20 dicembre 2009

Fino alla fine: le ricette del pranzo di Natale che non cucinerò


Piano così, stringi piano, chiudi la carta forno e poi fallo rotolare. Matti rotolare avanti e indietro dove mi stai andando?
Leo aiutami a piegare qui ... forte dai! No piano che me lo spezzi! Forte, piano ma che stai a fa ? Io devo continuare a rotolare avanti e indietro? No Matti vieni qui che adesso mi devi fare un'altra cosa. Ecco vedi devi rifarmi questa cosa qui, che poi la mettiamo lì. Papà volevo dirti ... Leo scusa ho da fare, anzi, tu aiutami a fare queste qui, un po' verdi, un po' rosse e un po' marroni. Si papà ma ti vorrei dire una cosa... Non ora, preparami quelle.

Papà va bene questa che ho fatto ? ... Matti sembra tutto tranne una civetta ! In effetti sembra un... un... Leo non dirlo ! No Matti no, adesso ti aiuto io. Papà però ti volevo dire quella cosa. Leo, scusa, ma non vedi come siamo messi ? Dai dopo me la dici.
Ora Matti guarda qua: facciamo una pallina grande rotonda e poi rotolandola tra le mani l'allunghiamo. Poi ne facciamo una piccolina, la schiacciamo un po', tra sotto e sopra e poi gli facciamo due puntine qui che diventano le orecchie. Vedi poi dobbiamo schiacciare con il mignolo qui in modo che diventano gli occhi, anzi il posto dove faremo gli occhi. Papà io più guardo questa cosa e più .... Leo dai maperfavore finisci quelle foglie, ne hai fatte solo tre!
Ecco vedi adesso le montiamo e cominciamo a decorarle, occhi, piume, ali e così via...


Mmmmh si non sono malvage, ma sai una cosa a me sembra sempre di più ... Leo tieni assaggia e dimmi com'è!... Buono, anzi buonissimo e come si fa ?
Facile: fai sciogliere 200 gr di cioccolata fondente 70% a bagnomaria con mezzo bicchiere di latte. Un volta sciolta, quando è ancora calda, circa 66°, incorpori un uovo intero molto velocemente e 100 gr di zucchero semolato. Poi aggiungi la buccia grattugiata di una mezza arancia e un paio di cucchiai di rum. Ora devi incorporare 200 gr di biscotti secchi sminuzzati e 100 gr di mandorle triturate. Giri e rigiri fintanto che non senti che rassoda raffreddando. E niente burro notare. E questa è la base del nostro:

Tronchetto di Natale, quasi un condominio di civette



Quindi un salame dolce, tutto qui ! Si Leo tutto qui a parte la forma, di albero, i rami, le foglie colorate. Che ho fatto io ! Ma che ho preparato io, se no il marzapane rimaneva quello che era. Poi le civette quella grande quella piccola... Quella l'ho fatta io ! Si Matti bravo l'hai fatta tu. Si quando l'hai fatta tu sembrava. Leo noooo ! Va bé papà tra l'altro ti volevo dire ...
Guarda è carino dai, sembra proprio un pezzo di bosco... Oppure papà se ti metti da qui, ecco qui, guardalo bene, tutto insieme. Eh ?! Non ti sembra un Gattomorto ?!


13 dicembre 2009

Potrei provarci: le ricette del pranzo di natale che non cucinerò

Potrei ritrovare la strada ad occhi chiusi. Scendere lungo il viale costeggiato dalla siepe, con gli alberi del giardino che salgono come colonne ai lati e formano una volta che nasconde il cielo. Percorrere quella navata verde e semi buia fino a quando si apre in un prato e sale verso la vecchia villa.

Potrei spingere quel portone pesante e sentirlo cedere sotto lo sforzo di un bambino. Ritrovare il fresco dell'androne, il sole bollente del pomeriggio d'estate. La vecchia specchiera con la cassapanca, e dentro un'esercito di soldatini di legno con la giacca rossa, i pantaloni celesti e il cappello nero col pennacchio.
Potrei risentire l'odore del miele dietro la porta della cantina. E il ronzio lontano, nelle canicole d'estate, delle arnie sotto il muro del giardino. Salire lungo le scale in silenzio, osservare i vecchi quadri, bisnonni sconosciuti di una famiglia poco mia. Arrivare al pianerottolo, e camminare in punta di piedi cercando di evitare lo scricchiolio del legno.
Potrei sentire l'odore di tabacco che arriva dallo studio di mio zio sulla destra. Muovermi silenzioso verso il salone a sinistra, affacciarmi sul mosaico antico del pavimento: il tavolo al centro e oltre, l'enorme camino. Il vecchio appisolato sulla sedia davanti al fuoco, la testa abbandonata sul petto, il raspare sordo del respiro, tra le gambe il bastone e il lungo tubo nero per soffiare sul fuoco.
Potrei scivolare silenzioso verso la cucina, seguendo la losanga rotonda che incornicia il pavimento. Rivedere il cielo plumbeo fuori dalla finestra, nelle mattine d'autunno inoltrato, le nubi rincorrersi verso il mare lontano, talmente lontano da non entrare nei pensieri.
Potrei aspettare, gli occhi chiusi, la mente che ritrovi i profumi di quel luogo. Rivedere le spalle di mia zia si muove veloce e sicura. Le salsicce alla griglia, servite con un fiasco di chianti, il rosso rubino nei bicchieri dei grandi, e il rosa chiaretto della mia acquaevino. Il profumo del sugo messo a sobbollire pian piano su quegli strani fornelli a carbone. E poi quell'odore unico di salvia e limone de

Gli involtini che faceva mia zia, ma senza la carne


Per otto involtini prendete una bella rana pescatrice a cui eliminerete la testa, questa la userei per un rigatone tranquillo, tranquillo. Comunque sfilettate in due la coda (ora) di rospo. Con un coltello affilato apritela praticando un taglio a spirale di un giro e mezzo per la lunghezza del pesce. Oppure se il filetto è piccolo praticate un taglio al centro che arrivi giusto alla metà. Coprite il filetto con carta forno e con un batticarne allargate delicatamente la polpa ... mooolto delicatamente.


Dividete in quattro i due filetti, salate pochissimo disponete su ciascun pezzo mezza fetta di prosciutto crudo, qualcosa di più saporito di un Parma: un Norcia o un Carpegna. Aggiungete due o tre foglioline di salvia. Arrotolate il filetto, passatelo prima nella farina, poi nell'uovo battuto e salato e infine nel pan grattato.
Preparate delle patate al forno insaporite con aglio e rosmarino, una volta cotte tenetele da parte al caldo. Nella stessa teglia cuocete gli spiedini di rana a 180 gradi per una decina di minuti, bagnateli poi con un emulsione di 2/3 di evo e 1/3 di succo di limone. Finite la cottura per dieci minuti con il grill al massimo, in modo che i gli involtini risultino belli dorati.

Servite su un letto di patate al forno schiacciate e con un insalatina mista a parte.



E questo era il secondo, ora manca solo il dolce !

08 dicembre 2009

Lentamente si avvicina: le ricette del pranzo di Natale che non cucinerò

Lento come un risveglio domenicale questo post, stenta a nascere. Si affaccia come un ombra dietro ai vetri di una finestra, poi scompare. Per riapparire poco dopo in sembianze diverse, vigliacco e indeciso. Lo scrivo, poi lo cancello, poi torno a riscriverlo. Il buio dell'alba ha lasciato il posto ad un cielo plumbeo, pesante, generoso di pioggia, avaro di luce. Mi stacco da qui e sbuco in cucina: preparo , correggo, giro e rigiro. Poi torno a riscrivere nel silenzio di questo tardo mattino. Matteo arranca intorno all'albero di Natale troppo grande per lui. La concentrazione di palline al centro indica la sua altezza. Appare al mio fianco, sillaba l'incipit del post: "Len-to co-me un ris-ve-glio..." Poi mi guarda mi carezza la nuca e se ne va, trotterella scalzo inciampando nel pigiama.

Sarà stato un gesto d'affetto o di commiserazione? Intanto il post non esce, è in cucina continua a cucinarsi il pranzo di questa festa che domenica non è. I rumori arrivano ovattati e lenti come se fossi ancora sotto le coperte. Sono in sala a guardare mio figlio. Ancora un paio di anni e supererà la metà di questo albero. Lo guardo mentre lancia un fiocco rosso verso la cima. Il fiocco ha una traiettoria quasi verticale: parte veloce, poi l'aria lo rallenta, resta sospeso per una frazione di secondo e poi ricade sul viso di Matti. Al quinto tentativo rimane appeso ad un ramo. Un equilibrio precario, quasi miracoloso. Restiamo con il fiato sospeso in attesa della caduta, del crollo, del precipitare che non avviene. Con un filo di voce sussurro: "Che cosa sarebbe Matti ?". Lui si volta senza staccare gli occhi da quel fiocco rosso che rimane aggrappato con tutte le forze all'ultimo ramo su in alto. " E' per la punta papà, ma non ti ricordi ? Lo mettiamo al posto del puntale, per la tradizione!"

Mai piaciuti i puntali in cima agli alberi di natale, mi danno un che di anticoncezionale, di robotico, di ferroso e di poco naturale. Meglio un fiocco sempre che riesca a stare appeso fino al sei di gennaio. E' per la tradizione, giusto per quella. Tranne che in questo pranzo che niente ha di tradizionale e che non cucinerò. Non cucinerò il giorno di Natale, ma si costruisce pian piano, e noi che lo mangiamo commentiamo, come se Natale fosse già, passato ad ogni piatto. Niente tradizione, oppure si in queste:

Seppie con i piselli quasi un risotto


Per 4 persone
vi occorrono 8 seppie di media grandezza, pulite e lavate. Separate i tentacoli e le braccia e divideteli al centro facendone due o tre ciuffi ciascuna. In una casseruola mette a soffriggere due spicchi di aglio in poco evo, quando l'olio è a caldo tuffate i tentacoli e lasciate rosolare bene bene. A parte sempre in un filo di evo saltate 200 gr di pisellini (vanno bene anche quelli congelati). Quando i tentacoli delle seppie sono ben rosolati: salate e pepate, aggiungete i piselli, che a quel punto saranno anch'essi rosolati, e i pomodori pelati. Per quest'ultimi regolatevi voi in termini di quantità, più sugoso o meno sugoso, ma un 400 gr dovrebbero essere sufficienti. Lasciate sobbollire per almeno trenta minuti.

Per il riso
Prendete le seppie e tagliatele a striscioline sottilissime e poi ancora fino a formare delle specie di chicchi di riso, avrete ottenuto un riso di seppia. Mentre fate questo lavoro da certosino, mi raccomando di procurarvi un coltello affilatissimo, mettete a bollire un 60 gr di riso vero, in acqua salata. Il riso, quello vero dovrà bollire fino a che non sarà stracotto. Dopo 40 minuti di cottura scolatelo, ma non del tutto, tenete l'acqua da parte e passate il riso con un frullatore ad immersione fino ad ottenere una crema, aggiungete acqua di cottura se occorre.


Per la preparazione
In una casseruola antiaderente, scaldate dell'olio evo e quando ben caldo buttate il riso di seppia, lasciate rosolare a fuoco vivace per 3 o 4 minuti, sfumate con due dita di vino bianco: un Verdicchio tanto per essere di parte. Lasciate evaporare, aggiungete la crema di riso, un trito di prezzemolo e lasciate asciugare fino ad ottenere la mantecatura desiderata. Impiattate, aggiungete al centro il ragù di seppia e piselli e condite con un filo di olio evo a crudo.



La base di questo piatto: il riso di seppia, è spudoratamente rubata a Ivano Mestriner che cucina nel suo ristorante Dal vero di Badoere in provincia di Treviso www.dalvero.it

Sarà male non rispettare la tradizione ?

29 novembre 2009

Niente storie: le ricette del pranzo di Natale che non cucinerò

Mi passa davanti e mi guarda. Poi gira per la cucina e non mi stacca gli occhi di dosso. Io lo guardo silenzioso. Ha sulle spalle una punizione di dieci giorni senza tecnologia. Un macmini in camera che puzza di nuovo, con quattro giorni di accensione e poi niente. Televisori spenti. Giochi elettronici scomparsi. Mi guarda rassegnato. E' rimasto senza "cose elettriche" come dice lui.

"Che c'è ?!"
"No niente, niente, è che mi annoio un pochino !"
"... e si immagino manca ancora tutta una settimana prima che finisca la punizione !"
Il labbro inferiore ha un fremito impercettibile, tira leggero sul mento. Non abbassa lo sguardo no mi guarda fisso, sperando in un mio velato senso d'ironia, che invece non c'è.
"E poi in una settimana, c'è sempre il rischio di prendersi un'altra punizione che allunga la prima. E se la prima si allunga di una settimana, diventano due settimane, e così via. Si potrebbe arrivare a Natale, senza neanche rendersene conto."
Adesso gli occhi gli si stanno velando di lucide lacrime che però non scendono. Il labbro inferiore ha preso una smorfia tirata, nel tentativo di trattenere il pianto imminente. Aspetto.
Aspetto un attimo ancora prima che scoppi in lacrime e poi gli dico:
"Però ... !"
Tira su con il naso e mi guarda speranzoso. No niente perdono, ma un filo di speranza che un babbo mette a sostenere quel peso, su quelle spalle da scricciolo nano.
"Però tu sei un ragazzo in gamba. E sono convinto che riuscirai a fare il bravo e a superare questa punizione."
Gli arruffo i cappelli e gli faccio un sorriso.
Si passa la manica sugli occhi, asciuga le lacrime non scese. Tira su con il naso, fa un lungo respiro e si schiarisce la voce: "Che cosa cucini papà?"
"Cucino un pezzetto del pranzo di Natale."
"Ma di già ? Manca tanto a Natale."
Ora il tono della voce è quello che tutti i bambini hanno quando vogliono farsi vedere bravi.
"Si ma noi lo mangiamo oggi, perché a Natale ci facciamo invitare dalla nonna."
"Ah ... e allora ti posso aiutare ?"
"Mmmmh ce l'hai un curriculum vitae? "
"... "
"Lascia stare vieni qua ti spiego come si prepara una brunoise di verdure al vapore... che poi ci facciamo..."

Millefoglie di triglie con crema di baccalà su brunoise di verdure



Per la crema di baccalà
per 4 persone rimediate 300 grammi di baccalà ammollato, privatelo della pelle e delle lische. In una casseruola antiaderente soffriggete, in un abbondante olio evo, mezza cipolla piccola e due spicchi di aglio. Io l'aglio l'ho eliminato, se vi piace lasciatelo. Aggiungete 2 filetti di acciuga sottosale deliscati e lavati. Lasciate sciogliere l'acciuga e poi aggiungete il baccalà fatto a pezzetti. Lasciate insaporire per qualche minuto e poi aggiungete tanto latte fino a coprire il baccalà. Lasciate sobbolire a fuoco lento fintanto che il latte si sarà quasi completamente assorbito. Mettete da parte e lasciate raffreddare. Poco prima di servire aggiungete un paio di macinate di pepe, correggete di sale se serve, e mantecate con olio evo usando un frullatore ad immersione a bassa velocità, il composto deve risultare denso e cremoso, aggiungete un trito di prezzemolo.

Per la brunoise
cuocete al vapore una zucchina, una melanzana che avrete messo a spurgare una mezz'ora con poco sale, e un paio di carote. lasciate le verdure croccanti. E poi preparate la brunoise, come ha fatto il mio aiutante.


Per la millefoglie di triglie
passate 12 filetti freschissimi di triglia nella farina, usate metà farina 0 e metà di semola rimacinata. In una padella scaldate un dito di olio evo e quando pronto friggete le triglie. Un minuto per parte sarà più che sufficiente. Passate in carta assorbente, salate leggerissimamente e tenete in caldo.

Preparate il piatto mettendo nel fondo un cucchiaio di brunoise che avrete saltato in padella in poco olio evo e salato appena. Alternate un filetto di triglia ad un chucchiaio di crema di baccalà. Condite con una spruzzata di prezzemolo e un filo di olio evo a crudo.



E questo sarebbe l'antipasto, per il primo ci si sente tra una settimana ...

24 novembre 2009

The Human Tree

Se ne sta ancora lì fuori della finestra, immobile, silenziosa. E’ tutta la mattina che sta lì, e se ci sta anche adesso, che è quasi mezzogiorno, vuol dire che non se ne andrà più per oggi. Non mi piace questa nebbia immobile poco pesante, buia di un grigio fastidioso. Una via di mezzo tra nebbia, foschia e fumo inesistente. Una cosa che rimane a mezz’aria e che lascia vedere anche oltre il ciliegio dell’orto. Meglio quella densa, bianca e lucente della mattina, che ti fa andare a tastoni fin verso le nove, ma che poi si alza ed esplode in una giornata di sole. I vetri del salone cominciano a velarsi di condensa.

Lui è seduto al tavolo. La testa china sulle inseparabili parole crociate. L’auricolare della vecchia radiolina nell’orecchio, quasi nascosto dal biondo dei capelli. La matita sospesa nell’aria, in attesa di scendere in picchiata verso il foglio a riempire caselle, come un falco ad abbrancare un coniglio. La legge della natura fatta gioco e sapere. Le ciglia folte che nascondono lo sguardo e i pensieri. Cadrà un passo più in là, abbandonando falchi e conigli per sempre, incapace di nuove picchiate. Gli scivolo piano davanti, il mio passo leggero fa vibrare i bicchieri nella vetrina della dispensa. Sotto hanno scavato una cantina, ed ora il pavimento galleggia in precario equilibrio in un piccolo vuoto. Mi guarda sardonico e abbozza un sorriso, restiamo a fissarci per un attimo, per tanti attimi, per tutta una vita: la mia da quando mi ha conosciuto, la sua finché c’è stata. Poi scappo in cucina.

L’aria è calda, densa di profumo di brodo. Le maniche corte di mia nonna contrastano con la temperatura del resto della casa. La vampa di caldo mi si infila sotto il maglione pesante. Mi seggo sul davanzale della finestra: il marmo fresco. il freddo attaccato ai vetri. Lei si muove per la cucina come se ballasse, in quelle vecchie balere qua attorno. Veloce passa dal brodo alla sfoglia, la stende sottile e poi la piega. Gli anni sono solo anagrafe, e quando comincia a tagliare la sfoglia il suono mi prende: tutumtata tutumtata tutumtata …
Faccio scorrere la manica sinistra sul vetro: e tutto quel profumo che fino all’attimo prima era condensato in un etereo velo, esplode in acqua che distorce la vista, mi bagna il maglione e allaga il davanzale. E se prima vedevo offuscato, ora proprio non vedo. Non vedo il marciapiede lì fuori, non vedo gli alberi che circondano il vecchio campo da tennis. Non vedo quel cielo sopra quella casa, che grigio o azzurro che fosse è stato il cielo di me bambino. Non vedo. Ma sento quel profumo di brodo caldo e quel tutumtata, di quando mia nonna faceva:

I tagliolini in brodo



Si lo so con i tagliolini di nonna questi non c'entrano nulla. Non li faceva proprio così e di questa grandezza.
Ma ogni volta che vado in Cina e mangio un piatto di noodles, penso a come è strano esser partiti tutti dallo stesso posto, dall’Africa, attrezzati di uova, farina e matterello ed esser finiti ad essere così diversi da non capirsi. A parte poi ritrovarsi a cucinare le stesse cose o quasi.

No non erano neanche questi i tagliolini di mi nonna, i suoi erano sottilissimi ma la preparazione non cambia.



Si fa un brodo di carne buono, lo si filtra e sgrassa per la salute. Lo si riporta ad ebollizione, mentre a parte in una padella si fa soffriggere un "battuto" di guanciale e maggiorana, sempre per la salute. Quando il grasso è sciolto, si aggiunge mezzo cucchiaio di salsa di pomodoro. Nel frattempo si buttano i taglioni fatti con 100 gr di farina ogni 3 tuorli d'uovo, tagliati sottilissimi. Dopo un minuto, massimo due si aggiunge, al brodo e ai tagliolini, il condimento di guanciale. Attenzione che quando lo incorporate tende a "scoppiettare" da cui un'altra preparazione di questa terra: i "tagliolini al chioppo" dove al brodo è sostituita semplice acqua salata, e ai tagliolini all'uovo si usano quelli stile cinese acqua e farina. Comunque alla fine entrambi si impiattano e si condiscono con pecorino grattugiato. Parmigiano se li volete più delicati.



Se invece volete fare dei noodles cinesi, o qualcosa che gli somigli, da mangiare con i ravioli di gamberi: gli Har Gau. Dovete limitiarvi ad un impasto di acqua e farina, io ho aggiunto due albumi, ed un pizzico di sale. Con lo stesso impasto tirate anche una sfoglia sottile per i ravioli. Saltate i gamberi in padella con un po' di olio aromatizzato, come questo qui, o semplicemente con aglio. Li disponete sulla sfoglia e li chiudete a fagottino. Lessate i tagliolino e a metà cottura aggiungete i ravioli. Potete usare un brodo di verdure, o lo stesso brodo di carne come ho fatto io.

Tanto qualcuno affamato lo trovate sempre



16 novembre 2009

Io sono Sassoferratese

Sono di questa terra lontana dal mare, in mezzo a questa striscia d’Italia, quasi più vicina all’Umbria che alle Marche stesse.
Montanaro da sempre, con un indole marinara retaggio di una parentesi di vita Anconetana. Contadino per destino, cuciniere per vocazione, cultore della zappa e della vanga, apostolo della tecnologia e adepto della rete.
Sono figlio di questo nulla, dove ci si arriva per caso e raramente a ragione, di questo entroterra lontano dal molto, vicino all’essenziale.

Sono il nocciolo sputato da questa terra che mi puzza ancora sotto le unghie da generazioni: un vago odore di zolfo, e ancora di terra e poi d’inchiostro stantio. Sono il profugo che non si conosce, il personaggio episodico della piazza del paese, lo sconosciuto dal vivo, il conosciuto da finto. Sono l’uomo viaggiato, sono il padre partito, il figlio ritornato; ogni volta, in questa valle incastrata nella spina dorsale dell’Appennino. Una terra che lega, che tiene vicini, da cui non vedi l’ora di andartene. Per poi chiederti perché? Perché altrove, e perché non qui ?

Allora si sta come in trincea, a mordere stretto il cuoio della ragione, a non mollare, a rispondere picche alle cassandre del resto del mondo là fuori. A spiegare la ragione del perché quel leggero filo, quella bava, ti tiene legato, più della parentesi di una vacanza degli altri. A spiegare alla fine che non è solo perché ci sei nato, ma perché ci credi, credi che ci si può stare, ci si può far crescere figli con aspirazioni che siano un filo più grandi di quelle che tuo padre aveva per te, e che tuo nonno aveva per lui. Solo piccoli passi, ché quelli grandi non possiamo permetterceli.

E se rifletti, poi, a ragione ci sta tutto: ci stanno mille chilometri per andare al lavoro, ci sta di svegliarti alle sei per andartene a scuola, ci sta di andare al cinema anche se il film non t’interessa. Ci sta di rispondere, che sì in altri posti poteva andare meglio, ma questa è casa mia. Qui siamo nati, qualcuno c'è cresciuto, qualcuno ci è venuto, e se tutti ce ne andassimo, chi farebbe ancora:

I bigoli


Questo piatto è parte integrante della tradizione familiare, e quindi della terra che vivo. Anche se da un giro su Facebook, nonostante qualcuno li abbia associati alle famose pincinelle di Colonna, nessuno li ha riconosciuti per la loro particolare preparazione.

I bigoli son fatti con la polenta.



Questo è un piatto del giorno dopo, il giorno dopo aver fatto la polenta, con l'avanzo che rimane nel paiolo, si fanno i bigoli. Effettivamente in casa mia l'avanzo è voluto e cercato con aumento di quantità ad hoc.
Si prende quindi una quantità di polenta, qui le dosi e i grammi non esistono si và ad occhio. La polenta la si rimpasta con farina 00, in una quantità tale che la massa risulti malleabile ma non troppo morbida. Fatene quindi dei vermicelli o pincinelle o bigoli come diceva mia nonna. Come vanno conditi? Immancabilmente di magro, perché ? Perché la carne l'avete mangiata il giorno prima con la polenta, e quindi.

per il sugo e per quattro persone:

Sciogliete 4 alici sotto sale, che avrete lavate e sfilettate, in un soffritto di olio, aglio, peperoncino e prezzemolo. Lasciate soffriggere a fuoco basso per qualche minuto poi aggiungete dei pomodori pelati buoni o dei filetti di pomodoro freschi. Salate con attenzione (ricordate le alici ), lasciate sobbollire per una ventina di minuti il sugo fino a farlo addensare. Lessate i bigoli, scolateli e conditeli con il "finto" sugo, aggiungete prezzemolo fresco e una grattata di parmigiano reggiano, si, anche se ci sono le alici. Servite con un filo di olio a crudo


Magari non vale, ma io ho fatto una variante con del tonno "San Lorenzo" sott'olio ed un trito di olive taggiasche. Magari non vale mangiarli sui piatti, perché come per la polenta andrebbero mangiati sulla spianatora, magari non vale, ma ci sta.

04 novembre 2009

Fuso 13 volte

Non che sia facile raccapezzarsi a volte. É come un "melange", è come quando impasti un dolce: è tutto lì sotto, a quel velo lucido di impasto giallo. Poi quando lo metti in forno sarà quello a tirar fuori la forma, il sapore finale. Ecco ha me manca il forno, per tirar fuori la forma, per il resto dentro la testa, l'impasto c'è tutto. Pensieri, voci sensazioni, parole, persone, odori, profumi. Ti sei mai svegliato in un posto credendo di essere altrove ? Chiedeva un amico tempo fa.
Io mi devo ancora addormentare, quindi figurati se riesco a svegliarmi in un posto diverso.

Ho bisogno di tornare alla normalità del mio mondo, dopo esser passato per 13 fusi orari. Dopo essermi divincolato in pranzi di lavoro e di cene, fatti di semplice frutta, o tentativi di pasta cinese, di pizze Hut non mangiate, di fried rice freddi e incollati, di noodles scivolati fuori dal cartone, portarti su da uno dei tanti fastfood di Kowloon. Di Sushi ghiacciato e wasabi che apre il cervello, quando vorresti qualcosa di caldo. Di shabu shabu bollente quando vorresti qualcosa di fresco. Di un club sandwich a luci spente perché la cucina dell'albergo chiude alle undici di sera e a Tokyo non sentono cazzi, a meno che non ti inginocchi a mani giunte e ti metti a piangere. Di Pepperoni pizza, di un'altra pizza all'apparenza meno dannosa, ma che nascondeva aglio in quantità industriale, sotto ad improbabili fette di bufala del new jersey. Di insalate a cui con chirurgico metodo ho sfilato tutti i pezzi di cipolla che sono riuscito a trovare. Di un tonno anche decentemente cucinato, nella downtown della grande mela, ma che poi poggiava su un letto di spinaci impestato da una ventina di spicchi di aglio fritti.
Potrei vendermi un rene per un filo di olio extra vergine su di un'insalata di semplice lattuga, rucola e pomodoro, invece di quella gelatina che si ostinano tutti a chiamare Italian dressing, che non mi spaventa Italian ma che dressing è una parola tanto grossa.

Ho bisogno di ritrovare i miei ritmi, i miei sapori, di mettere in forno, finalmente l'impasto che mi galleggi a in testa. E si che io sono uno che si integra con la cucina indigena, più che con gli indigeni, dei posti dove vado. Ma dopo tre settimane cominciano a traballarmi le convinzioni, i principi. Comincio ad avere dejà vù di sapori e visioni di cibo di casa. E si che mi integro così tanto che prima di partire per questo viaggio ho fatto:

La sbirraglia ma con i tonnarelli di farro




Ho disossato un pollo e ridotto la polpa a striscioline e a tocchettini. Con le ossa ho fatto un brodo aggiungendo carota, cipolla, sedano e un pezzetto di manzo. Fatto un trito con cipolla e pancetta piuttosto magra, e soffritto in olio evo. Lasciato rosolare fino ad imbiondire ho poi aggiunto le interiora di pollo ben lavate, fatte a tocchettini e la polpa di pollo, salato e pepato. Ho lasciato rosolare e insaporire a fuoco deciso, e poi ho sfumato con vino bianco che ho fatto evaporare bene e aggiunto alla fine un cucchiaio di salsa di pomodoro. Ho fatto cuocere a fuoco lento per una quarantina di minuti mettendo a posto di sale.

A questo punto la tradizione veneta vorrebbe che si tirasse un risotto molto fluido quasi una minestra, direttamente con questo ragù e con il suo brodo. Io ho cambiato le carte in tavola e pensando al risotto ho pensato ai risi e bisi e ....

Va bè mi sono fatto dei tonnarelli, o uno spaghetto alla chitarra, al farro. Il farro lo coltivano vicino a casa mia, qui dietro proprio, lì su quella collina. Ho preparato una sfoglia con 4 uova intere 200gr. di farina 0 e 200 gr.di farina di farro. L'ho tirata molto spessa e poi tagliata. Mentre mi dedicavo alla pasta o rosolato con poca cipolla e in un filo di olio dei piselli (congelati). Lessato la pasta, scolata a metà cottura e finita in padella con il ragù di pollo e i piselli, aggiungendo brodo fino a cottura terminata. Ho condito con un filo di olio e una grattata di parmigiano.



Se invece volete farci il risotto eccolo qua, tirato con il brodo di pollo e unica eccezione la presenza del pisello, altrimenti sarebbe il risotto alla sbirraglia di Trevigiana tradizione.



C'ho fame !!!!!!!!!!!!!

25 ottobre 2009

Un filo mi lega

C’è un filo leggero che mi lega, mi tiene legato; agli affetti, alla terra, la mia, quella che vivo. Alle cose che amo, e porto lontane, più strette vicine.
Una bava di ragno che si sfila sottile, quando io parto. Un legame leggero, aereo, quasi diafano, evanescente, come il respiro di un figlio che dorme, spiato nel buio. Lo sento tirarmi, a volte, come un guinzaglio che strappa alla fuga. Lo ritrovo negli occhi di un bimbo sorpreso dal mondo, nell’ arrancare gobbo di un vecchio. Nel sorriso timido di una ragazza che guarda il mio libro: sfogliato al contrario del suo, in questo treno che attraversa la notte.

Lo perdo a volte distratto dai suoni, dalla cacofonia urlante, della gente "vomitata" per le strade che viaggio. A volte distratto dai profumi non miei, dai sapori lontani che annullano quasi, senza tagliarla quella bava di ragno.

E' allora che torno a cercarla nelle voci allegre che mi parlano dal video, in una foto cercata tra tante che porto, che faccio. Ricordi affollati, in profumi che non trovo, che sanno di casa diversa. E a poco serve provare a chiedere:

Il Barcarolo consolidato



Che il barcarolo fosse un prodotto da export non era immaginabile, quando lo facemmo nascere tra Umbria e Marche. Questa sorta di caffè corretto a metà strada tra il caffè bevuto dai bambini e la Moretta di Fano sta guadagnando mercati e "marchet scear" che neanche la gieffecappa riesce a stargli dietro. Me lo faccio fare nel profondo Coneglianese nella modaiola Milano, nella ridente Firenze. Sono arrivato a farmelo fare nelle capitali Europee, a Sidney qualche mese fa, qui ad Hong Kong ma non l'altra sera. La preparazione originale prevede: un caffè d'orzo in tazza grande, tazza in cui prima va strizzata e poi lasciata una buccetta di limone, alla fine si corregge il tutto con Varnelli o Sambuca se si ci si trova in territori estranei.
Ma qualche giorno fa, certamente prima che partissi per venirmene qui, ho consolidato la preparazione:



Ho incorporato a 250 cl di panna 250 cl di caffè d'orzo molto ristretto . Potete farlo anche con l'orzo bimbo solubile viene benissimo l'importante e che si bello carico. Ho aggiunto una buccia di limone intera e ho la sciato sobbollire per una ventina di minuti. Ho tolto la buccia di limone, zuccherato a piacere e ho aggiunto 4 fogli di gelatina per dolci:la quantitá dipende da quanto vi piace densa la panna cotta, perchè alla fine di qualcosa di simile stiamo parlando. Ho riempito di un terzo degli stampini di alluminio. Ho inserito un disco di pan di spagna bagnato con il barcarolo in forma di caffè. Ho finito con il resto del composto fino a riempire gli stampini. Ho lasciato raffreddare.

Per completare ho preparato una crema al cioccolato senza farina: ho battuto un tuorlo d'uovo con due cucchiai di zucchero, ho incorporato 200 cle di latte e 50 gr di cioccolato 75% sciolto a bagnomaria. Ho ricotto tutto a bagnomaria finché la crema non ha preso corpo e lucidità. Alla fine ho corretto con del Varnelli abbondante.

E quando l'ho fatta assaggiare a Matti mi son dimenticato che la crema fosse alcolica ... piuttosto.




16 ottobre 2009

Una Zucca di Marca

Esco. Nel rumore ovattato di questa città che si va a rinchiudere in casa. Gli ultimi fuochi di un tramonto lontano, non scaldano dal freddo che è appena arrivato. Il cane dei vicini si agita dietro la siepe. Gli ululati svegliano altri due cani, in un guardino aldilà della strada. E' sempre così, il mio passare annunciato, come un tomtom casalingo, dal latrare alternato dei cani. Nessun altro per strada.
Attraverso un giardino, altalene e scivoli immobili. Un campetto di calcio scorre al mio fianco. La ghiaia grigia lascia il posto all'asfalto. Ancora una svolta, ancora siepi, giardini, spezzoni di vita non mia, che passa soffusa dietro le finestre oramai accese.

Entro. Un cartello con la scritta "APERTO" evita il dubbio che le luci basse possono far nascere. Mi infilo dentro al locale, come un boccone ingoiato senza morsi. Mi nascondo dietro ad una nicchia del muro e aspetto, un gazzettino per ingannare il tempo, che sfoglio senza leggere.

Un buon succedaneo della propria casa, della propria cucina. Cibi leggeri, fatti con cura, con storia. A pranzo: lui in cucina e lei in sala, la sera si invertono i ruoli. Si mangia veloci, tranquilli, perfetti. Poi dopo davanti ad un barcarolo, unica eccezione marchigiana in questo pezzo di Marca, si chiacchiera. Ritornano i figli che non sono qui, il lavoro, i miei viaggi e poi la cucina. La mia curiosità per i piatti locali: gli s'ciopet, i bruscàndoli, la sbirraglia. Ed ogni volta me ne ritorno a casa con un pezzo di storia non mia. Un pezzo di cultura ancora da incollare alla mia storia, e a questo blog come faccio oramai da tempo.

E se vicino ai pissacàn stasera c'era una fetta di zucca passata in forno. Ma una zucca diversa da quella che conoscevo: ogni marca ha la sua "marca" di zucca, almeno. E se c'era la zucca, dicevo, non potevo non far diventare un piatto le chiacchiere di una serata con la signora, e allora:

Gnocchi di zucca con speck di Corvara e fonduta al Montasio




Ho preparato gli gnocchi in questo modo, ma invece di un chilo di patate, li ho fatti con 600 gr. (a crudo) di patate e 400 gr. (cotti) di polpa di zucca Mantovana (così mi han detto).
Poco prima di servire ho appassito mezza cipolla in poco olio,ho profumato con del timo, ho aggiunto 200 gr., tagliati a fiammifero, di speck di Corvara, omaggio gradito di fraterne vacanze. Ho lessato gli gnocchi in abbondante acqua, e mentre saltavo gli gnocchi in padella, ho aggiunto qualche cucchiaio di fonduta al Montasio che ho preparato scaldando a bagnomaria 250 gr. latte e una noce di burro (sostituibile con 250 gr, di panna fresca) a cui ho incorporato 250 gr. di Montasio di 3 mesi che avevo grattugiato in precedenza.




Ho servito e mangiato poco, perché se siete in quattro ma affamati un paio di cento grammi in più di patate e tutto il resto in proporzione non guastano.



06 ottobre 2009

Strade non scontate

Che questa strada porti verso il mare, non è così scontato. Prende nella direzione sbagliata: invece di scendere, (per noi montanari l’andare verso la costa sarà sempre “scendere”), se ne va dalla parte opposta: verso le montagne.
E appunto sale e non scende. Si arrampica verso le colline dietro Cabernardi. Mi scorre davanti mentre me ne sto seduto accanto a lui, gli occhi incollati fuori dal finestrino, sulla campagna di una fine estate, che passa silenziosa. Aspetto la vista del mare, annunciatomi mentre salivo in auto con lui. La vista di una spiaggia che, nell’immaginario di bimbo, è colorata di ombrelloni, di secchielli e di formine.

La Vecchia renault dieci arranca decisa. Una nuvola di polvere leggera ci insegue, la strada sterrata si sta riasciugando dopo la pioggia di ieri. Poi la salita finisce, allungo il collo in avanti a cercare quel mare agognato. Lui se la ride soddisfatto, silenzioso, una foglia di basilico infilata sopra il suo orecchio destro. La strada scivola tra le “punte” delle colline, passa accanto al vecchio pozzo di Vallotica, e prima che si rituffi in una discesa, lui ferma l’auto. Si gira sul sedile, per affacciarsi dalla mia parte e mi dice “vedi?”.
Guardo il suo viso, abbronzato dal sole dell’orto dove passa i suoi pomeriggi di lettura, di parole crociate e di solitari sonnecchi. I sopraccigli folti e i capelli biondi che questo sole di settembre rende quasi trasparenti. La sua camicia a scacchi di cotone leggero, le sue mani nodose.
Seguo il suo sguardo, e lontano, oltre tutte le colline delle Marche, vedo un’enorme striscia di azzurro, un tratto “grasso” di pastello, che si stacca dal marrone della costa e dal celeste del cielo: il mare.
Il mare senza le onde, senza il vociare dei bagnanti, il mare senza la spiaggia che scotta, senza gli ombrelloni, i secchielli, le formine. E senza le navi, che da quassù a quasi quaranta chilometri, non vedrò mai.

Lo guardo un ultima volta, mentre scompare dietro agli alberi di questa strada che ci porta al mercato. Andiamo a comprare il pesce, che è la cosa più naturale se sei al mare. Anche se lontano.

Il pesce, per lui, è stato sempre un pesce di fiera, di mercato, comprato già cotto in posti che solo lui sapeva. Gli spiedini arrosto di San Lorenzo, la frittura di Pergola, i sardoncini scottadito di chissà dove. Pesce che appariva a contorno dei suoi immancabili piatti di pasta "affogati" di cipolla e parmigiano. Un pesce anche mangiato freddo o appena riscaldato sulla stufa da mia nonna, o da mia zia. In un contradittorio infinito su come doveva essere, scaldato, servito, mangiato. Fino all’ultima lisca fino all’ultimo anello di totano. Per ritrovarlo arrabbiato e musone, quando poi scopriva, che qualcuno aveva buttato l’ultimo avanzo, ormai vecchio di giorni. Un pesce tutto suo, solo per lui, che non avrebbe mai concepito, forse, la mia:

Insalata tiepida di mare e carciofi sott'olio



Per 4 persone
Il giorno prima cuocio al vapore, aromatizzo l'acqua con qualche grano di pepe e un rametto di rosmarino, 16 cuori di carciofo teneressimi, che lascio belli croccanti. Li asciugo e li condisco con olio, sale, rosmarino e aglio a pezzetti (che poi eliminerò). Li lascio riposare in frigo per tutta una giornata.

Il giorno dopo rimedio: 8 calamari piccoli, 8 mazzancolle belle grandi, due piccoli merluzzetti e due gallinelle. Pulisco il pesce e lo cuocio al vapore separatamente, con acqua aromatizzata con succo di limone, buccia di limone grattugiata e un paio di rametti di finocchio selvatico. Preparo una salamoia di olio, sale, pepe e finocchietto selvatico.

Impiatto il pesce tiepido e i carciofi tirati fuori dal frigo almeno un paio d'ore prima.




Magari invece avrebbe apprezzato

29 settembre 2009

Un' estate che non passa

E' buio. Di un buio pesto, che sa di inverno. Eppure l'estate è appena finita.
O forse no. Non se ne è ancora andata, se un paio di ore fa, quando son partito, ho dovuto mettere il condizionatore a palla. Un sole che picchia, ma che scende veloce, e mentre viaggio distratto dal mondo che mi gira attorno, quel sole scompare dietro la linea dell'orizzonte. Là nella direzione in cui gli aerei si staccan da terra. Pian piano il crepuscolo lascia il posto alla notte. Gli aerei diventano luci. Lenti meteoriti che cadono al contrario. E adesso è buio, un buio pesto da fari accesi, che sfilano veloci dalla parte opposta. Ma è ancora estate, ci sono tutti i segni: il caldo, il cielo terso, prima che scomparisse, e le code.

Arranco lento nei lampi rossi dei freni di fronte. Sbircio negli abitacoli di un buio deserto. Ogni tanto qualche lampo mi rimanda facce insofferenti e sofferenti. Aspetto che il nulla che ci blocca, si materializzi nel vuoto di tre corsie libere. La radio racconta le solite storie banali, stancanti, bavose, tristi. Un desiderio di non appartenenza mi riporta nei posti del mio passato. Non serve. Serve solo a risvegliare inutili rimpianti. Riparto veloce, qualche centinaio di metri, rifreno, il pulsante rosso triangolare torna a lampeggiare tre, quattro volte.

Il telefono squilla. Sono lontano, troppo per cenare assieme, ancora di più per vederci prima di andare a dormire. Mi fermerò. Come sempre, a mangiare qualcosa, da solo, come quasi tutte le sere. Un cartello mi dice che a millecinquecento metri si sta avvicinando un'area di servizio. Una "A" stilizzata, con un baffo svirgolante, una forchetta e un coltello, ammiccano complici. Le frecce cominciano a lampeggiare, la velocità lenta aiuta ad abbandonare la carreggiata. Vedo la deviazione venirmi incontro e poi, passarmi accanto. Sfila la siepe, il distributore di carburante, la gente che si accalca sulle scale, il ristorante con la grande "A" che ora mi guarda andarmene.

Esco più avanti. Cesena mi abbraccia silenziosa. Un vialone diritto, verso il centro, due minuti di strada fino ad un parcheggio. Fermo la macchina, scendo nella fievole luce di un paio di lampioni infilati tra gli alberi. Mi avvicino al chioschetto, dentro un padre e una figlia si muovono veloci. La ragazza mi chiede cosa mangio. Il rumore dell'autostrada è lontano, le luci non accecano più.
La guardo e sorrido, do un'occhiata al menù appeso fuori, mi sa che prendo ...

Il Crescione



La pasta base è quella della piadina, ma tirata più sottile. Io la faccio così:
200 gr di farina "00", 300 gr di farina "2" (va bene anche una "0" normale) 15 gr di bicarbonato (nella versione in foto sono arrivato a 40 gr, la volevo più soffice e "sbriciolona" oltre si rischia) 50 gr di evo (anche se la tradizione vuole lo strutto) 15 gr. di sale 250 grammi di acqua. Impasto il tutto e lascio riposare in frigo per un paio d'ore avvolto in pellicola.

Preparo dei panetti uguali, 9 o 10 con la quantità indicata. Li stendo con il mattarello infarinando il piano. Li farcisco con verdure cotte (bietole) ripassate in padella con aglio, mozzarella, crudo. Oppure con pomodorini, mozzarella, basilico, parmigiano grattugiato e cotto.
Cuocio su padelle antiaderenti ben calde.



Quella sera è andata che ci è scappata una porchetta, come poche capitano di trovare. Una piada, i pomodorini, la porchetta e un filo d'olio ci è andata, eccome.



21 settembre 2009

Nero

Se aprissi la finestra di questa camera potrei sentirlo. Mi verrebbe in faccia con la sua nebbia umida, profumata di sale e di legno. Sentirei il suo rumoreggiare, dietro i palazzi di fronte. Immaginerei i suoi colori tra il nero e il grigio, dalla sirena del faro, che si sgola nella nebbia pesante.
Ma se ne sta la dietro nascosto dal numero nove di questa via Piemonte.

Basterebbe scendere in strada, fare pochi passi, giù, verso la statale, e dietro l'angolo me lo ritroverei di fronte. Nello spazio lasciato libero, allora, dal cemento. Un acqua di città, poco avvezza al turismo. Una striscia di spiaggia appena sufficiente ai residenti. Una sequenza di parallelismi quasi matematici: gli scogli, la spiaggia, la ferrovia, la statale, le case.

Eppure la prima volta che ci siamo incontrati l'alba brillava di quei soli invernali, caldi ma non fastidiosi. La luce biancheggiava sulle mura del duomo, e rimbalzava sulle sue onde appena accennate. Lungo la strada i trabucchi con le reti appese, mi venivano incontro con quella loro sensazione di vita imminente. Tradita poi dalla consapevolezza di un solitario abbandono. Basterà poco a far sì che quell'acqua diventi la presenza normale di un'adolescenza inconsapevole.

Lo vedrò sfilarmi a fianco mentre in autobus raggiungerò le mie scuole: sulla destra fino alle medie, sulla sinistra alle superiori. Rimarrà incastonato in tutti i paesaggi pomeridiani passati a giocare per strada. Quella distesa azzurra vista dai campi dietro alla città, fintanto che i palazzi non se li prenderanno. Sulla spiaggia nelle sere d'estate a passeggiare tra un pontile e l'altro. Sugli scogli nei pomeriggi di pesca con mio padre. Nello sciabordio triste e silenzioso lungo le banchine del porto, nei pomeriggi di domenica passati a "guardare le navi".

Uno sciabordio lontano dai rumori del traffico del centro. La curiosità ignorante di tre ragazzini di campagna. Le mura delle navi, che portano lontano, forse un giorno, da grandi. I colori che brillano ai pochi raggi di soli veloci ad andarsene. Il grigio delle banchine, il rosso e l'azzurro accesi delle navi e:

Il nero del mare e il porto di Ancona.


Mettiamo subito i puntini sulle "i" il nero di seppia non è parte della tradizione storica marchigiana, o quanto meno, a me non risulta. E il brodetto che citerò per questo piatto, poco ha a che vedere con il vero brodetto anconetano. Al mio mancano una decina di tipi di pesce: il brodetto di Ancona ne vorrebbe 13, e poi manca l'aceto. Ma per semplicità e per fantasia lo chiamerò brodetto.

Per circa 6 persone

Per la sfoglia:

Impastate 3 uova con 300 gr di farina "0", un pizzico di sale e due confezioni di nero di seppia (le bustine che trovate presso le pescherie, a meno che non avete una pesciarola che ve ne rimedia). Preparate l'impasto e lasciate riposare almeno mezz'ora in frigo.

Per la farcia del tortello:
ho utilizzato 300 gr di polpa di rana pescatrice, 300 gr di gamberi, il tutto passato al mixer. Ho insaporito con pepe, sale, noce moscata e la buccia grattugiata di un limone.

Ho tirato la sfoglia e fatto dei tortelli di media grandezza.

Per il "brodetto"
Ho preparato un fumetto con la testa e la lisca della rana, le teste dei gamberi e delle mazzancolle, qualche pescetto rimediato in pescheria, una carota, un pomodoro ramato e una cipolla. Ho lasciato il tutto ridursi per un paio d'ore. Poco prima di impiattare ho affettato finemente una mezza cipolla che ho lasciato imbondire con uno spicchio d'aglio in evo buono. Ho messo il fuoco al massimo e ho tuffato alcuni datterini affettati grossolanamente. Un minuto e poi ho aggiunto, pulite in precedenza, le code di 6 scampi e di 6 gamberi, 6 calamari piccolini fatti a rondelle, e 6 tranci spinati di cernia. Ho fatto scottare per 2 minuti.

Nel frattempo ho lessato i tortelli in abbondante acqua salata. Li ho saltati in padella con il pesce e ho poi aggiunto il fumetto, quantità a piacimento, filtrato in precedenza. Ho aggiunto una spruzzata di trito di prezzemolo e ho servito con un filo di evo buono a crudo.

A qualcuno è piaciuto inzupparci anche il pane, in quel ricordo di nero mare e di porto d'Ancona.

15 settembre 2009

Coso !

“Coso !”
“…”
“Quello che … ha sposato cosa ! La figlia di Giovanna !”
“…”
“Giovanna !. La moglie di quello che lavora al comune !”
“…”
E’ vero, io sono un tipo abbastanza dissociato dalla vita civica del mio paese. E’ vero anche che non amo troppo la vita “mondana” in genere. Quattromila anime che incontro, a parte la virtualità di questo blog, in piazza o per le vie giusto il sabato mattina quando vado a fare la spesa. Tanto che tempo fa è accaduto che un amico mi ha presentato ad una sua amica, lo ha fatto citando il mio nome e cognome di battesimo. La cosa ha lasciato l'amica fredda, abbastanza indifferente, un po' come a dire "e sti caaaazzi !" Poi il mio amico gli si è avvicinato e gli ha detto: "... é Loste della colica!" Apriti cielo.
E' così. D'altronde alla frequentazione serale del bar, preferisco le partite a “Uno” con Spaccaball. Ma certo che se per spiegarmi chi sia una persona si parte da “coso che ha sposato cosa”, io in questo paese non solo non mi integrerò mai, ma rischio anche di perdermi per le strade.
Qualcuno però arriva in mio soccorso, una memoria imbattibile nell’associazione nome/viso/evento. Roba da far ammosciare i circuiti di un cray. Quando Lella comincia a spiegare chi siano "Coso e Cosa" ho un espressione che la dice lunga su fin dove riuscirò a seguirla. Roba del tipo: ti prego, lasciami qui con una borraccia d’acqua ad aspettare la morte. Oppure: meglio sparami direttamente un colpo di in testa e non farmi agonizzare dietro ai nomi di gente non conosco, con cui non ho mai parlato e con la quale condivido solo il cap postale. Intanto mia madre continua:
“Lui. Coso ! Che ha sposato cosa !...”
“La figlia di Giovanna” intervengo io. A far capire che fino a qui ci sono arrivato, “Quindi: Coso ha sposato Cosa. Cosa è la figlia di Giovanna. Giovanna è la moglie di quello che lavora in comune. Quindi Quello che lavora in comune è il marito di Giovanna, quindi è il padre di Cosa e il suocero di Coso. If, not, or, and”
“… (!)”
“Lascia stare era una booleanata.”
“Comunque te non capisci. Ti volevo dire che Giovanna una volta mi ha fatto assaggiare un dolce come questo qui, che la ricetta gliela aveva data Lui, Coso, che è di Napoli”
La Pastiera!
Apriti cielo. Tutte le sinapsi si ricollegano e tutto ora è limpido e chiaro. I nomi ora sono lì, cristallini e scontati. Solo che a me non dicono nulla come prima, ma pazienza. E' che si, può anche sembrare una pastiera: la base di frolla la ricotta nella farcia con la zeste di arancia. Ma qui, su questa, c'è una marmellata di more e poi c'è quello che mia madre chiama "un sapore antico, di quando ero bambina." Eccola là che lo messa seduta, una volta tanto ti strappo la lacrimuccia di un tempo che c'era e che ora non c'è.
Basta un profumo e ricompaiono le stanze, i corridoi di una casa senza il sonoro del televisore. Una gonnina di lana grezza, una camicetta di cotone e due scarpe quasi ortopediche, nere e pesanti. Un mondo che guardavi dal basso in alto. Tua mamma (mia nonna) che cucina sulla stufa a legna. Nessun altro in casa. E tu che la guardi, in una giovinezza che io non ho mai visto, girare intorno a quel lavello di granito, spadellare per la cucina. E dal forno esce quel profumo, un profumo fatto di un misto tra il rosolio e l'anice, un profumo di cannella, che adesso senti qui, nella mia:

QuasiNonPastiera



Ho preparato una frolla (ricetta qui) che ho lasciato in frigo una mezza giornata. Ne ho usato 3/4 stendendola con un mattarello e disponendola in una teglia imburrata con bordi alti. Ho steso un velo di marmellata di more, infantile piacere. Ho poi preparato una farcia ammalgamando 250gr di ricotta vaccina e 50 gr di zucchero, ho aggiunto 2 tuorli, la buccia di un arancia fatta a zeste, o se volete la grattugiate, e un po' di cioccolato a pezzetti. Ho poi aggiunto quel profumo che una bambina sentiva una vita fa: 15 ml di preparato Varnelli "delizia classico". Le tipiche "gocce" per le pizze pasquali marchigiane. Ho steso la farcia sopra la marmellata guarnito con la restante parte di frolla fatta a striscioline e infornato per 50 minuti a 160° ventilato.




08 settembre 2009

Facili alternative

E lì, candida nella scatola trasparente “per alimenti”. Un velo di siero lattiginoso copre il fondo. L’ho ordinata io, sì! Ho ordinato “una” ricotta. Ma io pensavo che ne arrivassero i soliti quattrocento grammi di sempre. E' da qualche mese oramai che utilizziamo questo “servizio” pseudodomiciliare: un piccolo caseificio fuori zona, vende direttamente ad un gruppo di consumatori, noi e altre famiglie legate scolasticamente dai figli, a prezzi da grossista. Ogni giovedì approvvigioniamo i latticini per la settimana. Se volessimo fare i “fighi” dovremmo definirci un G.A.S. con tanto di nome altisonante. Ma alla fine siamo una decina di famiglie che comprano da un buon produttore, tale è.
Ecco stavolta ho fatto io l’ordine, e distrattamente ho detto, all’ amica incaricata: “una ricotta, un primo sale e le mozzarelle”.
Ed ora la ricotta è lì, candida nella scatola trasparente “per alimenti”. Il numerello della bilancia recita “1248”. Un chilo e due di ricotta. “E adesso chi se la mangia ?”
La domanda è arrivata dai pochi “creativoscettici” della famiglia. Nano ha detto: “Io !”. Non tutta Nano, non tutta. Ravioli ecco cosa faremo, ho pensato. Allora altri cinquecento grammi di spinaci appena scottati un poco di sale, parmigiano e poi almeno dieci uova di pasta. Una bella sfoglia sottile che dopo aver fatto riposare in frigo tirerò con la sfogliatrice.

Facile, se la sfogliatrice non l'hai mandata ad un tuo amico che è rimasto senza in un ristorante. Si l'hai ordinata, ma poi non serviva e non hai sollecitato. Che con il caldo ti butti su piatti leggeri, freschi, mica ravioli o tortelli. Poi le ferie, parti, ritorni e ... E la sfogliatrice non c'è ancora. Allora ti armi di lasagnolo alias mattarello e attacchi a fare sfoglia. Però dieci uova ! Diciamo la metà ? e l'altra metà di farcia? Facile:

Gnocchi di ricotta con porcini



Per quattro persone usate 250 gr di ricotta, se vi piacciono i sapori decisi quella di pecora va benissimo, altrimenti vacccina. 100 gr. di spinaci lessati e strizzati benissimo, che passerete al coltello fino a ridurli finemente. Amalgamate, ricotta e spinaci, salate, aggiungete del parmigiano grattugiato circa 40 grammi, una bella spolverata di noce moscata grattugiata fresca. Disponete la farcia su di un piano di lavoro ed incorporate circa 100 grammi di farina o quanta ne basta per rendere l'impasto più sodo.
Formate delle piccole quenelle, usando due cucchiaini da caffè. Portate ad ebollizione in abbondante acqua salata, e lessate gli gnocchi. Scolateli bene e conditeli con burro fuso, porcini appena saltati in padella con pochissimo olio, e con una grattata di parmigiano a scaglie.



L'uovo ? Non ne ho messo, ma nessuno lo vieta, bisogna aumentare la farina però

31 agosto 2009

E così sia


E’ come un filo sottile e leggero, trasparente. In equilibrio sulla linea dei ricordi.
Un ritorno a ritrovare, ancora, i posti di un passato. Una sensazione di tristezza, una volta, ora cancellata da questo presente: futuro di quel passato.
Come è strano che a volte possa bastare qualche cosa di banale, come un luogo, per ritrovare tutti i ricordi chiusi nei mille cassetti di una non memoria.
E poi la musica, comincio a canticchiare quella canzone da quando mi infilo nelle strette viuzze del paese. E’ lì, quel motivo, come se fosse incollato sul pavè della strada, improbabile traccia sonora di una multimedialità fantasiosa. Prima è un vocalizzo silenzioso: solo mentale, poi cresce, quel tanto per strappare le occhiate di un Leo interrogativo. Quando passo davanti alla fontana del parcheggio accenno alle prime strofe. Gli altri parlano, io canto, canticchio, sorrido distratto dai miei pensieri. Matteo fa domande che non ascolto. Gli arruffo i capelli già corti, mi guarda e sorride, poi si accosta al mio fianco e aspetta.

"Conosco un posto nel mio cuore, dove tira sempre il vento, per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento..."

Aspetta che lo stringo a me in un abbraccio che ci fa quasi finire per terra, scoordinando il mio passo al suo.
Ritorniamo al centro del paese, silenzioso nella frescura della sera. Pochi rumori dalle case. La canzone continua a girare ora la canticchia anche Lella.





Entriamo, varchiamo l’arco del cortile di questa casa, forse, ottocentesca.
E tutto è ancora come sempre. L’androne con le vecchie cianfrusaglie, le tazze sul davanzale, i tavoli di pietra nel piccolo giardinetto. Il cameriere e la patron, la parete con le copertine della musica che mi ha cresciuto. L’album di quella canzone che immancabilmente canticchio quando vengo qui.

"Che pena, che nostalgia, non guardarti negli occhi e dirti un'altra bugia ... "

Sedersi a quei tavoli vecchi d’osteria le sedie impagliate. Le finestre spalancate, ritrovare il proprio posto accoccolato di traverso, la schiena appoggiata al muro. La prima “panaché” che scorre ghiacciata in gola. Ritrovare nel menù i piatti di sempre: “gli uccelletti scapati”… i ricordi ritrovati.
Leo che guarda le copertine con gli occhi di un ragazzo e non più di un bimbo. E quella musica che ora è diventata la colonna sonora della cena. Cantiamo, Leo ci accompagna con il tavolo che è diventato un bongo. E chi l'avrebbe detto che poteva essere così, il futuro di quel passato.




Il resto verrà, come quella canzone:
“… Buonanotte, anima mia, adesso spengo la luce, e così sia”

Grotto dell'Ortiga"
Strada Regina 35
CH-6928 Manno (Switzerland)

Tel. +41916051613
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03 agosto 2009

In quell'ansa laggiù

Durante la settimana, ha girato un po’ su internet, distratto tra una versione di greco e una di latino. Ha organizzato la cosa senza dirci nulla. Il giorno prima mentre tornavamo dalla spesa, ha preso il navigatore e ha digitato una destinazione. L’ho guardato con la coda dell’occhio in mezzo al traffico del pomeriggio trevigiano. Quando il navigatore ha finito di calcolare, ed è apparso il percorso, ha esclamato soddisfatto: “Non è neanche tanto lontano !”

Possagno alle pendici del monte Palon. “E’ lassù che dobbiamo andare” . Basta che sia montagna e per me non ci sono problemi. Abbiam chiesto alla cartoleria del paese le indicazioni per la strada del monte Palon, ci han guardato un po’ strani. Si c’è una strada ma è pericolosa, potreste morire (!) Meglio se passate dal monte Tomba. Strano, ho pensato, per non rischiar di morire è meglio passare per un posto dove qualcuno è stato sicuramente seppellito. Siamo saliti. Una stradina stretta di asfalto e foglie cadute, generosi in strombazzate di clacson. A metà della salita abbiamo sostato ad osservare l'altra metà di salita. Un serpente di tornanti che si arrampica verso la cima, e poi ancora oltre fino al Grappa che si affaccia dietro.

Ho pensato a come doveva essere qui quando novanta anni fa si combatteva tra queste montagne. E’ allora mi sono seduto tra le trincee ad ascoltare il silenzio del monte. E poi il ragazzo commentare, che qui su quest’erba che morde i sassi bianchi, si è scritta la storia di un paese. E’ bastato respirare e sentire l’odore. Quell'odore di storia che c'è a passare nelle gallerie e tra gli avamposti recuperati dai volontari, alpini anche loro come i nonni. Quell'odore diverso a guardarsi l’Italia giù in basso lontana, il Piave che come una grossa ferita, si allunga giù verso il mare. A pensare a come erano e a come siam diventati.

Siamo stati così, ad ascoltare quell’odore, silenziosi ognuno nei propri pensieri. Spaccaball che ruzzolava tra le pietre. Leo che cercava le sue certezze. Io che continuavo ad immaginare il banale, il vivere quassù. Vedere, forse qualcuno, la casa laggiù in basso. Ho ripercorso mentalmente la storia, da quel maggio del '15 fino a quel novembre del '17. Il passare e poi ripassare su quella striscia grigia, giù nella valle. Un nuovo "confine", difeso da qui, da questa montagna e da quella appena qui dietro. E quando sembrava che potesse crollare riattraversarlo, verso il Carso, Trieste.

Si è avvicinato, si è sdraiato al mio fianco, anche lui appoggiato su un gomito. "Lo vedi il Piave? Lì all'inizio dove fa quell'ansa a sinistra Ecco dovrebbe esser lì, l'osteria dove voglio andare."






Ci rituffiamo lungo la strada che ora sembra più larga. Il sole che picchia nella valle. Onigo di Pederobba, in via rive sta la "Trattoria alle Rive" lungo l'argine destro del Piave. Le rive appunto.
Ci accoglie una casa in penombra come quelle dell'infanzia. Un vecchio pianoforte, una vecchia "mattra". Cerchiamo da soli i segni della presenza di qualcuno. Un cane grande e nero, annunciato da un cartello che informa sulla presenza di animali domestici liberi, ci fa strada verso il giardino. Un piacevole pergolato tra legno e alberi accoglie una decina di tavoli. Un grande muro sulla destra. La cucina si affaccia a porte aperte. Mi seggo, la schiena appoggiata a quel muro, rilassato ascolto il menù raccontato dalla patron Silvia.
Pomodori all'agro, tortino di zucchine e crema di pomodoro, bruschetta. Fusilli fatti in casa con pomodoro e ricotta, degli stortini (una pasta indigena) con verdure e yogurt fresco, i bigoi con l'anatra, le crespelle. I medaglioni di vitello con i porcini, il formaggio Piave cotto e le braciole con le melanzane. Il sorbetto di ananas, il tiramisù, la torta di mele e una chantilly ai frutti di bosco.
Intanto ci porti l'acqua.

E mangia piano Matti che altrimenti ti strozzi, non vedi !!!







Trattoria "Alle Rive"
Via Rive, 46
31050 Onigo (TV)

tel. 0423 64267‎