questo periodo dell’anno, l’erba dei campi bruciata dal freddo, le macchie di ghiaccio che sbiancano le colline e che più in alto confondo i monti alle nubi. Mi arrampico verso il pesarese, pochi chilometri da casa. Ridiscendo le gobbe del suo entroterra anche un po’ mio, e quando dietro ad un’ altra curva appare il castello dico, lassù.

Lassù in quello scrigno di terra che s’affaccia tra la Marca anconetana e quella pesarese, gravido dei nostri ricordi. Ragazzi sulla soglia degli anni ottanta, lontani dalle metropoli, campagnoli, quasi “contadini”. Che si muovevano con auto, oggi improbabili, tenute assieme da eufemismi meccanici, la ”850” rossa di una madre, la “Giulia 1600 super” che te la lascio per due mesi poi la buttiamo. La buttammo, ma molto prima dei due mesi. I sabati sera qui, a mangiarsi una crescia con le salsicce e le foie. Quel lassù che spompa i polmoni, oggi, quando mi ci arrampico in bici, solo per dire adesso ti faccio vedere.

Quel lassù vuoto in questa stagione, così desolato che il nostro arrivo ferma per un attimo la vita del luogo. La gente si ferma e ci osserva per capire chi siamo. Un buongiorno che magari non fa tornare la memoria, ma che riporta i volti a riaffiorare sull’ increspatura dei ricordi, lo vuole un caffè, accendo la macchina. Un lassù che in estate tra la confusione dei forestieri non ti farebbe neanche rispondere al buongiorno di oggi, altro che caffè.

Quassù per affacciarmi da questa terrazza: il Catria sulla sinistra poi il Nerone e poi quella striscia di colline lontane che scivolano sotto le nubi fin verso il mare: il Montefeltro. Quassù per ricordarmi che il cibo passa per i ricordi, e che se li perdi, perdi i profumi. Per ricordarmi quando mia nonna mi diceva, son buoni ma non sono un piatto nostro: vengono da lontano, dalla terra che c’è tra le Marche e la Romagna. Quassù perché magari si vede anche una striscia di mare e si respirano ancora i profumi di quando eravamo ragazzini. Quassù per tornarsene a casa a preparare i:

Passatelli con il ragù di sgombro


Per 4 persone: in una padella fate imbiondire uno spicchio di aglio, aggiungete una manciate di olive nere denocciolate (taggiasche è meglio), un cucchiaio di capperi dissalati, e poi incorporate quattro filetti di sgombro freschi tagliati a tocchetti, aggiungete un trito di erbe: prezzemolo, basilico ed origano, abbassate il fuoco e lasciate scottare per tre minuti, facendo attenzione a non rompere troppo i filettini di pesce.
Aggiungete dei pomodori pelati BUONI (freschi se è stagione), salate e lasciate sobbollire a fuoco basso e coperto per dieci o quindici minuti.


Preparate i passatelli seguendo la ricetta tradizionale che è qui, visto che si accompagnano al pesce asciutti, evitate la noce moscata e aggiungete circa 100 gr di farina. Dico circa, perché i passatelli sono particolari e per ottenere un passatello consistente e che non si sfaldi in padella bisogna provarlo prima di servirlo: un test di cottura per vedere se modificare l’impasto aggiungendo uova se si dovessero sfaldare mentre bollono o farina se tendono a rompersi dopo la cottura.


Una volta che l’impasto avrà riposato una mezz’ora in frigo, preparate i passatelli con il “ferro” o con lo schiacciapatate, buttateli in abbondante acqua salata e appena riaffiorano scolateli e buttateli in padella per un ultimo salto con il ragù di pesce. Evitate di usare cucchiai o altri instrumenti, servite e godete.


Accompagnateli con un "Bianchello del Metauro" chiudete gli occhi e sentirete parlare questo mare che profuma di terra.

02 febbraio 2010

Pezzi di un ritorno

Torno. Torno a pezzi, come se uno schiacciasassi fosse passato sulle strisce mentre attraversavo. Non scarico valige, non svuoto borse, mi abbandono sul divano solo un attimo, una tappa verso il letto. Scambio il mio con quello di Matti, che più con la gioia di dormire nel lettone, che con la comprensione per il mio malessere, mi spiega, tutto eccitato, che il suo letto è molto meglio se non stai bene.

Mi lascio invadere dai brividi convulsi di una febbre alta che arriva, nascondo la testa sotto le coperte il buio della stanza, il freddo delle lenzuola. Sento aprire un armadio, un' armeggiare difficoltoso e inesperto. Avverto una coperta che viene poggiata sopra al piumone, insufficienti entrambi, e poi un abbraccio piccolo piccolo, una testa vicina alla mia e una vocetta che mi chiede se sento più caldo. Tra poco, puffo, ancora no, ma tra poco si. Restiamo così, non so per quanto tempo, per una volta lui addormenta me.

E non ho cucinato, non riesco a farlo. Giusto queste poche righe per raccontarvi chi ho attorno e questo piatto fatto per loro, prima di partire, un'esperimento più per la gola che per una ricetta vera una sorta di crostata al cioccolato ma a rovescio, meglio un:

Crumble di pere e cioccolato


Ho sciolto a bagnomaria 150gr di cioccolato 70%, insieme a 75 gr. di burro. Ho tolto dal fuoco e ancora caldo ho incorporato 3 uova e 2 tuorli, ho poi aggiunto 150gr di zucchero e 50 gr di farina 00, lasciando raffreddare. Ho sbucciato e fatto a tocchetti un paio di pere che ho saltato in padella con poco zucchero e un cucchiaio di Kirsch. Ho disposto il tutto in ciotole da forno: prima le pere e poi il cioccolato, ho poi cosparso il tutto co un crumble che ho preparato mescolando 100gr di zucchero semolato con 100 gr di farina ho aggiunto 50 gr di burro a pomata e ho lavorato con le dita fino a formare delle briciole irregolari. Infornato il tutto a forno ventilato + grill 170° per una quindicina di minuti