Un' altra terra madre
Ma si che volevo esserci anche io ragazzi. Miseria avrei voluto vedere tutte le cose che avete raccontato, quei cibi belli, piacevoli e sconosciuti. Lo stand del sale e il suo omino, la cipolla che rimette al mondo, le gentile signorina che si aggirava sicuramente in loco. Girare stanco in mezzo al mare di gente, accaldato dalle luci degli stand, le borse piene di cose da provare, a volte anche inutili e modaiole. Sarei voluto essere lì con la mia canon Dqualcosa a scattare foto alla terra madre. Conoscere qualcuno di voi, deludervi con la mia banale presenza, anonima e timida. Lasciarvi l’impressione di me come argomento di chiacchiera.
E invece no, non c’ero.
Cercavo di tenere il passo ad un ometto che mi accompagnava dall’altra parte della strada per farmi vedere dove fosse il metrò, e prima che un taxi rosso e rincoglionito riuscisse a metter fine alla mia breve esistenza, correvo sul marciapiede fino all’angolo, dove lui urlante indicava oltre la strada fuori dalla portata della mia vista, qualcosa di red in un inglese stentato e sdentato.
Ho detto di sì solo per levarmelo di torno. L’ho salutato e fingendomi deciso e mi sono avviato, stanco, lungo il marciapiede. In mezzo ad un mare di gente che mi veniva incontro, accaldato nella serata afosa. Ho camminato in senso contrario per qualche minuto, finendo addosso a chiunque e infilandomi nel flusso regolare a forza di spallate. Ho camminato tra rivoli di acqua ghiacciata che cadevano dagli impianti di condizionamento, in alto oltre il buio di un cielo che non c'era. Ho camminato tra zaffate di puzze, profumi di fiori, tra le urla e le grida, incomprensibili. Ho camminato schivando le pubblicità dei massaggi, e perdendomi in quel caleidoscopio di luci e colori, stordito e dimentico di quelle che può essere il mondo.
E ho pensato che forse anche questo era un salone del gusto, un terra madre, dove la terra non c’è più, mangiata da cemento e macadam, una terra che forse sotto ai piedi, qui, non c'è mai stata.
E invece no, non c’ero.
Cercavo di tenere il passo ad un ometto che mi accompagnava dall’altra parte della strada per farmi vedere dove fosse il metrò, e prima che un taxi rosso e rincoglionito riuscisse a metter fine alla mia breve esistenza, correvo sul marciapiede fino all’angolo, dove lui urlante indicava oltre la strada fuori dalla portata della mia vista, qualcosa di red in un inglese stentato e sdentato.
Ho detto di sì solo per levarmelo di torno. L’ho salutato e fingendomi deciso e mi sono avviato, stanco, lungo il marciapiede. In mezzo ad un mare di gente che mi veniva incontro, accaldato nella serata afosa. Ho camminato in senso contrario per qualche minuto, finendo addosso a chiunque e infilandomi nel flusso regolare a forza di spallate. Ho camminato tra rivoli di acqua ghiacciata che cadevano dagli impianti di condizionamento, in alto oltre il buio di un cielo che non c'era. Ho camminato tra zaffate di puzze, profumi di fiori, tra le urla e le grida, incomprensibili. Ho camminato schivando le pubblicità dei massaggi, e perdendomi in quel caleidoscopio di luci e colori, stordito e dimentico di quelle che può essere il mondo.
E ho pensato che forse anche questo era un salone del gusto, un terra madre, dove la terra non c’è più, mangiata da cemento e macadam, una terra che forse sotto ai piedi, qui, non c'è mai stata.