27 febbraio 2009

Tutto il nostro...

Come la chiami la persona che ami ?
Cucciola mia?
Vita mia grande?
Dolce sogno della notte?
Amore?
Cuore mio?

Ecco “cuore mio” è una bella espressione. E’ un espressione che rende l’idea di quanto si possa amare un’ altra persona. Cuore mio grande, meglio ancora.

Quante volte un uomo avrà chiamato la sua donna, cuore mio?
Quante volte una mamma avrà chiamato il suo bimbo: cuore mio?
Quante volte lo avrà fatto un padre?
Quante volte quel bimbo avrà risposto: tutto l’amore che ho nel cuore mamma!?
Che effetto può fare sentire l’abbraccio di un figlio, che stretto al collo ti dice: tutto l’amore che ho nel cuore ?!


Quanto sarà stato grande quel cuore di Federico ?!


Non mollate Lino e Patrizia perché se mollate voi abbiamo mollato tutti !


22 febbraio 2009

Lenirò il suo dolore


Quaranta minuti alla partenza. Il doganiere tedesco è grosso, sovrappeso, i bottoni tirano pericolosamente la stoffa della camicia blu. Sul calcio della pistola appoggia il grasso del fianco. Mi avvicino, allungo la mia carta d'identità. La tengo nel portafoglio piegata in quattro, i bordi strappati e mangiucchiati, aperta per metà da uno strappo. La dispiego con attenzione sotto lo sguardo, ora granitico e non più sorridente, del doganiere. La apro sotto i suoi occhi, schifati, dallo stato di abbandono del mio documento. Abbozzo un sorriso tranquillizzante da "bravo ragazzo", da manager impegnato, da non terrorista. Lo guardo in viso nel tentativo rabbonirlo. Viso paonazzo e distorto da una smorfia incazzata.
Che ha la mia foto? Non sarò bello ! Sarò anche basso, come qualcuno continua ad insistere, ma non so.... cazzo non c'è la foto!!
La foto sulla carta d'identità non c'è più guardo il doganiere con aria interrogativa. Dov'è la foto ? Lui ora è in preda ad una crisi di nervi. Si alza dalla sedia e meno male che il vetro antiproiettile, è antiproiettile. Indica qualcosa sul pavimento con il dito puntato nel vetro. Abbasso lo sguardo seguendo la linea immaginaria che la punta del dito crea tra il vetro e il pavimento.
La foto ! Era caduta ! La raccolgo, l'appoggio nel quadrato del documento, faccio combaciare i bordi al quadratino stampato e faccio per porgere il tutto al doganiere, che ora non è più solo e sono in tre. Tre doganieri tedeschi incazzati e un volo che parte. Ventitré minuti alla partenza.
Lenisci il suo dolore.

Novanta cinque minuti alla partenza. C'è una scala mobile enorme, lunghissima, che porta alle partenze del terminal 2 di "FRA". Una famigliola con due bimbe è davanti a me. Prendono tutti la scala mobile ma la bimba grande: quattro anni e neanche forse, ha un attimo di incertezza, salgono tutti ma lei no. Vede le certezze della sua vita andarsene, chiama disperata, grida, ma la confusione non la fa sentire. Il padre e la madre salgono, verso un cielo immenso fatto di tubi e di vetri, distratti dallo stress di un volo da prendere. Grossi lacrimoni rigano le guance di questa piccolissima bimba tedesca dai lineamenti asiatici. Come ti senti a quattro anni in fondo ad una scala mobile a doppio piano, che sta portando via la tua vita ? Un pedofilo. Ha preso la bimba. L'ha toccata. Come ti senti a quaranta cinque anni a prendere in braccio una bimba sconosciuta in fondo ad una scala mobile a doppio piano?
Pazienza. Divento nano, mi inginocchio davanti a lei, la guardo in due occhioni neri e liquidi. Le parlo nella lingua dei bambini, la calmo dal singhiozzare che le scuote il petto. La mamma grida disperata, ora, dell'ammanco. Ho movimenti calmi e rassicuranti, sia verso i nani che verso i giganti. Butto lo zaino sulla spalla sinistra e la bimba sulla destra. Novanta due minuti alla partenza. Partiamo anche noi, il nano gigante e la bimba. Saliamo su questo mostro a doppio piano, che porta verso quel cielo fatto di tubi e di vetro, e che ha ingoiato la mamma e il papà.
Lenisci il suo dolore.


Quattordici minuti alla partenza. E' vestita di nero. Grandi occhiali da sole neri. Davanti a me al controllo bagagli. Un grande cappotto a cappa la copre totalmente, mora, bella, diafana. E' riluttante ai gesti dell'operatrice che la invita a togliersi cappotto, giacca, occhiali e cinta. Lo fa. La sua magrezza è spettrale. Tiene il pantalone con una mano mentre con l'altra si ravvia i capelli. E' ancora bella, nel suo incedere elegante. La fila di luci rosse che si accende sulla porta non porta, la frena proprio mentre pensava di essere passata. Le scarpe, finiscono in una cassetta di plastica grigia, ed ora è poco più alta di me, bella e malata di una magrezza assurda e imbarazzante. Nove minuti alla partenza.
Lenisci il suo dolore.

Sessanta due minuti alla partenza. Il bagno odora di pesca. No, meglio, puzza di te alla pesca. Le quattro porte sono tutte chiuse e gli orinatoio occupati, tranne quello per i bambini. Un armadio di colore con un cappello di lana in testa, un tedesco alto e biondo in un abito che di elegante non ha nulla, un indiano con il turbante al mio fianco, e io che piscio nell' orinatoio dei nani. L'indiano è imbarazzato, è evidente, non riesce a farla, stretto tra l'etnie europee. Per peggiorare la situazione mi metto a fissarlo. Se ne accorge e quando si volta appena lo saluto con un gentile gudivening. Lo lascio lì, disperato dalla "minzione impossibile". La faccia contro quel muro, mentre intorno a lui il mondo continua a darsi il cambio per pisciare. Sessanta minuti alla partenza.
Lenisci il suo dolore.


Tre minuti alla partenza. Cammino tranquillo verso il gate A21, lo zaino sulla spalla sinistra, un auricolare infilato. Vedo l'operatrice al banco che prende il microfono e sento l'annuncio: mi stanno cercando. La musica è interrotta dal segnale di chiamata, rispondo. Dall'altra parte c'è un nano che mi racconta la sua giornata. Chiede quando torno, chiede chi ci viene a trovare domenica, chiede se facciamo a lotta domani sera. Ascolto il nano che continua a spiegarmi cose che non collego tra loro, amici suoi e miei che si intrecciano nel suo pensiero. Due minuti alla partenza. Le hostess al banco si guardano intorno in cerca dell'ultimo passeggero del volo. Di là la voce ora è meno eccitata, chiede se poi devo ripartire, e allora chiede se ho trovato quell'ufficio vicino casa. E' deluso dalla risposta, ogni volta è così. Ora devo andare, devo proprio andare. Ho un movimento inaspettato per le due hostess al gate, appoggio la carta sul lettore del codice a barre, il cancello si apre e mi infilo, veloce, nel finger. Le due hostess guardano me e poi guardano il monitor. Si era lui. Un minuto alla partenza. Senti però quando torni me lo fai un dolce di quelli che fai tu e che mi fanno stare tanto bene?
Lenirò il suo dolore.
Partito.



Per accontentare un paio di nani e un paio di giganti, 50 cl di succo di amarene, tre cucchiai di Roteli, con cui bagnerete dei savoiardi spezzati, e che inonderete di una crema al limone. Per la crema al limone occorrono tre tuorli, che monterete con tre cucchiai di zucchero, aggiungendo poi un cucchiaio raso di fecola di patate. Incorporate 300 cl di latte e mettete sul fuoco a bagnomaria finché non si cuoce diventando lucida. Aggiungete il succo di mezzo limone filtrato.
Alla fine dovete avere buoni amici, anche uno soltanto, ma di quelli che contano e che stanno dalle parti di Torino. A loro chiedete un barattolo di "crema spalmabile cacao" di Guido Gobino. Questa sciolta in latte bollente, e portato alla giusta densità è il tocco finale per passare dal dolore al piacere.



Piaciuta nano ?


15 febbraio 2009

Il colore del mare

Pattino fuori dalle montagne.
Una nevicata, poi il gelo e poi ancora neve. Appena tocco l'acceleratore le spia del TCS o come diavolo si chiama si accende, compulsiva. Lascio e rivado più leggero. Supero arrancanti mamme sprovviste e sprovvedute, che con l'acceleratore a palla e le ruote a mille, tentano la salita verso la scuola, senza successo.
Matti al mio fianco osserva il mondo passargli accanto. Ha il viso puntato sul finestrino di lato e la sua visione si limita a ciò che per un attimo gli passa di fronte, senza una vista d'insieme. E' un gioco che gli piace, commenta il paesaggio i fatti e le cose che vede. Riconosce che siamo quasi alla scuola da punti di riferimento che solo lui sa.
Apre la portiera si volta: il pugno chiuso e il pollice alzato, un "a dopo" quasi gelido e distaccato. Il portone della scuola lo ingoia, ma non lo digerirà.

Vado verso il mare.
Il cielo si strappa, una tela grigia che lascia il posto, a pezzi di azzurro, il bianco della neve rimbalza negli occhi.
Pattino via.
Il ghiaccio lascia il posto, ad una strada bagnata. Mi infilo nelle ultime gallerie che separano la montagna, dalle colline che degradano al mare. Di là come sempre un altro mondo. Il cielo continua a lacerarsi solo verso la costa, strappi di grigio restano sospesi, sul mare.
Ancora autostrada, giù verso sud. Ancona, Loreto, Civitanova...

Penso che forse per la prima volta avrei voglia di un raggio di sole caldo. Non l'estate vociante e bollente. Ma una primavera tiepida e silenziosa.
I primi ristoranti che aprono ancora incerti e indecisi, sul mare. La spiaggia deserta segnata dall'inverno, come da una battaglia che ha lasciato le cose distrutte e abbandonate. La sabbia che nasconde i passaggi, che si arrampica sulle cabine in mucchi scultorei. Il ticchettio dei tiranti sugli alberi delle barche.
La musica ricaccia ogni altro rumore. Sento solo la vibrazione del motore, delle ruote sull'asfalto. E quando il mare mi appare, lo sapevo che sarebbe stato così.
E' verde. Di un verde profondo che se il sole non tocca, sembra grigio e azzurro.
Ma quando il sole ritorna ha il colore degli occhi di una donna. Lo guardo mentre mi corre a fianco. La linea della costa, i tetti delle case, lo spuma bianca delle sue onde. I miei occhi sono spiagge accarezzati dalla sua risacca.

Si.
Vorrei essere in uno di quei ristorantini in riva al mare. Seduto comodo, il tepore del giorno che mi ha lasciato in maniche di camicia, il vino ghiacciato che ha fatto quel velo di "spanna" sul bicchiere. Guarderei lontano, oltre la spiaggia, oltre le onde, là dove il cielo si si infila nel mare. Me ne resterei in silenzio ad ascoltare le cose non dette, lascerei che qualcuno ordinasse per me. Aspetterei coccolato che dalla cucina mi arrivasse una:

Tartare di tonno e insalata di mela e pompelmo



Per la tartare e per due persone:
Quattro fette di tonno rosso freschissimo fatte a cubetti. Insaporite il pesce con metà del succo di mezzo pompelmo, olio evo buono, sale Hawaiano, pepe e un pizzico di origano. Aggiungete un paio di pomodorini secchi sott'olio, di quelli buoni e preziosi, e lasciate insaporire mentre preparate l'insalata.



Per l'insalata:

La polpa dell'atro mezzo pompelmo, senza la parte bianca, ridotta a tocchetti. Una mela Fuji o una Red Stark a cui avrete tolto solo parte della buccia, e fatta a cubetti. Incorporate mela e pompelmo e condite con, ancora, poco sale Hawaiano, un filo d'olio evo e il restante succo di pompelmo. Aggiungete qualche piccola fogliolina di rucola.


Impiattate disponendo l'insalata di mela e sopra la tartare di tonno aiutandovi con un "ring". A parte tostate dei cubetti di pane che condirete con un emulsione di colatura di alici e olio evo, aggiungeteli al piatto e condite con un filo di evo finale.



09 febbraio 2009

Tu aspettami !

L'aia è assolata e calda nel mattino di luglio. Mario se ne sta in disparte. Seduto su una di quelle pietre di sabbione, che questa terra ogni tanto sputa dal suo ventre come tanti noccioli di ciliege. Nessuno parla con lui, son tutti lì impegnati a salutarsi, a stringersi mani. I vestiti del giorno di festa, con le scarpe e il fondo dei pantaloni impolverati di bianco. La poca strada da qui alla chiesa e ritorno, ha reso vano il lavoro di lucido e spazzola.
Le donne, man mano che arrivano, scompaiono inghiottite dalla porticina che porta in cantina. Mario ha provato ad affaciarvisi prima. La fame gli mordeva lo stomaco, gli sarebbe bastato un pezzo di pane. Ma appena è apparso sul ciglio della porta è stato ricacciato fuori da un urlo spaventoso. E' stata la Tecla la zia de l'Anna, l'addetta alla cucina, a gridargli contro. Neanche un pezzo di pane.
Le donne riappaiono dalla cantina indossando le "parananze" sopra i vestiti della festa. Veloci finiscono di apparecchiare i quattro lunghi tavoloni, disposti tra "la noce" e "la cerqua". Ecco che arriva anche il pane, un paio di donne lo tengono nei loro grembiuli, i cui lembi sollevati han trasformato in sacche da trasporto. Veloci dispongono le fette al centro delle tavolate. Mario osserva.

"Ma non hai fame tu ?" La domanda lo coglie alla sprovvista a fargliela è stata Renata, la cugina de l'Anna, la figlia della Tecla. Renata ha un paio di anni più di lui, quasi dodici. Ha trecce nere e lunghe, legate in fondo con due fiocchi rossi e bianchi. Ha gli occhi scuri e il naso storto. Ha una fetta di pane nella mano destra, che tagliata a metà e sovrapposta, forma un mezzo panino in cui sono evidenti i segni di un paio di morsi. Mario si "sgola", sembra incantato dal panino, ma in effetti sta cercando di capire cosa ci sia tra le due fette di pane. Renata lo osserva curiosa , ha capito: "... ciauscolo, ma non mi va più !".
Mario ha un mezzo sorriso di gratitudine che scompare, quando Renata apre le due mezze fette di pane, e offre al suo cagnetto, Bobi, quella in cui il ciauscolo è rimasto attaccato. Il cane la strappa di mano con un morso secco, e con altri due assesta il pane che scompare nella sua bocca. Mario si volta verso Renata, appena in tempo per vedere l'altra mezza fetta di pane volargli sopra la testa e cadere oltre il recinto alle sue spalle. Dove appena tocca terra una decina di galline ci si tuffano curiose. Scomparendo poi alla sua vista all'inseguimento della fortunata che fugge con il pane nel becco.

La fame adesso gli torce le budella. Molla un calcio alla terra, e i sassolini bianchi del selciato gli si infilano nei sandali blu. Un applauso gli fa sollevare lo sguardo. Gli invitati sono tutti corsi verso la strada. E' arrivata Anna, ha i capelli biondi che brillano al sole di luglio, un velo bianco ne nasconde la lunghezza, sorride felice alle amiche che l'abbraciano e la baciano. Oggi ha sposato Checco. Checco ha il collo lungo e lo sguardo mezzo spiritato. Ride sguaiato tra gli uomini che fanno battute e continuano a dargli pacche sulle spalle.

Eppure. Eppure ad Anna glielo aveva detto che lui era innamorato. Anzi gli aveva detto "Anna. Tu aspettami ! Che io da grande ti sposo..!" Lei aveva sorriso e lo aveva stretto in un abbraccio lungo e dolcissimo. In cui Mario si era lasciato cullare, la testa appoggiata al seno grande e morbido. Era restato con le braccia abbandonate, lungo il corpo mentre la guancia, che poggiava sulle tette si infiammava e sembrava incendiarsi, tanto che aveva pensato di poter bruciare quella scollatura generosa e profumata di vaniglia. Era restato lì mentre Anna gli carezzava la testa, e mentre nella pancia e più giù, sentiva come se centinaia di farfalle avessero cominciato a svolazzare. "Oh Anna amore mio, amore mio!", aveva sussurrato, stando attento a non farsi sentire. Anna gli aveva sollevato il viso dal suo petto e guardandolo negli occhi lo aveva chiamato "il mio piccolo principe". Era stato in quel momento che Lei gli aveva dato un bacio. Un bacio sulla guancia, ma non proprio. Si perché Mario era sicuro che un'angolo delle labbra di Anna avesse incrociato un angolo delle sue labbra, ne aveva percepito, il bagnato della saliva. E per Mario non ci furono più dubbi, quello era un bacio sulla bocca, e un bacio sulla bocca non è altro che un bacio di fidanzamento.
Anna, la sua fidanzata.
Lo aveva detto anche a Ugo, il suo migliore amico, durante la ricreazione a scuola. Ma poi quando Ugo si era messo a ridere a bocca larga, finendo quasi per strozzarsi con il pane che stava mangiando, non era andato oltre, e il bacio sulla bocca rimase il loro grande segreto.

Ed ora era sposata, seduta nel centro della tavola più lunga mentre mangiava il brodo con i passatelli. La mamma di Mario continua a chiamarlo ma lui resta lì seduto su quella pietra di sabbione, sputata dal ventre di questa terra come un nocciolo di ciliega. Continua a scalciare i sassolini del selciato, lasciando due solchi scuri dove i piedi hanno scoperto la terra nera. Mentre la fame ora se ne è andata, e una rabbia triste gli ha riempito lo stomaco. E ora in fondo a quei due solchi neri che sembrano i binari di una ferrovia, appare una nuvola bianca e grande. E mentre Mario segue i bordi di quella nuvola, il grande vestito da sposa sembra sgonfiarsi verso terra. Anna è accovacciata di fronte a lui. "Ehi piccolo principe, che succede ?! Non vieni a mangiare !?"
Succede che mi hai tradito, ecco cosa succede !! E' quello che vorrebbe dire, ma lo pensa soltanto, mentre le farfale, ora sono pinguini che saltano. E forse una lacrima gli sta per spuntare dagli occhi, e mentre stringe i denti, un grido si solleva tra i tavoli: "L'allessoooo !!".
Mario ha lo sguardo fisso su quello verde di Anna. Su quel viso rotondo, e su quelle labbra che una volta ha baciato. Poi con un filo di voce sussurra: "Aspettavo l'allesso !!"

Il Bollito, e non "l'allesso"


Non è mai stato di questa terra. Non esiste il bollito nelle Marche. E se qualcuno vi vuole convincere del contrario non è mai stato marchigiano.
Nelle Marche il bollito è il "lesso" ma siamo distanti in termini concettuali come se parlassimo di farfalle e di pinguini. Gli effetti sono abbastanza simili, ma nulla a che vedere l'uno con l'altro. Il lesso è lo strumento per ottenere il brodo, base principale, per cappelletti, passatelli, maccaroncini. E per non buttare quella carne la si mangia comunque, anche se è sfinita e sfruttata dalla cottura. Nei tradizionali pranzi di festa di una volta, seguiva la minestra che era la prima portata, e anticipava la tagliatella al ragù e gli arrosti misti.


Il bollito invece è l'insieme delle carni che vengono cotte in acqua bollente. Quello che resta non è brodo, è acqua e la si butta, la carne invece diventa il piatto. Accompagnata da un purè di patate profumato con noce moscata e da una salsa verde "il bagnet vert" a base di prezzemolo e peperoni, diventa un piatto di goduria. In cui il palato passa dalla gallina, alla lingua di manzo, al muscolo della giulietta, alla coda anche, o al finale della bistecca, e poi il cotechino, grasso, profumato e succulento, da cuocere a parte per evitare la commistione eccessiva di sapori.

Il bollito non è mai stato di questa terra.