30 giugno 2008

Perché se

Perché se
a volte
non hai niente
da dire
allora è meglio
stare zitti




Magari lasciandovi però una ricetta sbucata dal nulla, come il sacchetto di broccoletti scovato nel congelatore, per farne una:

Orecchiette con i broccoletti e col mare rimasto

C'è poco da raccontare: c'era da fare un prosciutto e melone per pranzo, ma non avevamo il pane. Quando uno dice prosciutto e melone, dovrebbe dire: prosciutto, melone e pane, che se non hai il pane il prosciutto e melone sa di niente. C'è poco da raccontare che i broccoletti non sono di stagione e che li avevo in congelatore, e allora metto le mani avanti: broccoletti=fagiolini, e così vi tocca di andare a far la spesa. C'era, dunque, questo sacchetto di broccoletti apparso dal congelatore, mentre eravamo intenti a cercare dei panini congelati, che vanno tanto nel periodo scolastico, ma ora proprio per niente. E così con il sacchetto di broccoletti in mano e Spaccaball che continuava a chiedere cosa fosse, mi son messo a pensare. Che è faticoso anche il pensare molto spesso. E che quindi la risposta alla domanda del marito della mia pesciarola, sul perché mi presentassi a mezzogiorno di sabato a comprare il pesce potevano essere due: perché non ho il pane oppure perché ho pensato. A mezzogiorno in pescheria ho raccolto su quello che era rimasto: una decina di cozze, una manciata a mano doppia di vongole, qualche mazzancolla: dieci piccole per la precisione e tre, dico tre, calamari.
E bastato pulire il pesce, a parte far aprire cozze e vongole, e scottare calamari e mazzancolle in una padella dove un filo di evo aveva indorato uno spicchio di aglio insieme ad un poco di peperoncino tritato.
Ho buttato le orecchiette, che la confezione diceva diciotto minuti, verso la metà di quei diciotto minuti ho buttato i broccoletti così congelati come erano. Ho scolato il tutto e saltato in padella con il pesce, aggiungendo alla fine e a fuoco spento olio evo.
Vi dirò per essere partiti con un prosciutto e melone è finita anche bene, per uno che ha poco da dire.

23 giugno 2008

Tornare alla terra

E’ poco più di un sussurro, un bisbiglio leggero come il respiro del sonno, la diafana voce della coscienza che cerca rifugio. Non ci sono segnali premonitori, cieli che si colorano di aurore variopinte, o voli di uccelli che migrano dalla parte sbagliata. Niente di tutto questo. Quando mi prende, mi prende. Diventa subito un bisogno, un desiderio, che se non soddisfatto mi porta un senso di oppressione, di ansia immotivata che mi prende alla gola. Un' ansia che resta tale fintanto che non appago quel bisogno: tornare alla terra.
Ma non si tratta di una fuga, non devo fuggire da niente. Non scappo in posti stile agriturismo in mezzo alle colline, tra cavalli e caprette, ma son collegato e allora mandami il fail che poi magari facciamo una colconferz via gipierresseuemmetiesse e che il diavolo ci porti tutti in gloria.
Si tratta invece di un bisogno di certezza, non saprei tradurlo meglio. Ho il bisogno di esser certo che alcune cose ci siano ancora. Che nonostante la velocità della vita di tutti, quelle cose che ogni tanto han fatto parte della mia, siano ancora lì.

E allora diventa naturale alzarsi la mattina prestissimo, ed andare a cercare quelle certezze. Controllare che la nebbia si alzi ancora dai boschi, quando i primi raggi di sole scaldano, la sottile linea sinuosa delle colline Marchigiane. Con la certezza di rivederle, oramai, soltanto nelle fredde mattine di ottobre: sudore della terra che chiama.


Riscoprire, sempre che ce ne sia bisogno, che dentro al bosco i rumori sono amplificati dall’effetto “insonorizzante” del tappeto di aghi di pino. Che il canto di una tortora o il gracchio di una ghiandaia fa lo stesso effetto del grido di Tippi Hedren, chiusa nella cabina del telefono. Che il caldo ci sarà si, ma non la dentro e non a quest’ora. E starsene felice con la felpa pesante, sporca sì, ma comoda.


Ritrovare quella pace che solo sdraiato per terra in un bosco puoi avere. E fare quel gioco un po’ strano che dice: non mi alzo fintanto che qui sopra non passa un uccello. Pensare che forse se resti lì per tutta la vita, tutto il mondo intorno cambierebbe, tranne quello spicchio di cielo sopra di te.


Accertarsi in maniera scientifica che la propria ombra sia sempre lì dove l'avevi lasciata più di venti anni fa. Segno delebile della propria consapevolezza di aver vagato in quei boschi.


E una volta rifatto il pieno di una buona dose di certezze, ritornarsene a casa, passando per i luoghi dell'infanzia, perché quando cambiano quelli è ormai troppo tardi per tutto.


Ecco in queste giornate è la "terra" che comanda, che guida, che batte il tempo della mia musica. In queste giornate non mi sognerei di cucinare qualcosa di semplice, ne risulterebbe troppo complesso. In giornate come queste la cucina è una cucina di terra, basata su fondamentali, senza tante elucubrazioni mentali.
Basta scaldare uno spicchio di aglio, aggiunto ad un'olio evo buono in una casseruola bella grande. Tuffarci una melanzana lunga e sottile, lavata e tagliata, per la lunghezza, in quattro pezzi, che lascio soffriggere per qualche minuto. Infine aggiungo una bella cipolla fresca tagliata sottile e quattro peperoni in parte sbucciati, con un pelapatate, e fatti a pezzi grandi. Salo e chiudo con un coperchio, abbasso la fiamma al minimo e dopo un'ora e mezza spengo e lascio raffreddare:

La mia peperonata

15 giugno 2008

Senza consigli

Ha le dita uncinate di artrite, la pelle liscia e lucida che sembra incartapecorita. Osservo i movimenti,comunque , veloci di quelle mani, inginocchiato sulla sedia della cucina. Il mento sul palmo della mano, lo sguardo perduto nei gesti. Continua a ripetermi che mi sono alzato troppo presto, che dovevo ancora. E’ il sole che mi ha svegliato. Quando entra dentro la camera mi sveglia.

Quando sorge, sbatte contro le persiane e si infila tra le lamelle. Cuoce la vernice verde e screpolata, in alcuni punti fa grandi bolle che noi bambini ci divertiamo a staccare, sordi ai richiami di mio zio. In altri è rimasto il legno vivo, spaccato dal tempo. Nella camera l’alba disegna strisce di luce, che bucano il buio. In quei fasci di luce galleggiano pallini di polvere, come un microcosmo fantastico. Immagino i mondi abitati da genti minuscole, con bambini che dormono quando quei pallini sono nell’ombra e si svegliano quando passano in quegli scacchi di luce. Fluttuano lenti viaggiando in traiettorie inesistenti, mi passano sopra il viso e vanno verso mio fratello che mi dorme a fianco. Il suo respiro a bocca aperta cattura decine di quei mondi con tutti i suoi abitanti. Li ingoia e scompaiono come se quello fosse un enorme, ancora sconosciuto, buco nero. Dormiamo tutti in questo letto grande, antico, vecchio, fatto di ferro, che qualcuno ha dipinto con una vernice verdolina, ridicola. Le strisce di luce cominciano sul bordo e finisco sul muro opposto, solo nel pomeriggio si concentreranno sul pavimento. La luce mi ha sempre svegliato. E mentre i miei fratelli continuano a dormire, io scivolo fuori ad inseguire i sussurri sommessi, e i rumori attutiti che arrivano dalla cucina.

Ed ora sono qui ad osservarla lavare, e poi tagliare le verdure. Strizza delicatamente i pomodori, e butta il succo e i semi in una bacinella. Nella stessa bacinella butta il bianco scavato delle zucchine, finirà tutto nel secchio o per le galline. Parla e riparla, mi ridice che è presto, che poi son stanco, poi parla del tempo, del caldo, che se devi fare le verdure bisogna farla presto quando ancora è fresco. La guardo fare quei gesti vecchi, di anni, di sempre, come a seguire uno schema non scritto imprescindibile. Nessuno variante, nessuna alternativa, nessuna possibilità di cambiamento. I vecchi sono così: si è sempre fatto in quel modo perché si dovrebbe cambiare. E quando un vecchio mi chiede un consiglio, per scoprire poi che comunque non lo segue, e che: “… porca miseria, non è venuto bene. Forse dovevo darti retta.” Oppure “Ma a te viene meglio, perché?”
Perché? Perché c’è un trucco, semplice, banale: basta amalgamare l’esperienza di un vecchio e la curiosità di scoperta di un bimbo; e tutto cambia. Il mondo si allarga, i posti e le genti si avvicinano, le persone si scoprono, e anche i sapori si arricchiscono, come per:

Le Teja ovvero Le verdure gratinate



Prendete le verdure che vedete nella foto sopra. Quante? Qui dipende da quanto sono capienti le vostre teglie da forno. Lavate le verdure. Scavate i pomodori e tenete da parte succo e semi (quel che non strozza ingrassa), tagliate a metà scavate le zucchine e praticando delle incisioni sulla parte interne scavatene il bianco e incorporatelo al succo del pomodoro. Tagliate il resto della verdura e disponetela sulle teglie, salate poco, e condite con un filo d'olio evo.


Ora nel recipiente dove avete raccolto la parte interna di pomodori e delle zucchine mettete del pane grattugiato, tanto quanto basta ad ottenere un composto abbastanza morbido alla fine, salate e pepate. Aggiungete un trito di basilico e prezzemolo, se gradite anche uno spicchio di aglio ben schiacciato a farne una pasta. Tritate finemente una manciata di pinoli e una di mandorle, incorporate all'impasto, condite con abbondante olio evo.


Riempite le verdure con il composto e poi mettete in forno caldo a 160° per circa 45 minuti, alla fine fategli fare un passaggio al grill per qualche minuto. Da mangiare tiepide, o fredde per giorni.

Mia nonna non avrebbe mai messo il basilico, i pinoli e le mandorle. Ma son sicuro che gli sarebbero piaciute, le mie verdure.


12 giugno 2008

Che farà !?

Se ne starà lì seduto al suo posto, la gamba destra saltellante dalla tensione, le mani sudate, la gola secca. Cercherà di abbozzare un sorriso a chi gli sta vicino, nel vano tentativo di trovare tranquillità nello sguardo altrui.
Rovisterà nei cassetti della memoria in cerca di tutte le cose imparate in questo ultimo anno, e avrà un lampo di terrore nello scoprire il vuoto assoluto. Sentirà crescere la tensione, in una vampa di calore che gli infuocherà il viso e la fronte, in un vuoto allo stomaco che lo farà deglutire in un mezzo conato di nausea, quando gli consegneranno il foglio protocollo con la firma della prof. Quel segno di ufficialità lo farà tremare. E mentre gli leggeranno i temi cercherà di selezionare il titolo dove produrre di più.
Il primo esame è impresso indelebilmente nella nostra memoria.
Lo sarà anche per mio figlio. “Chi?Che?Co?Io?” Leo avrà tutto il tempo per scoprire che: “gli esami non finiscono mai”, non è solo una frase banale, un modo di dire, per sottolineare una mezza verità.
E’ una verità assoluta della vita.

"Descrivete un lancio di palloncini" esordì così il mio esame di artistica di terza media, di quei giorni ricordo solo questo episodio. Ricordo che con la mente cercai i quadri che avevo scoperto sfogliando i libri di mio zio. Disegnai e poi dipinsi un ammasso di case nel tentativo assolutamente non compreso di replicare la "Periferia" di Sironi. Aggiunsi dei puntini colorati nello sfondo, consegnai con la tempera ancora fresca e fuggii certo del risultato. Venni raggiunto sulle scale dal professore e miseramente umiliato per la mia vena poco artistica, con tanto di esempio comparativo del disegno fatto dalla più brava della classe " ... se ti bocciano sai perché".
Il suo disegno era bello. Era si, banale nella tecnica, un pastello mal usato, e nell'iconografia: due alberi e una casa. Ma era molto originale invece nella soggettiva. l'osservatore della scena era posizionato in cielo e vedeva il lancio dei palloncini salire verso di lui, con un effetto di prospettiva che ingrandiva i palloncini man mano che si avvicinavano.
Mi piacque quello staccarsi da terra, quel vedere le cose in un modo diverso. Il mio alla fine era la copia mal riuscita di un quadro esistente, non replicai. E me ne tornai a casa disperato certo della bocciatura, che non arrivò.

Sarà così anche per lui? Nonostante la tranquillità apparente e le sveglie antelucane: che tanto non ho sonno. Chissà se avrà seguito i miei consigli: glucidi, torte di frutta a colazione. Farinacei pasta o riso a pranzo. Sali minerali e proteine carne e verdure a cena. Un defaticamento alla mattina e …. Oddio !! Ma andava a fare un esame o una gara di bici?
Va bé va , uno di questi gironi fatti fare un:

Risotto alla Pilota “vegetariano”



La ricetta originale è Mantovana. Il pilota non guida aerei o rombanti automobili futuriste, il "pilota" è chi lavora alla Pila. La Pila è l'opificio dove si lavora il riso. Il riso “alla pilota” prevederebbe un riso cotto alla maniera mantovana, spiego dopo, delle salamelle (un tipo di salsiccia) che rappresentino la metà del peso del riso, cotte in poco burro: un venti percento del peso del riso, e il tutto condito con parmigiano rappresentante un altro venti percento. Manca il dieci lo so, ma nessuno ha detto che debba fare cento.
Una volta ho sentito parlare anche di un “riso alla pilota col puntel” mi è stato spiegato che il puntel è “il supporto” : una braciola di maiale rosolata e croccante che si accompagna al riso di cui sopra. Non mi sembrava una ricetta adatta ad un esaminando, a meno che prima non mi scarica un camion di balle di riso. E quindi l'ho cambiato in una versione vegetariana.

Per 4 persone
400gr di riso che farete cuocere in un volume di acqua di poco superiore al volume del riso. Quando l’acqua bolle salate e poi versate il riso che deve risultare uniforme nella casseruola. Cuocete per 10 o 12 minuti, poi spegnete e lasciate riposare per 3 o 4 minuti coperto con un panno. L'acqua dovrebbe essere stata tutta assorbita. Un pilaf ma senza forno.
A parte avrete fatto rosolare in olio evo e a fuoco vivace 2 zucchine (a seconda della grandezza) e 6/8 funghi freschi, tagliati a tocchetti. Lasciate andare per qualche minuto e quando cominciano a colorare, spegnete e salate, non salate prima, la verdura perderebbe acqua e avreste un lesso. Mettete da parte e nella stessa padella in poco olio evo preparate un soffritto di cipolla fresca, che lascerete stufare senza bruciare, aggiungerete dei pomodorini rossi e privati di buccia e semi, salerete. Una volta che il riso è pronto incorporatelo al sughetto saltando in padella per pochi secondi, servite accompagnato dalle verdure e da una bella grattugiata di parmigiano.

In bocca al lupo ragazzo.

08 giugno 2008

Ultimo

Li avete mai visti quelli che lasciano il commento con su scritto "Prima" o "Primo" ?
Mitici vero? No, non cercateli in questo blog. I "numerali", io li chiamo così, sono un fenomeno da oltre cento commenti a post, da blog che fanno migliaia di visite al giorno, e non qualche scarsa decina.
Che vorrà dire secondo voi? Che chi scrive il commento non ha niente da dire, tranne quell'unico aggettivo numerale ordinale? Oppure che chi posta non riesce a strappargli che quell'unica parola solitaria?
Oppure è un bisogno di apparire ? Di mettersi in mostra verso un pubblico più o meno palese? Oppure è il segnale per far capire al blogger di turno che colui che si "numera" esiste, c'è come entità, come lettore. Il "primo" che legge, il primo che vede, il pubblicato di colui che pubblica. Primo, fidato lettore, che sosta davanti al video in continui e solitari re-fresch, in spasmodica attesa del suo pupillo scrittore.

Primo: vana certezza di posizione.

Qualcuno ha gridato.
E tutti ora corriamo lungo la strada. E' quasi una gara, nel caldo assolato di un pomeriggio d'estate.
Ce ne stavamo all'ombra degli alberi, seduti sulle panchine di cemento intarsiate di un mosaico verde. Noiosa attesa di un idea di gioco che non vuole arrivare. Proposte scartate, una via l'altra, ché il caldo toglie il respiro e la voglia. Con un bastoncino disegno figure immaginarie, nella polvere di questo giardino. Quando il disegno non mi piace passo veloce con il piede e lo cancello. La terra mi entra nei sandali blu, e i piedi si sporcano di quel colore quasi rossiccio. Per stasera le mie gambe saranno tutte da lavare fino alle cosce, e poi prima di tornare a casa troverò dell'erba per pulirmi anche le scarpe. Qualcuno prova a raccontare una barzelletta, di quelle barzellette stupide che non fanno ridere, che si raccontano per farsi accettare dal gruppo per entrarne a far parte ancora di più. "Un daino dice a un altro daino: giochiamo a nascondino? E l' altro daino risponde: dai,no." A raccontarla è stato Marcolino. Ha la nostra età ma è basso di statura e minuto, sempre dileggiato e insultato da tutti gli altri. Anche adesso a causa della storiella, Franco il più grande lo prende a schiaffi, forti, dietro la testa. Marcolino subisce, non dice nulla, risolleva il capo. Gli occhi gonfi di lacrime trattenute, di umiliazione e di vergogna. Ci guarda cercando alleati. Ma non ci sono alleati in un gruppetto di dieci bambini, seduti sulle panchine di cemento intarsiate di un mosaico verde, nel caldo assolato di un pomeriggio d'estate. Abbasso lo sguardo sull'inutile e insignificante disegno che c'è tra i miei piedi. Gli occhi gonfi di lacrime incollati sulla mia schiena. Ma che vorrai da me? La giustizia che nessuno ha? Siamo tutti nella stessa situazione, tu un po' più degli altri, lo penso, ma è come se lo stessi gridando.
Invece qualcuno ha gridato sul serio. E' stato Marcolino, che butta la sua vergogna, e ritrova l'orgoglio di chi non smette mai di sperare e grida: "Chi arriva ultimo alla fontanella è stupido!" E parte di corsa sotto il sole di luglio, gridando a squarciagola "Primoooo!"
E ora tutti corriamo, e tutti gridiamo, chi grida "Secondo" chi "Terzo", numeriamo il nostro diritto, la sequenza con la quale ci disseteremo. Corriamo dietro al più piccolo di statura, ribelli alla prepotenza dell'unico. Arriviamo alla fontana in gruppo, come un'orda di animali senza regole. Ma nessuno tradisce la sequenza gridata, e tutti lasciamo che sia Marcolino a bere per primo, in un'alleanza ritrovata e certificata dal rispetto numerale.
Non fa in tempo a mettere il viso sotto il getto della cannella che uno schiaffo sulla testa lo sposta di lato. "Tu sei l'ultimo, il primo sono io."
Nessuno parla, nessuno reagisce, nessuno cede il suo numero al più piccolo di statura. Nessuno dice a Franco, adesso basta hai stufato, mettiti in fila. Lui si disseta con incredibile e angosciante attesa. Gli occhi gonfi di lacrime son tornati a cercare, inutilmente, nel gruppo.
L'alleanza è già finita, durata lo spazio di una corsa nel caldo assolato di un pomeriggio d'estate. Ultimo.

Ultimo: assoluta incertezza dell'infinito numerico. Come il mio:

Vitello Tonnato




Arrivo per ultimo ( ma fino a quando ) a pubblicare questa ricetta. Mi procuro un pezzo di magatello o girello di circa un chilo e mezzo. In una casseruola faccio sciogliere un battuto di lardo e maggiorana, incorporo una carota fatta a pezzi e una mezza cipolla tagliata grossolanamente, aggiungo un filo di olio evo se occorre. Rosolo la carne molto bene, salo e poi inforno, direttamente nella casseruola, a 75° per circa 3 ore e mezza. Controllo la cottura con un termometro: 55° all'interno. Metto la carne in un piatto e lascio "raffreddare" in forno, in modo che i succhi si riassorbano. Deglasso la casseruola usando un mezzo bicchiere di vino passito poi passo tutto al frullatore. Preparo la salsa tonnata con 3 uova sode cotte per sette minuti, 150 gr di tonno e un'acciuga, incorporo parte della salsa di deglassatura, correggo di sale e servo, tagliando la carne sottile.

Un grazie a Lei per il suggerimento sulla cottura, anche se poi ognuno facciamo di testa propria.

03 giugno 2008

Le Déjeuner sur l'Herbe

Un tempo era diverso.
Un tempo aveva un che, di impresa, un che di conquista, un senso di selvaggio, di scoperta. Un tempo fare un pic-nic aveva qualcosa di eroico.
Salivamo lungo i tornanti delle Dolomiti trentine prima, e delle Alpi valdostane poi. Seguivamo l'auto di mio zio che conosceva posti improbabili e al limite del raggiungibile. Arrivavamo in valli incastonate tra alte pareti a picco, attraversate da torrenti rumorosi e biancastri di acqua di fusione. Guadagnavamo scampoli di prato tra ombra e sole, sole di montagna che è peggio di quello del mare, dicevano le nonne. Mettevamo le bottiglie a rinfrescare in un angolo di torrente, in un'ansa dove la corrente era meno cattiva. E a volte neanche le pietre messe a difesa bastavano a garantire che le ritrovassimo tutte quelle bottiglie. Passeggiavamo per qualche centinaio di metri e pensavamo di aver scalato montagne. Con un vecchio binocolo cercavamo stambecchi e camosci lungo le balse delle pareti. Mangiavamo in modo frugale senza lasciare segni. Giocavamo esclusivamente alle bocce. Qualcuno scattava una, o due foto di quella giornata, di cui ricordi perfettamente, ma che oggi non trovi più. E quando il sole scompariva dietro la cresta e l'aria diventava più fresca, raccoglievamo le coperte e il cestino del pic-nic e tornavamo a valle. Noi bambini addormentati sulle ginocchia di mamme, zie e nonne, svegliati in modo sbrigativo una volta a casa per una tazza di latte e caffè d'orzo: tradizionale alternativa ad una cena che saltavamo per riprendere il sonno interrotto.

Ricordo alcuni tentativi successivi per ritrovare quell'atmosfera particolare di fine anni '60, ma senza successo. Il cibo diventava troppo, i posti troppo facili da raggiungere, il vociare del torrente coperto da stereo e addirittura televisori a batteria, le bocce sostituite da decine di palloni, rincorsi a squarciagola.
Il pic-nic non c'è più.
Eventualmente ti puoi armare di zaino e attrezzatura e camminare per ore, ma non è pic-nic diventa trekking e giocoforza è selettivo per almeno una parte della famiglia. Ma devo trovare il modo di ritrovare quelle atmosfere, quando scendevi dall'auto con una coperta sottobraccio e un libro in mano. Ti sedevi nell'erba e ti lasciavi rapire da tutto quello che immobile ti girava attorno. E quei pranzi speciali fatti con cose normali, magari come una:

Porchettina di prosciutto e verdure al forno




Il giorno prima, ho preso un pezzo di prosciutto di maiale, che ho aperto e allargato (magari chiedete il favore al macellaio), ho fatto una decina di incisioni con la punta di un coltello affilato e ci ho infilato dei mezzi spicchi di aglio. Ho salato, pepato, profumato con rosmarino, salvia e finocchietto selvatico, ho aggiunto della pancetta fresca e ho legato con dello spago. Ho lasciato riposare così, in frigo, per un giorno intero. Ho cotto la carne a 90°/95° per 3,5 ore (la mia pesava 1,5 kg). Ho usato la stessa cottura per dei pomodori belli rossi conditi con un trito di basilico olio evo, sale e zucchero, a cui sono bastati 90 minuti. Ho passato alla griglia delle fette di zucchina condite poi con olio evo, sale e prezzemolo. Mentre il tutto andava ho fatto anche qualche patata come qui. Questa carne è buona mangiata tiepida, le verdure pure, ma anche di frigorifero sono ottime.
La prossima volta stendo un plaid in giardino e faccio un pic-nic lì...