Potrei ritrovare la strada ad occhi chiusi. Scendere lungo il viale costeggiato dalla siepe, con gli alberi del giardino che salgono come colonne ai lati e formano una volta che nasconde il cielo. Percorrere quella navata verde e semi buia fino a quando si apre in un prato e sale verso la vecchia villa.
Potrei spingere quel portone pesante e sentirlo cedere sotto lo sforzo di un bambino. Ritrovare il fresco dell'androne, il sole bollente del pomeriggio d'estate. La vecchia specchiera con la cassapanca, e dentro un'esercito di soldatini di legno con la giacca rossa, i pantaloni celesti e il cappello nero col pennacchio.
Potrei risentire l'odore del miele dietro la porta della cantina. E il ronzio lontano, nelle canicole d'estate, delle arnie sotto il muro del giardino. Salire lungo le scale in silenzio, osservare i vecchi quadri, bisnonni sconosciuti di una famiglia poco mia. Arrivare al pianerottolo, e camminare in punta di piedi cercando di evitare lo scricchiolio del legno.
Potrei sentire l'odore di tabacco che arriva dallo studio di mio zio sulla destra. Muovermi silenzioso verso il salone a sinistra, affacciarmi sul mosaico antico del pavimento: il tavolo al centro e oltre, l'enorme camino. Il vecchio appisolato sulla sedia davanti al fuoco, la testa abbandonata sul petto, il raspare sordo del respiro, tra le gambe il bastone e il lungo tubo nero per soffiare sul fuoco.
Potrei scivolare silenzioso verso la cucina, seguendo la losanga rotonda che incornicia il pavimento. Rivedere il cielo plumbeo fuori dalla finestra, nelle mattine d'autunno inoltrato, le nubi rincorrersi verso il mare lontano, talmente lontano da non entrare nei pensieri.
Potrei aspettare, gli occhi chiusi, la mente che ritrovi i profumi di quel luogo. Rivedere le spalle di mia zia si muove veloce e sicura. Le salsicce alla griglia, servite con un fiasco di chianti, il rosso rubino nei bicchieri dei grandi, e il rosa chiaretto della mia acquaevino. Il profumo del sugo messo a sobbollire pian piano su quegli strani fornelli a carbone. E poi quell'odore unico di salvia e limone de
Gli involtini che faceva mia zia, ma senza la carne

Per otto involtini prendete una bella rana pescatrice a cui eliminerete la testa, questa la userei per un rigatone tranquillo, tranquillo. Comunque sfilettate in due la coda (ora) di rospo. Con un coltello affilato apritela praticando un taglio a spirale di un giro e mezzo per la lunghezza del pesce. Oppure se il filetto è piccolo praticate un taglio al centro che arrivi giusto alla metà. Coprite il filetto con carta forno e con un batticarne allargate delicatamente la polpa ... mooolto delicatamente.

Dividete in quattro i due filetti, salate pochissimo disponete su ciascun pezzo mezza fetta di prosciutto crudo, qualcosa di più saporito di un Parma: un Norcia o un Carpegna. Aggiungete due o tre foglioline di salvia. Arrotolate il filetto, passatelo prima nella farina, poi nell'uovo battuto e salato e infine nel pan grattato.
Preparate delle patate al forno insaporite con aglio e rosmarino, una volta cotte tenetele da parte al caldo. Nella stessa teglia cuocete gli spiedini di rana a 180 gradi per una decina di minuti, bagnateli poi con un emulsione di 2/3 di evo e 1/3 di succo di limone. Finite la cottura per dieci minuti con il grill al massimo, in modo che i gli involtini risultino belli dorati.
Servite su un letto di patate al forno schiacciate e con un insalatina mista a parte.

E questo era il secondo, ora manca solo il dolce !