31 luglio 2008

Come un bambino



"Questo tuo posto è SEMPRE così piacevole ..." dice Nishanga, in un commento qui. Anche altre volte, in altri commenti, ho trovato questa sensazione di "piacevolezza", una sensazione che mi lascia ogni volta sorpreso. Perché alcuni di voi hanno queste sensazioni? Ci rifletto e ci penso su, ogni volta che leggo un commento di quel genere: poi, vuoi per il tempo, vuoi per chissà cosa, quel pensiero non lo chiudo mai, stretto in una riflessione definitiva. D'altronde questo blog non dà certezze, non dice che domani sarà meglio, che tutto quello che non va, che non funziona, andrà e funzionerà. In questo blog non ci sono soluzioni o istruzioni per migliorarsi la vita.

Ma allora perché anche io, in questo posto, mi ci trovo bene? E'come quando entri in una casa, o vai in un luogo; ci sono case, ci sono luoghi che non ci si "stampano" sulla pelle. Posti in cui non ci sentiamo parte dell'ambiente dell'arredamento, dove le mura e la natura, stridono, e graffiano con i nostri pensieri. Ci sono, invece, posti e stanze che sono sicuro rifugio, dove ci sentiamo come ci sentivamo da bambini, quando infilavamo la testa sotto le coperte. Piacevolmente sicuri, nel respiro affannato dalla mancanza di aria, gli occhi che nel buio, si perdono nella trama in trasparenza della coperta, che cercano quei bordi di luce che traspaiono da fuori. Perché ho questa sensazione di non essere visto, assurda contraddizione sistemica per chi si racconta in rete ?

Forse perché, semplicemente, qui dentro ho messo le cose che mi servono per ritrovare quel senso di casa, di luogo, di sicuro che mi occorre quando il mondo fuori me lo fa perdere. E' come l'abbraccio di una mamma al bimbo svegliato di notte da un brutto sogno, una stretta consolatoria ad un pianto irrefrenabile. E visto che non ci è dato più piangere e che siam troppo grandi per farci coccolare, racconto, ricordo, rivivo.
Prendo per mano quel bambino e lo riporto a passeggiare sull'Alpe di Torricella, o a sedersi vicino a me nella stube del Fuxagufer. Oppure lo tengo vicino in quella vecchia cucina che ora non abita più nessuno, gli parlo delle cose che ho visto degli amici che sono passati e di quelli che passeranno. Gli racconto di posti dove sono stato.

Poi lo riaccompagno nel suo mondo a sgomitare con la vita come facciamo tutti, ma con la consapevolezza di potersi ritrovare, per poco, un attimo solo magari, qui dentro.
Nel mio blog.

Loste

P.P Perché la foto ? Perché un amico mi ha scritto: "Penso proprio che possa essere una bella idea... legare a due anni di distanza, un’emozione ad un volto..."

29 luglio 2008

Red, white or Swiss

Entrammo in quel paese in punta di piedi, timorosi della nostra "extraneità". Ci accomodammo dentro alla valle del Vedeggio a nord di Lugano in un paesetto ameno e sconosciuto alle tratte turistiche. Vivemmo la tranquillità del verde dei boschi dietro casa, la "posta" che riportava il piccolo Leo da scuola, il suo accento che da marchigiano si tramutò in Ticinese prima che ce ne rendessimo conto, tanto che arrivato "babbo" divenni "papà" al secondo giorno di scuola, ché qui se nò non mi capiscono. Matteo che zampettava nel piccolo giardino, che gattonava su per la scala ad osservare il suo piccolo mondo raccontarsi di sotto. Passammo le domeniche a scoprire, cercare, a volte io pedalando su per le valli e loro dietro in auto. Ci infilavamo in questi grotti, in queste osterie, a respirare i profumi, a mangiare la storia di quella terra raccontata dal cibo. Un cibo che lì ha ancora l'italianità del nord, nei brasati e negli stracotti, nella polenta , nei piatti di pesce di lago che parlano il lagheé del comasco, nei risotti, carichi di sapore spesso accompagnatori di carni. Scoprimmo che il primo agosto è la festa azionale della Svizzera, guardando i fuochi di artificio illuminare l'acqua del lago. Scoprimmo persone che fan sì che ogni tanto si debba ritornare. E se mi chiedi: cosa ricordi di quel paese? Ti rispondo: Tutto, anche il:

Risotto con la zucca e i porcini mangiato a Olivone




Per quattro persone, ho messo in forno per 20 minuti a 180°, 120 grammi di zucca gialla pulita e fatta a tocchetti, lo so che non è stagione ma il mio congelatore è un pozzo di sanpatrizio. Ho affettato qualche porcino estivo che come una manna dal cielo, anche nel costo, ho trovato in una gastronomia delle colline pesaresi, l'ho saltato in padella con olio evo, una mezza noce di burro per due minuti a fuoco vivo. Ho fatto rosolare uno spicchio d'aglio intero in poco olio, insieme alla zucca, poi ho tostato un riso un carnaroli di baraggia, anche se Leo asseriva che avrei dovuto utilizzare il riso di Taverne, l'ho sfumato con un Merlot vinificato in bianco di quella terra e ho tirato un risotto con un brodo di carota e cipolla. Quando era bello al dente, ho mantecato con poco burro, ho aggiunto i porcini e un trito finissimo di prezzemolo. L'ultimo filo d'olio si è infilato nel piatto in punta di piedi, come facemmo noi quasi dieci anni fa.

Questo post partecipa al Red, White or Swiss di Zorra.

Swiss National Day - Red, white or Swiss

22 luglio 2008

Come la terra

Il cortile è disordinatamente deserto, i segni che un tempo annunciavano la presenza dell’uomo, sono tutti spariti. Non ci sono galline a razzolare per l’ aia, dalla stalla non arriva nessun muggito, la porta del fienile, sbarrata, non lascia troppe speranze. Anche l’erba si sta riappropriando di posti che non le erano mai appartenuti, in gara con la ruggine a chi per primo nasconderà per sempre i vecchi attrezzi abbandonati. Una vecchia vespa bianca se ne sta appoggiata al tronco di un sambuco, ciuffi di gommapiuma si affacciano liberi dalla stretta del sedile strappato, il parabrezza ha così tanti graffi che guardarci attraverso è quasi impossibile, ad uno sguardo distratto apparirebbe come uno dei tanti pezzi abbandonati in questo cortile, ad uno sguardo distratto. Ma quella vespa è l’unico segno della sua presenza in quel luogo. Per sicurezza mi avvicino ed osservo il manubrio in cerca della modernità che ricordo in quel mezzo; un telecomando per cancelli è inchiodato sulla parte destra del manubrio, raggiungibile da chi guida con il semplice spostamento del pollice destro.
Grido, chiamo quel nome brevissimo, le due sillabe del suo nomignolo riecheggiano nel fresco dell’alba: “Ciccio, Ciccio.”
Allungo la “o” finale nella speranza che riesca a raggiungere la sua sordità in una delle stalle della vecchia tenuta. Mentre lo cerco con lo sguardo provo a ricordarne il nome, quello vero. Ma non mi viene, mi vengono quello del fratello, della moglie, del figlio, ma il vero nome di Ciccio non mi ritorna in mente.
Appare da dietro l’angolo della casa, il suo enorme ventre è oramai sparito gli occhi una fessura, i baffi appena ingrigiti si riconoscono a fatica in quel viso scuro, scottato dal sole dei campi. Alto, robusto, le spalle ancora diritti porta l’inseparabile berretta, a coprire i cappelli lucidi e neri, una camicia di flanella, una maglia di lana rattoppata in più punti, un pantalone nero da lavoro e un paio di sandali. L’ho sempre visto vestito così, estate, inverno, caldo, freddo. Fatica a riconoscermi stringe ancora gli occhi per mettere a fuoco l’immagine del tizio che ha di fronte, capelli corti brizzolati, un pizzo che incornicia la bocca passando dal nero dei baffi al bianco della barba. Faccio un passo avanti e lo saluto con una battuta sui tempi in cui quell’aia era piena di gente e di bambini. La voce, mi fa riconoscere, ridono prima gli occhi, mai la bocca, la sua felicità si esprime in altro modo. La prima parola che gli esce è una bestemmia, sonora e cristallina, ma non cattiva, Ciccio non bestemmia per offendere, per lui la bestemmia è l’intercalare normale della conversazione. Potrebbe dire, “cioè”, oppure “per esempio no” o “magari”, “quindi” ma lui preferisce la bestemmia, più varia meno monotona, e prima di chiedermi “come stai?” riesce a citare altre due particolari situazioni in cui santi e madonne vengono immaginate da quest’uomo, che sembra un pezzo di terra. Sembra una di quelle grosse pietre di arenaria che i contadini scoprono arando i campi. Non mi abbraccia, non mi da la mano, non mi tocca, la sua mano destra comincia a eccitarsi in uno sfregamento tra pollice e resto delle dita che sembra quasi lo scodinzolare di un cane felice. E mentre il suo personale e blasfemo rosario, si sgrana nella mattina marchigiana, mi chiede di mio padre, della famiglia, mi dice di aver visto mio fratello passare di là un paio di giorni prima, e cammina e bestemmia e parla di cilindri, e mentre cammina il suo parlare mi risucchia, mi porta con sé. Lo seguo, mi viene da pensare, come in un’assurda processione, fatta da due sole persone, dove al posto del prete c’è lui, che fa domande e io da dietro che rispondo, e andiamo verso quel posto dove Ciccio riceve i suoi ospiti.
La differenza di temperatura mi accoglie come un segno indelebile di un tempo che qui non è passato mai. L’odore di muffa, le vecchie botti allineate lungo la parete, il pavimento fatto di terra pressata, un paio di secchi pieni di acqua e ghiande ad ammollare, segno che almeno un maiale c’è ancora. Ciccio va diritto verso il bicchiere appoggiato sul lavandino: un vecchio bicchiere da osteria, un cilindro di vetro consunto e lattiginoso. Lo lava con uno sciacquo veloce sotto un filo sottile di acqua, lo avvicina ad una botte e spilla un bicchiere raso di liquido di un giallo carico con sfumature verdoline, tutte definizioni che non troverebbero spiegazione nel suo vocabolario. Prendo il bicchiere dalla mano di Ciccio e subito riconosco il forte odore di solfiti, bisolfito come si dice da queste parti, che serve a far sì che le uve di questa terra possono restare vino fino alla fine della stagione. L’odore è solo il preannunciarsi del resto, immagino questi duecento centilitri, almeno, finirmi nello stomaco, di mattina presto quasi a digiuno, non fosse per quel solitario caffè che non ha ancora preso confidenza con i miei succhi gastrici. Sento quell’acido entrarmi in bocca, raschiare lungo l’esofago e bruciare con rabbia la mucosa, per poi ritornare in gola con un disperato su e giù che potrebbe durare un giorno intero.
E’ un attimo Ciccio si volta per mettere a posto alcune bottiglie e il secchio d’acqua dove le ghiande sono a macerare raccoglie quel bicchiere di “veleno” per noi (a)normali bevitori. Schiocco la lingua con soddisfazione simulando la fine di una tracannata tuttadunfiato, la testa reclinata a guardare il soffitto coperto da uno strato di muffa bianca. Passo il bicchiere, e ringrazio.
Guardo quegli occhi che la penombra della cantina han fatto aprire, sembrano due piccoli pezzi di vetro lucente, due piccole luci che mi guardano fisso, prima i miei occhi e poi il secchio delle ghiande. “Ormai non lo beve più nessuno questo vino.” Fa lui. “Una volta ne vendevo quintali e quintali, una volta ammazzavamo anche venti maiali a Natale, ti ricordi? C’avevamo sempre sei o sette vitelli, le capre, le pecore, ti ricordi quando venivi a prendere la ricotta? E le forme di pecorino, messe a maturare nella stanza di sopra? I polli i gallinacci, una trentina all’anno li lasciavo nel campo qui sotto, e la sera li chiudevo nello stalletto, e poi le galline, le faraone, e gli ovi che c’avevamo, toccava buttalli via."
Lo guardo, la mano destra adesso è ferma, il pollice non sfrega più contro le altre dita, Le spalle sembrano piegate sotto il peso di questo soffitto. Prende la berretta con la punta delle dita e si passa il palmo della mano sul viso, ed è come se un mimo giocasse col suo cappello in un palcoscenico improvvisato, senza proscenio, senza luci, con un solo spettatore. “Non è per i soldi” Mi dice. “Ma è pe la gente, non viene più nessuno a discorre, a parlà, non interessa più a nessuno della campagna den vecchio contadino”.

Lo vedo nello specchietto retrovisore mentre mi guarda andarmene, se ne sta lì vicino al vecchio sambuco, e alla sua vecchia vespa, gli occhi stretti in due fessure, il baffo irriconoscibile sul viso cotto dal sole. Mi porto via alcune cose, altre restano lì, magari a casa rifaccio:

La faraona come la voleva Ciccio




Ho preso una faraona che basta per quattro persone, magari anche per sei, se non si esagera. L'ho disossata, salata e pepata, A parte go aggiunto alle sue interiora una salsiccia sminuzzata e un cento grammi di petto di pollo macinato, ne ho fatto un piccolo impasto insaporito anche questo con cui ho farcito la faraona. Ho preparato due uova di frittata, salate e in saporite con tutte le erbe che ho trovato nel mio giardino: mentuccia, origano fresco, salvia, rosmarino, basilico e altre che non ricordo. Anche la frittata è andata a costituire la farcia del pennuto che ho bene legato in una forma di "rotolo". L'ho rosolato in olio evo, e pancetta fresca a fuoco vivo, sfumato con vino bianco e infornato per 50 minuti a 170°. Ho servito tiepido, e accompagnato con bietole ed erbe di campo che ho trovato nei campi di Ciccio.

14 luglio 2008

Antichità post-moderna

E' che io e il mare non siamo mai andati troppo d'accordo. Io mal sopporto la gente che si accalca sulle sue spiagge, le grida dei bambini che corrono trasportando secchielli delle sua acqua imbrattati fin sopra ai capelli della sua sabbia. Mal sopporto i papà, che sfruttando una mia momentanea assenza, fanno i castelli di sabbia nell'ombra del mio ombrellone, perché nella loro, la moglie legge rilassata la solita rivista gossippara. Io e il mare ci capiamo solo quando piove come adesso, e allora mentre tutti sono fuggiti, io passeggio incappucciato in una giacca da montagna che stona con il bermuda e le ciabatte, vago sul bagnasciuga rilassato dall'acqua che cade e da quella che mi accarezza di tanto in tanto i piedi. Passo il tempo nell'attesa di recuperare il piccolo Matti che gioca con i suoi simili di età, in una sorta di asilo che tutti si sforzano di chiamare 'miniclub'.

Mi affaccio mentre la pioggia scema, se ne stanno riparati da una grande tettoia intorno ad un tavolo, una maestrina timida e carina insegna al gruppo di bambini a lavorare la pasta di sale. Le bambine stanno improvvisando collane e bracciali vari, in effetti Matti è l'unico maschietto, gli altri stanno giocando a calcio, a bocce ma nessuno con la pasta di sale. Lui sta schiacciando il suo pezzo di pasta, in un disco quasi perfetto, mi vede e raggiante mi spiega che se poi ci mettiamo il pomodoro facciamo una pizza. Ho paura che il cibo stia diventando un'ossessione per tutta la famiglia, una droga, una dose di metadone di cui nessuno può più fare a meno.
Appoggio il mio libro e il mio telefono sul bordo del tavolo, e poi mi faccio spazio accanto a Spaccaball, spiegando che con la pasta di sale si fanno sculture. Prendo la pseudo-pizza e la divido a metà, comincio a modellarla con l'intento di farne un cane, ma poi sotto le mani sento che il cane non mi verrà mai e allora per contrapposizione penso ad una gatto, cerco di immaginarmi il gatto ma le zampe non riesco a pensarle. Rigiro la palla di pasta nelle mani e l'immaginazione mette il gatto seduto sulle zampe posteriori, ma mentre metto seduto quel gatto di qualche centimetro sul tavolo, mi accorgo che in effetti è un topo. E' proprio un topo, gli metto una coda lunga e sottile, un orecchio, poi l'altro, una bimba ha capito e grida: - Un topino!
Tutti adesso guardano le mie mani giocare con quella massa grigia, tutti aspettano la prossima orecchia, anche la maestrina ha un'esclamazione sorpresa. Un bambino è attratto dalla scena si avvicina a me e dice qualcosa che non capisco: - ... berri ottono.... zero! - Come?
Ripete la frase ma continuo a non capire, sorrido al bambino di un paio di anni più grande di Matti e gli dico: - No! E' un topolino ! - Dicevo. E' un blackberry ottounozerozero? Fà, indicando il mio telefono appoggiato sopra il libro.
Il bimbo mi ha spiazzato, mi guarda serio il dito ancora puntato verso il telefono, ma da dove arriva questo marziano che riconosce un telefono messo anche a faccia in giù? Chi è questo fenomeno della telefonia moderna ? Che cosa gli danno da mangiare la mattina, latte e advertising ? - In effetti è un blackberry ma non saprei dirti che modello. Mi sento rispondere con un tono di scusa, preso totalmente alla sprovvista dal sotuttoioditelefonini.
Mi guarda con fare strano, il labbro leggermente piegato, ritira il dito, il braccio gli cade lungo il corpo prima di esclamare: - Quanto sei antico!

09 luglio 2008

La padrona del mondo

C'è questo fiume che mi scorre alle spalle. Silenzioso. Scivola tra le case della città, come un'enorme marmellata densa, scura. Nel buio della sera potresti confonderlo con un'enorme strada che porta al mare. Aspetto il cameriere all'entrata del ristorante, in effetti si tratta di un giardino ma fa lo stesso. Anche se ho individuato il mio tavolo, dei due apparecchiati solo uno ha due posti, aspetto. Il mio amico telefona, a quest'ora le telefonate sono per la famiglia, per i figli, il lavoro dovrebbe essere lontano, finito, dovrebbe. Il cameriere non appare e io mi distraggo guardando i disegni che la ghiaia forma sotto ai miei piedi, vizio infantile mai perso. E mentre osservo il viso di un bimbo disegnato in terra, da dietro le spalle, come se fossero arrivati dal fiume, due coppie di maturi signori, ormai nonni, mi scavalcano, incivilmente fregandosene del mio attendere sulla soglia. Si seggono al tavolo da quattro e a gran voce, chiamano il cameriere. Quando appare, la prima cosa che noto e che si tratta di una cameriera, è trafelata e saluta ossequia i nuovi arrivati. Debbono essere onestamente persone importanti, tanto è lo scappellamento ostentato, con supporto anche di chef patron, miracolosamente apparso al richiamo di prima. Aspetto. E mentre lo faccio, colgo una serie di lamentele che una delle due Signore, che per pura necessità narrativa definiremo "la grassa" visto che l'altra è magra, rivolge al consesso ristoratore. Il tavolo è in una posizione non gradita, troppo distante da una fonte di luce, e poi quel tavolo da due lì vicino "non lo voglio. La gente seduta vicino mi da fastidio !" Aspetto. E mentre lo faccio penso che di gente somigliante a quelle cose che purtroppo spesso capita di calpestare sui marciapiedi cittadini, c'è ne ancora molta. Aspetto. E finalmente la cameriera si accorge anche di me: dico chi sono e faccio riferimento alla prenotazione, lei con fare professionale ma imbarazzato, capisce che ho capito, mi indica un tavolo distante dalla "grassa" signora. Con fare educato chiedo se posso mettermi lì: il tavolo già apparecchiato, ma è già prenotato, chissà da chi? Comincio ad indicare tutti i tavoli vicini alla "grassa" signora e alla fine dopo un paio di rifiuti, la cameriera deve desistere e farmi sedere, alle spalle della padrona del mondo. Credo che se tu non sopporti una cosa, sapere di averla alle spalle diventa due volte più insopportabile.
La mia mossa ha infastidito la cameriera e la "grassa" Signora, e mentre vengo a conoscenza di tutti gli affari legali della città, sbandierati ai quattro venti dai rispettivi mariti della "grassa" e della "magra". La cameriera mi chiede: "Cosa vuoi mangiare ?" Pensare che mi avevano descritto il posto come un locale di livello, di un certo livello. Rivolgendomi con fare gentile e in terza persona, faccio capire indirettamente che, come si dice dalle mie parti, "Io e te non avemo mai magnato insieme" e chiedo la carta. Ma la cameriera ha un'altra visione del mondo, la carta non c'è e scodella in una tiritera immemorizzabile il menù della sera. Ordino le due cose che mi rimangono impresse, probabilmente il primo antipasto citato e il primo primo. Poi come se fossi su un pianeta sconosciuto, alla pari di Ford, chiedo la carta dei vini, e indovina! Non c'è. "Lo vuoi bianco o rosso", bianco siamo di pesce, "fermo o frizzante" alla faccia posso scegliere anche questo, ma allora siamo quasi alla stella Michelin. La padrona del mondo ha qualcosa da dire riguardo alla gente poco educata e irrispettosa, magari parla del marito, no, credo che abbia da dire qualcosa al sottoscritto. Rumoreggio, spostando la sedia, e mi esibisco in teatrali starnuti, tanto che il mio amico chiede se non soffra di un attacco di allergia. Fastidiosissima, l'allergia. Mentre mangio l'antipasto, onestamente buono, riesco a simulare un quasi soffocamento da lisca di pesce con alcuni colpi di tosse, secca e ben piazzata sulla conversazione del tavolo accanto, che ora verte su non meglio specificati personaggi che si aggirano nottetempo nei locali cittadini. Quando sento parlare di contadini, con un certo tono di spregio, sono tentato di rimettere la suoneria del telefono a tutto volume e di farmi chiamare dal mio amico per poi gridare a gran voce "Parla più forte che non te sento, c'ho solo na tacca, parla più forte..." Ma ogni cosa ha un suo limite compresa la vendetta. Quella sera ho mangiato uno spaghetto, che replico per futura memoria di colei che pensa che gli altri siano meno di loro:

Lo spaghetto di quella sera che cenai vicino alla padrona del mondo, e in cui mi sentii altrettanto stronzo



Direi che per quattro servono un paio di cipolline fresche di media grandezza che taglierete sottili e lascerete sudare in poco olio evo, aggiungete acqua per non farle bruciare. Quando cominciano ad ammorbidirsi, tuffate otto pomodorini tipo datterini spellati e privati dei semi, salate e lasciate andare per un 4/5 minuti. Mettete da parte il sugo e nelle stessa padella a fuoco alto fate rosolare 4 scampi interi e 4 code che avrete precedentemente tagliato a tocchetti e con le qui teste avrete fatto un fumetto veloce. Scottate gli scampi per due minuti, pepate e se serve salate, sfumate con un filo di cognac. Spegnete il fuoco e incorporate il sughetto di pomodori. Lessate degli spaghetti, io ho usato i Benedetto Cavalieri e quando mancano 4 minuti di cottura saltateli in padella con il sugo, finendo la cottura, a mo' di risotto, aggiungendo il fumetto fatto con le teste. Servite con un filo d'olio.

E non fate quello che ho fatto io, non mi sono divertito affatto !


06 luglio 2008

Blogger cercasi

La cosa sta prendendo una piega a dir poco preoccupante. La rete dei foodber italiani sta languendo. Langue la rete dei blogger vacanzieri, scoglionati dallo scrivere e in mille faccende affaccendati. Chi in vacanza abbandona la scena per poco o per molto,. Chi ha spento stufo del continuo rincorrere ipocrisie, non più ripresosi dalla squisita crisi dello scorso anno. Chiusure più o meno gloriose, sparizioni in sordine. Anche l'amico Maurizio notava la cosa alcuni giorni fa.
"Giovane blogger, alto biondo con gli occhi azzurri, visto per l'ultima volta all'angolo tra blogspot e wordpress, cercasi. Tutti coloro in grado di fornire notizie possono contattare il padre di tutti i food blogger, il Giallo Papero".

E' il caldo che miete vittime? O è questa rete piena oramai di: 
"uuuhhh ma che bella ricettina...", 
"mmh gnam gnam buona, buona ... che delizia che goduria" 
che ci è arrivata al colmo, che non sopportiamo più.
Anche la Gentile Signorina presa dal suo lavoro, glielo dicevo un annetto fa, latita in ricette, e fa giusto sapere che gira per la Francia. I suoi fans bramano e salottano a mo' di forum, nei suoi commenti, in attesa di una sua riapparizione culinaria.

E allora magari che si possa creare una nuova opportunità lavorativa? Ma si ! Come per gli scrittori famosi a cui si spegne la vena creativa. Eccolo siore e siori il Ghost Writer di food post. Io vi scrivo il post, lo imbastisco con storie accattivanti, notizie un po' sparse, trovate in giro per la rete. Vi tengo attivo il blog, mentre voi tranquilli e beati ve ne state in vacanza, e mangiate quello che non cucinate. Pensate che non riesca a fare cose che vadano oltre alla tradizione della terra marchigiana? Ma su via per chi mi avete preso? E' vero che sono un contadino- montanaro, prestato all' economia aziendale, ma se mi ci metto non scherzo. Vogliamo provare? Eccola qua veloce, veloce, giusto per farsi le ossa, una:

Caprese con la burrata


Allora cerchiamo di non lamentarci lassù nel loggione, qui non si tratta di fare a fette un pomodoro e via. Il pomodoro, ramato questa volta, lo incidete e lo tuffate in acqua bollente, lo spellate e usate solo il petalo più esterno. Lo mettete ad insaporire con evo buono, uno spicchio di aglio schiacciato e molto basilico spezzato a mano. Lasciate insaporire per un paio di ore e poi servite accompagnando con un bel pezzo di burrata freschissima e insaporite con l'olio del pomodoro, che poco prima di servire avrete salato.

Già li sento i commenti dall'ala destra dell'emiciclo, perché la caprese è di sinistra no? Dicevo li sento già i commenti sul basso profilo de Loste. Che di là dalla Gentile Signorina è tutta un'altra cosa, è un piacere di papille e di vista, che la banalità non è di casa.

Booooni state bboni. Per il pubblico radical-chic (Tommaso dimmi se sto indovinando le posizioni !) ecco servita la variante:

Caprese di burrata e sorbetto al Campari



Per quattro persone prendete un bel pomodoro ramato rosso, avanzato da prima. Come prima incidetelo con un coltello affilato nella parte alta e tuffatelo in acqua bollente per pochi secondi. Prendete sempre e solo i petali esterni e riduceteli a brunoise, metteteli in una scodella con olio e basilico e lasciateli insaporire per una paio di ore, niente aglio stavolta. Intanto in un contenitore avrete messo 9,8cl di Campari soda, tranquilli non vi faccio fare gli alchimisti, è la quantità di una bottiglietta commerciale. Aggiungete 2cl, un paio di dita, di vino bianco e qualche foglia di menta poi mettete in congelatore per circa tre ore. Ogni tanto con un cucchiaio mescolate il Campari per evitare che solidifichi. Poco prima di servire nel bicchierino salate il pomodoro. Gustate in modo che il cucchiaino prenda campari-burrata e burrata-pomodoro. Se mangiate gli ingredienti in maniera separata la vostra ricetta è la prima. Nessuno si azzardi a fare commenti prima di non aver provato e assaggiato.

Bene, detto ciò, vi saluto: vado a lavorare, driblando l'esodo vacanziero, che è vero che il gasolio è aumentato e non si arriva più a fine mese, ma questo più tardi, dopo, quando abbiamo fatto le ferie.

P.P. se qualcuno crede alla storia del Ghost writer, tenga a mente che mi farei pagare ! Bene ! 


03 luglio 2008

Il frutto del peccato

Oh Mamma mia !
Oh Mamma mia !
Ma quanto è grande ?

Ti piace è !

Fammelo vedere meglio! Ma è enorme !

E si in effetti è abbastanza grandino.

Spostati. Mamma mia che roba. Ma ti ci ritrovi?

E bé sai bisogna prenderci un po’ la mano.

Ma senti qua… ma sembra ferro !

E si, mia cara abbiamo fatto un passo avanti.

Con questo son sicura mi ci diverto anch’io!

E bé, così sai… può piacere. E che fino ad oggi non è che ti ci sei impegnata tanto!

Guarda che star dietro alla casa, e ai figli non è cosa da poco ci vuole tempo, tesoro !
Ma scusa, ma tutto il resto dov’è ?

Quale resto?

Ma tutto il resto!

E tutto qui tutto concentrato qui!
Dentro al video hai tutto, scheda madre, lettore dvd, processore, un filo per l’alimentazione e uno per la tastiera di ferro.

Bé certo che il Mac è un altro mondo !

E già !