23 febbraio 2011

Ci sono

Ci sono posti che meritano tempo. Posti a cui non basta una volta, forse neanche due, e che alla terza ancora li senti solo sussurrare. Posti introversi con cui è difficile entrare in sintonia. Ci si rispetta si, ma ai primi approcci ci si tiene a distanza, ognuno dalla sua parte, e chi ti conosce ! Posti un po' metereopatici, che a seconda della stagione, della luce, appaiono diversi, raccontano altre storie, sfuggono, scappano, lontano dalla confusione chiassosa dei vacanzieri, dei bimbi strillanti. Per riapparire poi, come in un lento risveglio, solo quando la folla è lontana, solo quando a viverli sono le poche persone di se stessi, e qualche foresto rimasto ad aspettarli, a sentirli parlare.

A me piacciono i posti così, mi fanno sentire a casa anche se a casa non sono. Mi sembrano culle di solitudine dove lasciar fuggire i pensieri. Grandi fogli di carta bianchi, dove le orme del passeggiare lasciano leggeri segni di consapevolezza, come parole illeggibili, che parlano da sole.

Posti in cui seduto al sole di un tardo pomeriggio, un libro appoggiato su di una gamba, le dita infilata tra le pagine a mo’ di segno, mi lascio portare lontano. Lo sguardo perso, oltre questa terrazza, la strada sotto dove non passa nessuno. Ancora oltre fino al ruscello di acqua gelata che scende silenziosa dallo “Scalettapass”, e oltre a percorrere con gli occhi i sentieri che salgono lungo le pendici di questa montagna, dove le ombre di un sole che ora se ne sta andando, me li fanno quasi solo immaginare. Il freddo veloce che mi assale, l’ombra della sera che si allunga tra i tavoli di legno consunto. La giacca a vento infilata di corsa, calda di quel calore di tutto un giorno passato nello zaino. Il bavero tirato su fino alle orecchie e ancora la sensazione di caldo del tessuto che copre il bordo del collo. L’altalena che dondola con un cigolio lento e monotono, mentre fa giocare Matteo. Un pomeriggio passato a tentare di farsi capire da una coppia di bimbi di un biondo brillante, lui vestito fin sopra la punta dei capelli, loro due in maniche corte. E ora che mentre dondola racconta storie e parla e riparla lo farà sicuramente nella lingua dei bambini.

La cameriera ha ritirato gli ombrelloni, i menù plastificati, i cuscini dalle sedie, ha spogliato dei colori tutto quello che si poteva. Il grigio della sera si intona al grigio dei lunghi tavoloni che sono l’arredo di questa terrazza. Sul tavolo a fianco le carte scivolano veloci, Leonardo che colleziona chiusure una via l’altra, affossando la madre, debole per mancata esperienza d’ osteria. Ad ogni mano mi rinnova l’invito alla scala. Io che tardo ad alzarmi, sorrido e ammicco sornione. Ritardo il momento in cui abbandonerò questo crogiolo di silenzio e pensieri. Adesso mi alzo. Adesso mi sposto di quei venti centimetri che cambiano il mondo, la vista, i rumori, ora lo faccio, più piano tra poco.

La gerstensuppe del Teufi


Preparo un brodo di verdure con carote, zucchine, un paio di patate e una foglia di spinacio. Lo filtro e poi in 600 cl di brodo ci cuocio 200gr di orzo perlato che ho lasciato in ammollo per una quarantina di minuti. Ci vorranno altri quaranta minuti di cottura a fuoco lento. A metà cottura salo la minestra, e aggiungo una brunoise di verdura (carote, zucchine e coste di bietola), in venti minuti sarà croccante al punto giusto. Appena prima di impiattare se troppo densa allungo con ancora poco brodo, prima di servire aggiungo un cucchiaio di speck tagliato a listarelle e sciolto in padella con pochissimo olio e cipolla appassita, sfumato alla fine con poco vino bianco.
Se vi piace insaporite con un cucchiaino di parmigiano.

Aggiornamento "post produttivo" su consiglio di una lettrice, @Cinzia consiglia di lasciar riposare questa zuppa qualche ora, se non addirittura una giornata, questo per rendere il tutto più cremoso e denso .


La ricetta originale vi sfido a trovarla, ogni angolo dei Grigioni Svizzeri ne nasconde una, e anche in Veneto ne trovo traccia, quindi fate voi: la mia, la veneta, la grigionese.

Mischio le carte con fare lento e distratto, di chi ha calpestato le osterie di un tempo, quattro giocatori e venti persone di pubblico arroccate attorno al tavolo. Qui solo il freddo della sera che scende e il profumo della zuppa che sale.



14 febbraio 2011

Coincidenze culinarie

Brulica di solitudine il posto dove ci fermiamo, è un sabato fiacco. Ma ci piace è accogliente, caldo e familiare. Magari l’esterno confonde: il piazzale grande e comodo per il parcheggio, ricorda una piazza abbandonata dalle giostre alla fine delle fiere. Anche la facciata esterna grande e bianca, e senza il bianco della neve ma con il marrone, dei prati secchi di febbraio, non chiama, non attira come dovrebbe, il viaggiatore casuale che si trovasse a passare per la statale che da Auronzo di Cadore sale verso Misurina, o che, se proprio ci si vuol mettere a far i pignoli, da Misurina scende anche verso Auronzo di Cadore.

Ma aldilà della esterna apparenza, provo un piacevole senso di compatimento per le auto sfreccianti in discesa o in salita che non si fermano qui, e quindi entro. L’ingresso è un piccolo bar senza mescita, di fronte al quale la parte femminea della proprietà, immagino che l’altra metà sia in cucina come sempre, ci attende premurosa e gentile. Ci accomodiamo al tavolo, ormai solito, primo a destra dietro la stufa da “stube”, di cui ora mi accorgo non aver memorizzato il numero ricamato e sopra a lui (il tavolo) appeso. E si perché una mano di gentil donzella ha ricamato in simpatici centrini i numeri della decina o poco più di tavoli che il ristorante conta. Il legno scalda l’anima prima che il corpo e mi accoccolo sulla mia porzione di panca piacevolmente sbracato, ad ascoltare l’offerta in bicchieri dei vini, senza nulla togliere alla bella carta che la patron sommelier ti propone.


Ora potrebbe anche capitarvi che i carboidrati non facciano parte della vostra momentanea dieta, se così fosse Vi metto una mano sulla spalla, avvicino il mio viso al vostro vi guardo diritto nelle palle degli occhi e con fare ammiccante vi dico “lassate perde!” Il pane che La Lioda vi porta a tavola, lo imburrerete con il burro salto , poi ci metterete sopra in ordine casuale speck, prosciutto, salame e se fosse anche una fettina di lardo. Lo mangerete senza aspettare l’antipasto e quando questo vi verrà servito a tavola farete la faccia desolata di chi a finito il pane e ve lo rifarete portare. In sintesi il pane della Lioda è buono , ma tanto buono, così buono che Spaccabal, reduce dall’ennesima visita di non cortesia all’ospedale di Misurina, continua a ripetermi se poi glielo faccio a casa. Si certo, però adesso “lassame magna in santa pace!”


Leggo la carta con più attenzione della volta precedente, e scovo tra i primi, oltre a tutto il ben didio della tradizione del Cadore, una zuppa d’orzo che attira la mia attenzione. Domando con fare sicuro se si possa trattare di una “Gerstensuppe” e sbaglio di una trentina di chilometri: qui è Veneto non SudTirol ne tanto meno Grigioni svizzeri. Mi prendo in silenzio e meritatamente la, peraltro gentilissima, reprimenda che si tratta di un zuppa d’orzo Veneta della più profonda tradizione regionale. Muto, mi taccio con mezzo panino alla semola di polenta su cui giace una fetta di speck morbida di un filo dolcissimo di grasso, annaffio con un Franciacorta di meritevole fattura e ritorno alla contemplazione del vuoto.


Buono lo gnocco di Spaccabal, buone poi le tagliate accompagnate da una patate “cadorino” cotta con speck e cipolla, di buon ricordo i dolci, in particolare lo yogurt con salsa di frutti di bosco calda. Ma, c’è sempre un ma, la zuppa d’orzo, buona, calda, in perfetto equilibrio tra sapori e leggerezza, la zuppa d’orzo , dicevo, sembrava proprio una Gerstensuppe.



Sarà che questi non sono mai stati a Davos, ma non me la raccontano giusta.


La Lioda
via Pause, 25
Auronzo di Cadore (BL)
tel 0435 99129

08 febbraio 2011

Fuori

Mi appoggio a questa colonna, l'intonaco che cade a pezzi, l'odore di muffa e di varechina, il silenzio del corridoio rotto dal brusio ovattato della lezione oltre la porta, e dal fruscio regolare del giornale che il bidello sfoglia. Non é proprio facile starci appoggiati, dove finisce la colonna inizia subito la porta, e per evitare di toccarla, è la porta della mia classe, sono costretto ad appoggiarmi contro lo spigolo vivo, e non è comodissimo. Allora rinuncio ad appoggiarmi me ne sto faccia al muro ad ascoltare il sussurro della lezione e a guardare i disegni che l'intonaco scrostato fa su questa colonna. Una sorta di carta geografica, disegnata dal tempo, dal "vandalismo" di altri prima di me, dall'incuria. I buchi nell'intonaco come tanti laghetti sulle cui rive passeggio con l'indice e il medio della mia mano destra. Un passo dopo l'altro, un profumo di erba bagnata, il calore di un alba estiva, i passi che affondano in un tappeto di licheni, il rumore di pozze calpestate, l'omino della mia fantasia si gira ad osservare lo specchio di calce grigia: chissà se ci saranno pesci. Lo lascio passeggiare fino a dove, il mio braccio completamente disteso e io in punta di piedi, riesce ad arrivare. Oltre, i laghetti finiscono, il muro diventa una tavola anonima bianca e pulita.

C'è qualcosa dentro, non dentro la classe, qualcosa dentro di me che mi dice di stare qui vicino, di non allentarmi , di non andare in mezzo al corridoio o addirittura nella stanzetta del bidello. Qualcosa che possa trasformare questa inquietudine, questo mattone sullo stomaco, questo torsolo di mela in gola, in qualcosa di meno grave. Si mamma, mi hanno mandato fuori della classe, ma non tanto, appena fuori della porta, proprio dietro. Cosi vicino che ho sentito quello che il maestro ha spiegato. Mi rimetto l'omino in tasca stanco di passeggiare, appoggio la testa alla colonna, proprio di fianco al lago più piccolo. Mi guardo le scarpe, la punta contro un battiscopa grigio di marmo scadente, sopra una fascia di muro nera dalle pedate di tutta la storia di questa scuola. Chissà che dirà mia mamma. Quanto si arrabbierà, cacciato fuori dalla porta dopo due giorni di scuola, io che neanche sapevo che si potesse andare fuori dalla porta. Chissà. Chissà cosa mi avrà fatto da pranzo. Con la punta della mia scarpa do un paio di colpetti a quel muro nero di "sgommate".

"Non ti è bastato oggi ?"
La voce che mi fa la domanda, mi prende alla sprovvista sobbalzo e sbatto contro la porta della classe. Dentro sento la voce del maestro che dice "Avanti". Il bidello mi guarda severo, dall'alto in basso, uno sguardo che promette altre punizioni. Balbetto una scusa tipo:
"Ma io non facevo niente !"
La voce che mi esce piagnucola un poco, quasi mi meraviglia sentirla. Da dentro si sente di nuovo "Avanti!" stavolta più deciso. Il bidello mi supera la mano sulla maniglia: "Seee, bonanotte ! Sempre a far niente voi, e intanto la scuola va a pezzi !"
Apre la porta e si affaccia nella mia classe. Io dallo spazio che la porta lascia aperto vedo il mio banco pieno a metà, il mio posto vuoto e il mio compagno che mi guarda. Dietro altre facce, di nomi che ancora non ricordo: terzo giorno di scuola in questa città dove ci siamo trasferiti da poco. Qualche sogghigno lo intravedo, mentre il bidello spiega che nessuno ha bussato, ma che "... è questo alunno che ha mandato fuori dalla porta, signor maestro, che ha preso a calci il muro e anche la porta."

Non è vero !

"Ah bene ! Pure questo ! Gli dica allora che se ne resti fuori dalla porta fino alla fine della scuola, fino all'ora di pranzo!"

Fino all'ora di pranzo?!
Chissà che dirà mia mamma. Quanto si arrabbierà, cacciato fuori dalla porta dopo due giorni di scuola, io che neanche sapevo che si potesse andare fuori dalla porta. Chissà. Chissà cosa mi avrà fatto da pranzo.

Cacio e pepe


No non ricordo cosa mi fece da pranzo mia mamma ci mancherebbe. Il fatto è che quando a casa mia si facevano gli spaghetti in bianco una spruzzata di pepe la si metteva sempre. Ricordo invece benissimo il fatto raccontato, come se fosse accaduto un attimo fa. Una discussione tra bambini e un calcio mollato ad un mio compagno. Il motivo ? Questo !


La ricetta ? La video ricetta !





Un paio di suggerimenti:
2/3 di parmigiano reggiano e 1/3 di pecorino romano, oppure se amate i sapori decisi il contrario.

Del pepe buono e profumato. Lo so che può sembrare stupido, o peggio ancora una tirata immodestia, ma un pepe di qualità macinato al momento non ha nulla a che vedere con quello dei barattolini del supermercato.

Mai finiti fuori della porta ?