14 marzo 2011

Un campo di papaveri


C’erano quattro piccoli sassolini incastrati tra le pieghe della ferita, poi altri più piccoli che l’ultimo goccio d’acqua della bottiglia non era riuscito a togliere. Usando la punta di un mignolo staccò un paio di pietruzze, le più grandi, le altre si continuavano a mischiare con il sangue che tornava ad uscire copioso, dal ginocchio devastato dalla caduta. Caduta ! No non era stata una caduta era stato un tuffo spettacolare ma non era servito a niente.

Era andata bene per quasi tutta la partita, loro se ne erano stati rintanati nella loro metà campo a difendersi dagli assalti dei suoi compagni. Lui era restato fra i pali della porta a guardarli giocare, attento ad ogni traiettoria della palla. Aveva scambiato due chiacchiere con il suo stopper: si era informato se quella sera si sarebbero ritrovati al “circolo”: il bar del paese. Si chiamava così perché era il circolo sociale dei lavoratori della miniera e potevi entrare solo se tesserato, ma entravano tutti. Il sabato sera si ballava pure, e anche quel sabato. Quando lo stopper si era allontanato, risalendo fin quasi al centro campo lo aveva provato a chiamare, non tanto per la compagnia ma perché uno stopper a centro campo non è uno stopper.
Così aveva chiacchierato con Franco che dalle tribune era venuto a vedere la partita dietro la rete della sua porta. Più che chiacchierare aveva risposto a monosillabi alle sue insistenti domande: chiedeva di tutto, qualsiasi cosa gli passasse per l’anticamera del cervello. Ma la cosa che proprio aveva colpito Franco, erano i suoi guanti di pelle. Non si capacitava proprio del perché avesse bisogno di quei guanti con il caldo che faceva quel giorno. Franco era proprio indietro, non li metteva mica per il freddo, che ne sapeva lui.

La domenica prima l’Ambrosiana Inter aveva vinto il suo quinto scudetto, aveva giocato a Bologna in casa dei leoni e aveva vinto per due a zero, quando la domenica, ancora prima, aveva perso in casa con il Novara e la Bologna era andata a vincere a Genova contro il Liguria. Facile certo, quelli erano già retrocessi, morti, scomparsi, in serie B. Si erano ritrovati all’ultima di campionato con gli stessi punti, l’Ambrosiana e la Bologna, e lo scontro diretto in casa loro. Da infarto. Aveva sentito la partita alla radio e nella canicola del due giugno del quaranta, Perucchetti le aveva parate tutte, non se ne era fatta passare neanche una. E in quella partita, portava un paio di guantoni, così aveva detto il radio cronista, nonostante il caldo. Magari non di pelle come quelli che indossava lui, che erano di suo padre.
Ma vuoi mettere, qui fra questi due pali, biondo con gli occhi azzurri, i guanti infilati e lei sulla gradinata, che continua a fissarlo, a non staccargli gli occhi di dosso. Lui che si muove saltellando, poi si pianta al centro di quella riga tirata con il piede nella polvere di giugno. Le gambe piegate, i muscoli tesi pronto a tuffarsi in un volo plastico e leggero, sulla palla che arriva. Disteso verso l’angolo in alto a sinistra della porta, la dove c’è lei seduta sulla gradinata. Un vestitino bianco con dei grandi fiori rossi, come i papaveri nei campi di grano qui sotto, le ginocchia raccolte fin quasi al petto, ogni tanto la testa che si piega in uno sguardo sognante e lontano. E allora lui si ferma a fissarla, la guarda negli occhi, perché da qui, da questi due pali, è più facile farlo, che non quando gli sta vicino e si vergogna come un cane.

Ma le palle non arrivavano, Giovanni lo stopper, era riuscito a bloccare tutte le discese del centravanti avversario, ma ogni volta aveva faticato più di quella prima. Se stai al centro campo non fai lo stopper, e per fermare gli avversari devi correre come un deficiente. Ecco era un deficiente, lo aveva chiamato e richiamato, gli aveva detto di rientrare, di stare più vicino. Aveva urlato anche all’allenatore ma quello aveva fatto un gesto con la mano come per dire: ma dai tanto è finita. Finita un par di palle, appunto. Aveva visto il loro terzino destro rubare palla sulla sua fascia, proprio sotto le case del paese, una manciata di secondi dalla fine. Era venuto giù diritto come un fuso, passando sotto al proprio pubblico, che stava in piedi sul terrapieno sopra al campo. Quelli avevano urlato come i matti, fin quasi a farsi scoppiare le vene del collo. Giovanni aveva tagliato la metà campo con una diagonale verso la sinistra ad intercettare quel terzino. Rosso e sudato, gli occhi strabuzzanti. Il pubblico aveva urlato di più, e il terzino si era allungato la palla di un metro, persa! Invece no, quel metro di spazio gli era servito a saltare le gambe di Giovanni, che in scivolata, sfinito, cotto e spompato, puntava diritto le caviglie dell' avversario. Il terzino era passato, più fresco di novanta minuti passati a giocare corto invece che a recuperare. Era passato e correva.

Dopo aver saltato i tacchetti di Giovanni, aveva corretto la sua traiettoria centrandola appena verso il suo centravanti, il quale tranquillo come se si fosse alzato da un tavolo di bar, si stava preparando al cross. Neanche l'ombra dei suoi compagni, neanche un difensore a tenerlo, non tanto marcato, ma anche solo "osservato", macché erano tutti verso la metà campo in recupero rossi come pomodori maturi in mezzo ad un campo, ma di calcio. Lui si era spostato sulla destra per coprire lo specchio della porta da quel lato, pronto al tiro dell’attaccante. Invece quel terzino del cavolo, con l’ultimo filo di respiro rimastogli in gola, aveva caricato il destro, e mollato un tiro che aveva preso anche un effetto di esterno.
La palla non era veloce, ma era dall' altra parte, lui aspettava il centravanti e invece era stato il terzino a tirare. Fanculo ai terzini!

Si era tuffato, proprio come nei sogni ad occhi aperti, era volato nell’angolo verso la tribuna e aveva visto oltre la rete, il vestito bianco con i papaveri rossi. Aveva sentito la palla sfiorargli la punta delle dita, ma la pelle del guanto non aveva fatto presa su quella liscia del pallone di cuoio. Poi aveva sentito un urlo, una bestemmia, un insulto, il dolore al ginocchio sinistro, la polvere calda di giugno che entrava nel naso, negli occhi e in bocca. Aveva visto l’arbitro con le due braccia alzate, indicare verso la miniera, il suo allenatore che menava calci al secchio dell’acqua, Giovanni che lo guardava sdraiato sulla fascia, e tutta la squadra avversaria raccolta in una massa intricata di teste e mani confuse che saltava in mezzo al campo.

Le altre pietruzze non se ne volevano andare, magari più tardi suo padre, infermiere, ci avrebbe passato una garza sopra, imbevuta di tintura di iodio. Lei invece se n’era andata quasi subito, quando aveva alzato lo sguardo, confuso tra la polvere del campo, le tribune erano quasi vuote, come se la gente non aspettasse altro, e i papaveri su quel vestito bianco non c’erano già più. Aveva aspettato che i suoi compagni se ne fossero andati, i musi lunghi con lui. Era restato sul prato tra il campo e la strada, finché anche anche il rombo sordo del Gilera Sirio dell'allenatore si era perso verso il paese. Si tirò in piedi a fatica, il ginocchio dolorante, era quasi ora di cena, zoppicava vistosamente e il dolore era più di quanto si era immaginato, e forse stava anche aumentando. Fortuna che casa sua era proprio sopra il campo sportivo ! Alzo lo sguardo e nell’ombra degli alberi, che costeggiavano la strada, vide la figura minuta di sua madre che lo stava aspettando, intorno gli trotterellava sua sorella più piccola: due anni appena, l’ultima di loro quattro. Già gli correva incontro a braccia larghe gridando il suo nome: Checco, Checco, Checco…

L’aria era tiepida, un cielo terso stava colorandosi di sfumature giallo rossastre, il sole tramontava dietro il monte del Doglio, prese la sorellina per mano. La sera cominciava a profumare di fresco, non sentiva più l’odore della polvere del campo, ma ora era il basilico dell’orto, i fiori di sambuco lungo la strada e quello più dolce della cena che arrivava da casa, fanculo agli stopper!

Il Coniglio in Padella


Prendete un coniglio di quelli buoni, magari di casa come diciamo noi. Dopo averlo lasciato per qualche ora in acqua corrente fredda, lo asciugate bene e con una mannaia lo fate a pezzi, considerate che un coniglio medio vi rende un 12 pezzi circa, più chiaramente il fegato, il cuore e i reni (non si butta nulla, anzi). In una padella (o una casseruola) antiaderente, mettete circa 50/60 ml di olio evo, fiamma media, 4/5 spicchi di aglio "vestiti", un rametto di rosmarino spezzettato, salvia a piacere, appena l'olio è bello caldo mettete i pezzi di coniglio e alzate la fiamma. Fate rosolare ben bene, 15 minuti, salate, pepate e poi sfumate con 120/150 ml di vino bianco secco. Lasciate evaporare per un minuto, abbassate la fiamma e coprite con un coperchio. Lasciate cuocere per un'ora e mezza circa. Già basterebbe così, ma se volete a 30 minuti dalla fine della cottura, potete aggiungere una manciata di olive per decorare e insaporire questo piatto che è terra di questa terra, come la polvere di quel campo.


Note a margine:
Checco era mio zio. Era nato nel ’21, ed era un bel ragazzo, alto, biondo e con gli occhi azzurri, ed era un grande portiere. Due giorni dopo quella partita, che magari non fu mai giocata, a tutta la sua generazione sarebbe cambiato il mondo. Non si sposò mai, forse aspettando un campo di papaveri.

11 commenti:

Carla ha detto...

è sempre un piacere leggere ciò che scrivi.Carla

Maurice ha detto...

Per coerenza al posto tuo avrei proposta una bella ricetta di zebra alla brace.

JAJO ha detto...

Porca miseria, a leggere il tuo racconto mi fa male il ginocchio (e te lo dice uno che ha giocato sia portiere che terzino :-D).
Hai reso alla perfezione... come al solito.
Ma le ultime tre righe del post sono più poetiche e belle perfino del racconto e della ricetta.
Brutta cosa la guerra...

LA LUNA NERA ha detto...

leggerti è come usare il teletrasporto: ci si ritrova subito lì, anche se si tratta di tempi e luoghi mai conosciuti.
bravo

Loste ha detto...

Piacere mio @Carla

Ahahahahah @Maurizio sono circondato da una una famiglia di juventini

:) grazie @Jajo poi detto da un tifoso come te !

Un blog che fa viaggiare nel tempo @Luna ;)

silvia ha detto...

viaggiare nel tempo...è quello che vorrei. tutto quello che vorrei. e lo sparso che si riguarda ritorno al futuro ogni 3 per 2. la zebra è messa male, chissà che carne dura!
e il tuo scrivere è sempre un ritrovarsi.

Anonimo ha detto...

Scrivi molto bene e trasmetti molto in ciascuna delle tue frasi!

Il coniglio cucinato così mi piace tantissimo! Non sono invece un amante del coniglio in umido che mia nonna cercava di "rivogarmi" almeno una volta a settimana! Preferivo di gran lunga il cervello fritto! L'unico modo per farmi mangiare il coniglio è al forno o ad arrosto morto (ovvero in bianco come hai fatto te, ma non so se si dice così dappertutto!).
Un saluto!

Buona giornata

Anonimo ha detto...

Scrivi molto bene e trasmetti molto in ciascuna delle tue frasi!

Il coniglio cucinato così mi piace tantissimo! Non sono invece un amante del coniglio in umido che mia nonna cercava di "rivogarmi" almeno una volta a settimana! Preferivo di gran lunga il cervello fritto! L'unico modo per farmi mangiare il coniglio è al forno o ad arrosto morto (ovvero in bianco come hai fatto te, ma non so se si dice così dappertutto! Qui in Mugello sì!).
Un saluto!

Buona giornata

Francesca

Iaia ha detto...

Lo zio Checco è tornato?

Loste ha detto...

@Silvia io posso parlare di viaggi nel tempo, ma non di calcio ... sono l'eccezione che conferma la regola maschile :)

Grazie @lacucinaghiottona nenache a me piace il coniglio in umido :(

Si @Iaia tornò, ma poi se ne è andato un paio di anni fa. Questo post dopo tanto tempo è un memento a ciò che è stato per me e i miei fratelli, e dopo per i miei figli e i miei nipoti :)

LA LUNA NERA ha detto...

le occasioni andrebbero prese al volo, come se non si potessero ripresentare più. perchè spesso non si ripresentano più.
*per essere un'eccezione alla regola te la cavi bene anche come cronista sportivo!