27 maggio 2009

揚げられていた魚およびナス

Osokòo, osoko nata takabò. Suku naaaa Ba, yohha.
Non vi sforzate è giapponese. Però magari non ditele a nessuno quelle parole, perché magari sono una parolaccia e io non lo so. In effetti io di Giapponese non conosco una parola. Però quando faccio le riunioni con loro, che mi fanno incazzare più dei cinesi; io un paio di mosse di "kung fu" e due insulti in lingua indigena li metterei volentieri.

Un salto sul tavolo delle riunioni a piedi pari, le gambe flesse in quel movimento Bruceleiano che tanto ci ha fatto sognare da ragazzi. Quel gridolino "yuuuuhoooooooooh", le dita piegate ad uncino, le braccia tese pronte a scattare come una molla, la tartaruga che se ne sta sonnacchiosa nel giardino di mio fratello, e il mio interlocutore a bocca aperta incredulo. Ma te la vedi la scena ?
Gli occhi una fessura sottile un filo d'aria che spira da un lato delle labbra. La mia gamba destra che scatta in alto e poi a sinistra, il torso che entra in rotazione mentre rimango, per una frazione di secondo, come sospeso sopra il tavolo. La bocca spalancata del mio interlocutore, che vede arrivare la mia scarpa di cuoio "Giorgio Paponi" da Montegranaro dritta in mezzo agli occhi. Quel "crack" sordo di cosa che si spezza che risuona nell'aria. Io che atterro, plastico, le braccia piegate "yuuuuhoooooooooh ... e abbassa sti costi che se no ce cappottamo !"

Se invece vogliamo rimanere nel mondo reale, io dal Giappone, su consiglio di chi ne sa più di me, ho riportato un po' di cose. Tra queste anche il Panko. Il Panko è una sorta di sminuzzato di pane, che si presenta in forma di piccole striscioline bianche, tipo il cocco grattugiato, in pratica esso è... come dire ... Il pane grattato giapponese. Ecco con quel "pagrattato" lì quello Giapponese, ho fatto una:

Crocchetta di scorfano e melanzane










Serve la ricetta ? Mah !
Comunque per 4 crocchette: una melanzana lunga da cui ricaverete 12 fette di circa un centimetro e che lascerete sotto sale per un'ora. 400 gr di filetti di scorfano deliscati e puliti, che batterete al coltello profumandoli con basilico e pinoli, se piace aggiungete uno spicchio di aglio sminuzzato, salate, e pepate. Asciugate le melanzane e preparate le crocchette, alternando melanzane e pesce. passate nella farina poi nell'uovo battuto e salato, poi nel pane grattato "italiano", ancora uovo e alla fine nel Panko. Friggete in olio di semi o in evo bollente e servite come aperitivo o antipasto. Io le ho accompagnate ad una salsa di pomodoro, olive taggiasche e capperi.





25 maggio 2009

Intervistato

Il "colicapensiero" a (quasi) tre anni dalla nascita di questo blog, sintetizzato in quattro chiacchiere con:

19 maggio 2009

Algoritmi e favette

Se ne sta con la testa piegata sopra il quaderno di matematica. Guarda i disegni, gli schemi “matematici”, come se si aspettasse che da un momento all’atro, qualcosa possa uscire da lì. Un “misirizzi” con un cappello a sonagli, a gridargli con una vocina in farsetto, la soluzione al suo problema di logica.
Lui non sa che questo sforzo, che il suo cervello di bimbo sta facendo, si chiama logica. Non sa che tenere il pensiero e gli occhi incollati, a quelle pagine a quadretti, si chiama concentrazione. Non lo sa che la matematica è un mondo di regole, che si affrontano con trucchi e scorciatoie, non sa che concentrandosi sulla logica si arrivano a costruire degli algoritmi mentali, banali, che diventano la base per tutta la matematica di una vita.

Si sforza di nuovo, prova a tenere la pazienza, la concentrazione, alte, in tensione. Ma fuori nel giardino i cuginetti corrono, giocano, gridano. E allora quel castello che vedo aleggiare sopra la sua testa, ha una vibrazione di incertezza, si piega di lato, mentre piano, l’orecchio teso ancora, alla spiegazione materna, gira appena la testa e butta un’occhiata di fuori. E’ lì in quel preciso istante, nel momento in cui lui guarda fuori con la coda dell’occhio, che la “bava di ragno” che teneva in piedi il castello, la concentrazione, si spezza. E tutto crolla inesorabilmente nel vuoto. Non c’è più la matematica, non ci son più numeri pari e dispari. C’è solo quell’ansia di correre fuori, a giocare, di mollare le regole matematiche del “diviso” e del “per”. Di mettersi a correre intorno casa, a squarciagola, fintanto che le gambe reggono e la voce non molla. Ed è lì in quell’istante che si volta fuori a far segno al cugino che “… si aspetta che finisco i compiti e arrivo!” Incurante della spiegazione materna, che ora svolazza nell’aria solitaria e senza destino.

Scivolo via pian, mentre il rimprovero parte, e cresce di tono sì, ma basterebbe anche meno a ferire quel nano che alberga in sembianze di Matti, Spaccaball, o puffo a seconda del momento. E’ giusto, il rimprovero, è giusto che si debba capire quando è il tempo del gioco e delle cose serie. Da grande dovrà vivere in un mondo fatto solo di regole, che diranno cosa e cosa non potrà fare. Da grande rimpiangerà quando ora bambino, nonostante i rimproveri e le lacrime, sogna di numeri pari e di numeri dispari.
Ora lo sento spiegare, tra i singhiozzi del pianto, che vorrebbe andare fuori, uscire a giocare, e che lui i numeri pari non li capisce. Aggiunge poi che neanche i dispari capisce tanto bene, dando così il giusto peso alle cose e ai numeri in particolare. Li lascio discutere ancora: mamma e figlio: Lei che spiega le sue ragioni e lui che alla fine chiude tutto con un “ …. E ma io vorrei tanto andare fuori a giocare !!” tra i singhiozzi lacrimosi.

Penso ad una soluzione, arbitro superpartes, in questa diatriba. Mi affaccio, gli faccio segno di seguirmi nel mio studio. Mi seggo alla scrivania, mi abbraccia disperato del non poter correr fuori. Gli dico di smettere di piangere, e gli spiego cosa sia giusto e cosa no.
Poi chiedo: “cos'è che non capisci dei numeri pari e dei dispari ?” Lui mi spiega che lui sa che 0, 2, 4 , 6, e 8 sono pari e sa anche che 1, 3 , 5, 7, e 9 sono dispari…. Ma che quando i numeri diventano grandi non li capisce più.
Allora gli scrivo un numero su un foglietto: 37456 e gli chiedo se è grande. Annuisce distrutto dall’evidenza delle cose. Poi con un dito nascondo 3745 e gli faccio vedere solo il 6. Il viso si allarga in un sorriso, mentre gli spiego che non deve pensare a quanto sia grande un numero. Gli dico che un numero può anche essere enorme, anche infinito, ma che quello che conta è solo l’ultima cifra il resto, per ora, non serve. Banale regola nascosta negli algoritmi di una vita.

45627 “dispari”, 364222 “Pari”…. Poi comincio a parlare: “trentaduemilioniottocentosessantaduemilaequattrocentodiciotto” “Pari!” Ottantasettemilionitrecentoventimilaeduecento” “Pari” “diciassette” “Dispari”

Continuiamo mentre fuori cala la sera e qua dentro abbiamo inventato un nuovo gioco, che non fa correre intorno casa, ma che fa gridare lo stesso a squarciagola, mentre cucino:

Le reginette con favette fresche e bottarga di tonno




Ho sciolto un paio di acciughine buone, buone (che tra parentesi son quasi finite !) le ho profumate con uno spicchio di aglio, qualche zesta di limone very original south italy e della bottarga di tonno "SPE-TTA-CO-LA-RE". Ho lasciato il fuoco al minimo, mentre scottavo delle reginette, "sfrido" delle lavorazioni della mattina che contemplavano un lotto di ravioli. Le ho scolate moooooooolto al dente, e ho Finito la cottura in padella aggiungendo le favette sbucciate. Ho servito ripassando le zeste, la bottarga e un filo di olio a crudo.

"unmiliardocinquecentotrentatremilioniquattrocentoventiduemila
seicentotrentaquattro!"
"Pari !"



11 maggio 2009

I pittori hanno strane visioni

E' seduto al mio fianco in auto. Mentre penso a cosa fare, con la coda dell'occhio lo vedo sfilare un fazzoletto dalla tasca posteriore. Se lo passa sugli occhi, senza timore di farsi vedere da me, poi si soffia il naso.

La prima volta lo riconobbi immediatamente. La sua figura mi veniva incontro appena scesa dal treno. La descrizione era perfetta: un uomo minuto, canuto, magro, trasandato, che si muove a scatti timoroso e spaventato dal mondo. Maestro! Il mio richiamo lo fermò, come quei "block" quando giocavamo da bambini. Aveva una borsa a tracolla, semivuota e floscia, che gli aveva fatto uscire un lato della camicia gialla a righine azzurre, fuori dai pantaloni, neri di stoffa pesante e macchiati di pasti frugali. I sandali mettevano in mostra i piedi, la pelle incartapecorita e le unghie bianche. Maestro, sono Marco. Gli spiegai chi fossi: colui che lo porterà a destinazione. Il labbro superiore tremò leggermente si imperlò di sudore, poi quando tutte le sinapsi si collegarono si aprì in un sorriso e si rilassò.
E' un pittore. Famoso, molte mostre, alcuni pezzi alla Galleria d'arte di Roma. Uno stile che ricorda il realismo e poi i macchiaioli, puro, quasi scolastico. Una pittura minuta sottile, da tela a trama finissima, pennelli che si misurano in peli, neanche l'ombra della pennellata. Arriva da Roma ed è venuto a trovare un vecchio amico comune: un critico d'arte, un frate, lo porto in un convento. Lì dalla sua cella dipingerà le colline marchigiane con il loro degradare verso il mare che si vede all'orizzonte, un canarino appollaiato su un ramo, Leonardo bambino nel suo seggiolone la vecchia Nena che attraversa la piazza del Castello. Una conoscenza che si protrarrà per qualche anno. Il rito di prenderlo e riportarlo alla stazione. Qualche pomeriggio passato a parlare di suoi amici che conosco solo dai libri, intercalando i racconti con quel "dottore" con cui mi chiamerà per sempre. Mario che dipingeva la "C" della cocacola, il Leonardo Marchigiano, e il Renato comunista. Fugaci flash di una vita (s)conosciuta, di miti da cui avrei raccolto anche il più banale tratto di matita sul tovagliolo di un ristorante.

E' accaduto che lo stavo riportando, al solito treno, nel solito pomeriggio di domenica. Se ne stava in silenzio e pensieroso a guardare il paesaggio che gli correva fuori dal finestrino: più bambino che vecchio. Mi ha sorpreso quando in un mezzo grido angosciato ha iniziato a cercare nella sua borsa, sempre più velocemente, sempre più disperato. Le chiavi! Le chiavi di casa per qualche motivo strano e inspiegabile non erano più in quella enorme sacca, piena di pastelli, blocchi da disegno, ed uno spazzolino. Gli ho detto di cercare meglio, di stare calmo, di non preoccuparsi, che saremmo tornati indietro, che tutto si sarebbe risolto. Non è servito quasi a nulla. E' emersa tutta la disperazione di un vecchio solo e abbandonato, senza più moglie senza nessuno che lo possa ance solo vestire. Ha preso ad insultarsi, la sua dabbenaggine, la sua incapacità, la sua inutilità. Siamo tornati indietro. Abbiamo ritrovato le chiavi. Abbiamo perso il treno. E mentre rifletto sul da farsi, fermo davanti alla stazione, lo spio asciugarsi le lacrime con un fazzoletto spiegazzato e liso. La porto fino ad Orte maestro, lì ci sono più treni. Si, è lontano, sono due ore ad andare, ma non ho nulla da fare.

Silenzio per la prima mezzo'ora, i suoi sensi di colpa, il mio carattere poco espansivo. Poi chiedo del suo passato della sua vita, della sua famiglia. E parte. Parte come quei bambini che superata uno shock iniziano a parlare, liberazione interiore, felici, contento. Tutta la sua vita passa veloce, come i paesi che scorrono lungo la strada, le case, e l'Umbria di questa fine estate.

"Quando abitavo ad Ancona."
"Ancona maestro?"
"Si prima che mia moglie morisse, dottore, abitavamo ad Ancona. Vicino alla stazione. In un palazzo al quinto piano. Il mio studio era nella cameretta di mio figlio. Dalla finestra vedevo il porto e San Ciriaco. Mia moglie metteva i gerani sulla terrazza, ma morivano sempre tutti. Forse lo smog, forse la salsedine. "
"E' bella Ancona maestro. Ci studiavo da ragazzo. Andavo alle Tavernelle, ancora un convento. Prendevo il quattro quasi davanti alla stazione, in viale Girodano Bruno."
"Davvero dottore ? Si è una bella città. Restavo ore alla finestra a guardare il porto, il mare. E d'inverno con la nebbia, restavo ore ad ascoltare la sirena del faro. In estate vedevo la spiaggia con gli ombrelloni. Ci andavo con mia moglie. Mia moglie era la mia vita, la mia cura. Senza di lei sono una nullità."
"Non so maestro ma non credo che ci sia una spiaggia da quelle parti, forse andava a Palombina Nuova !. "
Mi guarda dubbioso, quasi sbalordito, forse angosciato. Devo aver rotto qualche equilibrio, qualche certezza che teneva in piedi una storia. Mi affretto a rispondere.
"O forse si, e non mi ricordo io, Maestro, ma magari si quella spiaggia c'era."
Non credo che una spiaggia reale o finta che sia, ora faccia differenza nei ricordi di quest'uomo.
"Anzi a pensarci bene era proprio vicino al porticciolo turistico Maestro."
Ora sorride, e ricorda e parla di un'Ancona che è come la mia, identica negli angoli descritti, nei colori e nei profumi. E' l'Ancona dei ricordi uguale e diversa per ognuno di noi.
"Sotto casa c'era un ristorantino piccolissimo. Ma che faceva un mangiare spettacolare. Ci andavamo la domenica e mi ricordo che prendevo sempre un pesce cotto al cartoccio con le patate e le verdure. Un pesce dal nome strano che non ricordo, ... Lo aiuto: spigola, branzino, orata... No, non ricordo, qualcosa che aveva a che fare con ... il sole? Le ombre? Ma comunque una bontà indimenticabile."

La stazione di Orte, appare quasi all'improvviso e lo ridesta dai suoi ricordi. Lo accompagno, lo metto sul treno, mentre si profonde in ringraziamenti enormi. Lo saluto con un sorriso. E anche se sono ormai anni che non so che fine abbia fatto, i suoi quadri mi ricordano, l'uomo, il pittore, l'anima e:

L'ombrina al cartoccio del Maestro



Per capire cosa mangiava il Maestro e per 4 persone sfilettate una bella ombrina, salatela e pepatela. Pulite e affettate le verdure di stagione che vi capitano, Io ho usato patate, carote e zucchine, aggiungete anche dei buoni pomodorini secchi o preparate dei pomodorini confit tirati in forno fin quasi a seccare, salate le verdure. Con della carta forno fate dei cartocci, che sigillerete bene con molte pieghe e con un po' di rosso d'uovo. Mettete pesce e verdure nei cartocci monoporzione, condite con un filo di olio buono, e con qualche profumo che preferite, timo, origano... fate voi. Mettete in forno ben caldo a 180° per 15/20 minuti. Servite con il cartoccio direttamente nel piatto e, se potete, ancora un filo di olio buono.



Riapparve un giorno con un pacco di vecchi giornali legati con lo spago. Me lo porse e mi disse: per ringraziarla di avermi portato fino ad Orte e per avermi ricordato quella città bellissima.

05 maggio 2009

Affrettate conclusioni

E’ che a volte ce la metti tutta. Non tanto ad alzarti presto, che quello è ordinariamente normale. No è che ce la metti tutta a tirar giù gregari dal letto, ad obbligarli a colazioni zuccherine, a vestirsi velocemente, in ridicoli abbigliamenti che ricordano ballerini di danza, fintanto che… Fintanto che non salgono su biciclette infangate dalla domenica prima, a far la loro parte di figura.
E’ che a volte ce la metti tutta. Ce la metti tutta, a gareggiare con quei nuvoloni neri che stanno arrivando da sopra. Perché la prima regola non scritta dice che: si, la pioggia va anche bene, ma non ci si parte.
E allora corri ti sbrighi, contro voglia, contro una coscienza che continua a dirti che sarà freddo, che pioverà, che ma chi telo fa fare. Ed è proprio nell’attimo in cui esci, in cui stai per salire che comincia. Prima ti sembra una sensazione: come quelle volte che ti sembra che qualcuno abbia parlato, mai non hai afferrato, non sei sicuro. E allora mica puoi chiedere: ma stai piovendo? Come un normale: scusa che hai detto? Cerchi. Guardi in terra, sul cemento: guardi i segni premonitori del temporale. Escludi le macchie che sembrano gocce, ma sono invece segni passati. Ti guardi le braccia, la giacca che lascia le gocce sospese, come piccole sfere a metà. E se ne vedi una pensi che forse è solo un residuo di quando poco prima hai riempito la borraccia. Pensi che forse ancora hai un attimo di tempo per sfuggire e pedalare lontano.
Piove ! Sono i gregari che arrivano sempre a conclusioni affrettate e lapidarie. Ma in quei casi se non vuoi inzupparti tutto, è meglio rientrare e lasciar perdere, che per una volta non succederà nulla.
E mentre ritorni alla tuta domenicale, goloso di ingozzarti di un libro, seduto nel tuo studio mentre fuori diluvia. Mentre stai per assestarti comodo, la musica al giusto volume di sottofondo. Quel poco che non aggredisca le parole, facendole sfuggire alla memoria. Quel tanto che ti consenta di lasciare, lo scroscio della pioggia come un leggero sottofondo alla musica stessa. In quel momento tutto vorresti, tranne sentire la voce del tuo gregario. Che poi se solo si limitasse ad affrettate e lapidarie conclusioni, sarebbe anche accettabile. Ma è quando produce idee che diventa pericoloso per l’incolumità del pensiero letterario domenicale. Specialmente se la proposta è indecente come un: andiamo ad asparagi?
Ma se piove per la bicicletta, piove anche per gli asparagi! E poi il libro oramai è aperto sulle mie ginocchia, mentre seduto su questa poltroncina vedo la pioggia scrosciare e sento la musica andare. E per farne cosa poi scusa? Magari un:

Tagliolino con asparagi prosciutto e fondutina di Montasio


Ho scottato gli asparagi in acqua bollente e salata. In una padella ho sciolto in un filo d’olio, per due minuti appena, del prosciutto di San Daniele, tagliato a julienne. Ho preparato dei tagliolini con una proporzione di due uova intere e quattro tuorli per tre etti di farina. Ho lessato i tagliolini, finendoli in padella con il prosciutto e gli asparagi. Li ho serviti impiattandoli sopra una fondutina di Montasio stagionato sei mesi, che avevo fatto sciogliere in poco latte.

02 maggio 2009

In perfetto anonimato