27 febbraio 2008

Una generazione senza futuro

Credo che invecchiando si finisca per soffrire della "sindrome da rincoglionimento ignorante". Di cosa si tratta? Si può invecchiare in maniera consapevole rispetto al mondo che ci circonda, e quindi cercando, per quanto possibile, di "stare al passo coi tempi" o evitando almeno di demonizzare il nuovo, solo perché non lo si conosce.
Oppure si può invecchiare rimanendo radicati al proprio passato, senza un minimo di sforzo per capire il futuro che è già presente, in questo caso si cade nella sindrome da "rincoglionimento ignorante".

Fermo restando che invecchiando la tendenza è quella di rincoglionire, e questo vale per per tutti, si dovrebbe evitare di farlo con ignoranza. Ma quando ci si trova di fronte ad un' anamnesi di questo tipo, non si può che diagnosticare la bruttissima malattia.



Ora la domanda è: che fine farà mio figlio Leonardo. E sì perchè lui e alcuni suoi amici hanno aperto un blog. Ora poco importa se il blog è la prosecuzione "(s)naturale" di un giornalino parrocchiale, ma in quella trasmissione la sentenza è emessa e quindi, nell'ordine, Leonardo, può diventare:

Un feroce assassino;
Un giovane torbido e deviato sessualmente;
Un blogger criminale affiliato a qualche gruppo terroristico;
Un mancato ballerino frustrato di non partecipare ad "Amici".

Personalmente mi sta bene tutto, basta che non diventi un cretino.

Due precisazioni due: la generazione senza futuro non è quella di mio figlio e l'amministratore del suo blog sono io, perché se è vero che per imparare a nuotare, dobbiamo buttarli in acqua, è vero anche che dobbiamo esser pronti a tirarli fuori se affogano.

24 febbraio 2008

Il pieno per favore

Ho spesso bisogno di verificare, (ri)constatare, toccando con mano, che le cose vere, che il mondo vero c'è sempre. E' una sensazione strana, una sensazione di sentirsi fuori luogo nel posto e nel ruolo che ci appartiene normalmente. Ecco, quando io percepisco quella sensazione so che è il momento di rifare il pieno, di ritornare alle origini, alla terra, per ritrovare le cose semplici, seguendo il vecchio tratturo che sale dietro casa, riscoprire le cose essenziali.


Vado, raccolgo per strada un amico, lo carico in auto e andiamo, non tanto distante, ma quel tanto che basta per uscire dal mondo. Saliamo su quella collina, il motore s'impalla, un Airone bianco maggiore ci osserva curioso dal bordo del fiume. Scendiamo, i cani sonnecchiano prigri al primo sole di una finta primavera, poco distante una ventina di pecore sono relegate in un grande recinto. "Devono partorire...", Checco compare alle spalle, tranquillo, "... il resto del gregge è più su, sui pascoli"


Con Checco ci siam visti un paio di volte, il tramite è Lillo il mio amico, ma è come se ci conoscessimo da sempre. Lui alleva pecore, fa il Pastore, ne munge duecento, a mano, due volte al giorno, attacca alle cinque della mattina e smette alle otto di sera. In mezzo alla giornata, qualche ora per il resto dei lavori. Eppure non sembra stanco, tutt'altro.

Chiacchieriamo nell'aia, i cani ci ascoltano, giriamo per le stanze delle sue cantine, mi fa vedere una una pista che è ancora sotto sale, rimedio un paio di salami, poi in soffitta che lì di salami ce ne sono una cinquantina e una decina di lonze. "La vuoi una lonza quando è pronta?" E certo che la voglio, un capocollo, quello là, scrivici "marco". Prendiamo un caffè, parliamo di progetti, di mungitrici automatiche, di agriturismi improbabili. E poi? E poi finiamo lì, come sempre, a parlare di cucina. E se parli con un Pastore, parli di agnello e se parli di agnello, con un Pastore, non parli di arrosti, di rack, di scottadito, no, con un Pastore prima parli di coratella, che qui nelle Marche diventa il:

Fritto d'agnello


Una coratella di agnello, che altro non è che: fegato, polmoni, cuore, rognoni, milza e budellini. Pulite il tutto per bene e tagliatelo a pezzetti. In una padella scaldate abbondante olio evo buono, con quattro spicchi d'aglio schiacciati e alcne foglie di salvia a pezzetti. Nelle Marche non mettiamo cipolla, tuffiamo la coratella in padella e lasciamo soffriggere finché non cuoce, saliamo, pepiamo e poi sfumiamo con vino bianco secco. Un verdicchio andrà benissimo, lasciamo evaporare il vino e alla fine condiamo con il succo di un mezzo limone, e tanto prezzemolo tritato. Io l'accompagno con una bruschetta calda e carica d'olio, e nient'altro, giusto l'essenziale.

20 febbraio 2008

Z=Z^2+C



E' come un viaggio tra le costellazioni di un universo immaginario. Si viaggia alla velocità della luce lasciando che le galassie scorrano veloci aldilà di un astronave immaginaria, senza pareti e oblò. Ci si tuffa in costellazioni minuscole che poi si ingigantiscono fino ad inghiottirci nelle loro geografie infinite. E' il sogno di tutti noi da bambini, quando da piccoli volevamo diventare astronauti. Ma non sono stelle, non siamo nel vuoto di una galassia o nello spazio distante anni luce.
Siamo in una formula matematica che Mandelbrot fece elaborare ad un vecchio computer alla fine degli anni '70. Probabilmente impiegò qualche giorno ad ottenere il suo frattale completato, e forse qulache mese a scoprire che esso conteneva nello spazio finito di -2;2 un infinito universo di se stesso. La teoria del Caos passa anche attraverso la formula del titolo per spiegare che un insieme definito di elementi, può generare varianti non prevedibili in un sistema non lineare e quindi che vi sono limiti definiti alla prevedibilità dell'evoluzione di sistemi complessi non lineari.
Di cosa sto parlando? Di vino, naturalmente.



Il vino dei blogger #14 (mi rendo conto mentre scrivo che sono stramaledettamente in ritardo), lanciato da Alice e il vino chiedeva di parlare di etichette di vini. A me il "Chaos" della Fattoria Le Terrazze ha sempre generato curiosità. Questa etichetta che ogni anno cambia, e che ogni anno rappresenta un frattale diverso, mi è sempre piaciuta. Ma più di tutte mi piace quella del 2001, e degli anni precedenti, perchè il "frattale di Mandelbrot" è l'essenza assoluta di questa matematica poco conosciuta.

Questo vino poi rappresenta la scommessa caotica fatta di vitigni di questa terra, la mia terra, e di vitigni lontani. Metà di Montepulciano, e l'altra metà divisa in proporzioni uguali tra Shiraz e Merlot, roba straniera, ma che messi insieme fanno un vino potente e piacevole. Un colore rubino intenso, con riflessi violacei, un naso fruttato dove appare una vaniglia delicata e un equilibrio di tannini e morbidezza che ne fanno una piacevole "caotica" complessità. O come scrive Antonio sulla retro etichetta: "La teoria del "chaos" spiega perchè alcune realtà non si possono spiegare del tutto. Così come un vino,questo vino, qualsiasi vino, non si può spiegare in base alle innumerevoli interazioni fra le sue componenti. Meglio così"

Sì meglio così, meglio non cercare sempre una spiegazione per tutto, d'altronde non siamo mica matematici !

17 febbraio 2008

Chiudi gli occhi !

Nella mia infanzia non esistevano i cinema. O meglio esistevano ma noi non ci andavamo. Vivevamo in un paese con due telefoni e il primo cinema distava venti chilometri, un lusso per quei tempi, che potevamo permetterci raramente. Così il lunedì sera quando alla tv, in bianco e nero, di marca "Kennedy" con carrello a doppio piano in vetro e trasformatore stile bauletto, c'era il film: una volta i film c'erano solo il lunedì sera. Io e mio fratello, il "mezzano", disponevamo tutte le sedie della casa a formare due o tre file di un'improbabile cinema casalingo. Tutta la famiglia, padre madre e un altro fratello piccolo che non riesco ad inquadrare in questo ricordo, doveva poi accomodarsi, con le luci spente. Peppe, il fratello che collaborava, faceva da maschera, in quel cinema dalle sedie scomode e troppo vicine. I film erano sempre dei western, tanto che a mio padre è rimasta la passione per questo genere e per le pellicole di quel periodo. Lui non capirebbe mai il concetto di un remake, e gode tutt'ora di quella polvere in bianco e nero che si alza alle spalle del cow-boy in fuga sul suo cavallo, senza che cappello, fazzoletto, camicia e gilet, subiscano l'effetto del vento. Restavamo lì in cinque, con altrettante sedie vuote, a guardare diligenze rincorse da indiani, cowboy che sparavano senza mirare, e morti che morivano senza segni evidenti del colpo che li aveva raggiunti. Il sangue non era nell'iconogrfia del cinema degli anni '60, evidentemente il bianco e nero non avrebbe reso quanto il colore che arrivò più tardi.
Ma a volte succedeva. Capitava che andavamo al cinema. Le sedie di legno, il fumo delle sigarette attraversato dal fascio di luce. Ogni volta scrutavo quelle fessure quadrate dalle quali le immagini prendevano vita, e cercavo di capire quale magia si nascondesse dietro a quel muro. Le luci che si spegnevano e mi madre che in un sussurro mi chiedeva di voltarmi verso lo schermo. Io che con lo sguardo scorrevo il cono di luce, sperando che un improbabile effetto ologramma facesse apparire l'Holden di turno, lì, sopra la mia testa.
In quei film, al cinema, c'era sempre qualcosa che non andava: perché sempre, a volte ripetutamente, ad un certo punto mia madre metteva la sua mano calda sopra i miei occhi. Ed io restavo così ad occhi aperti, a guardare il contorno delle sue dita sfocate, muovevo le pupille a cercare nello spazio tra un dito e l'altro la ragione di quella censura. Ascoltavo il sonoro della scena che non potevo vedere, e immaginavo, dai lamenti, il "dolore" e la "pena" di una "sofferenza", anche questa, scoprii più tardi, del tutto improbabile.

Seduto su questa poltrona di un giallo morente, navigo nella rete, con il telegiornale accesso che parla, parla, parla e non dice più niente. Mentre nel computer leggo di cose che solo raramente finiscono in pasto al grande pubblico. Ci vorrebbe ancora mia madre a coprirmi gli occhi, a nascondermi le tristezze da non vedere. Invece sono mani più piccole che mi nascondono chissà quale sorpresa, mani così piccole che non riescono a quasi a sigillare del tutto la vista. Alle mi spalle "Spaccaball" sorride , sghignazza si muove, da istruzioni al fratello di mettere qualcosa sul tavolo, si raccomanda di non guardare. Le mani si muovono sui miei occhi, lasciandomi vedere la scena con un'intermittenza data dal suo movimento alle mie spalle, poi spalanca le mani alla mia vista. Poggiata sul tavolo c'è la sua prima pagella, un foglio di cartoncino di un verde pisello scarico, un timbro blu, Matteo C., 1^B. La apro la leggo, ha uno sguardo soddisfatto, e ad ogni giudizio che leggo annuisce impercettibilmente con la testa, leggo un giudizio che non c'è, lui scatta mi strappa il foglio dalle mani, controlla, e mi guarda con aria di commiserare il continuo prenderlo in giro. Dobbiamo fare una festa, facciamo una festa e per la festa facciamo la:

Verticale di Lasagne



Questi tre piatti sono tutti derivati da ricette presenti già nel blog per la pasta per le lasagne qui, per la lasagna al ragù di agnello, che avevo fatto ma non ricordavo, qui, per il ragù tradizionale di qua e per il pesto a cui ho aggiunto poca besciamelle e passato la lasagne in forno per non più di cinque minuti di qua

Però tre ricette senza neanche scrivere un ingrediente !

12 febbraio 2008

Cerca un poliziotto

Quando ero piccolo scappavo sempre. Ad Ostia dovettero comprare e legarmi con un guinzaglio dopo che per un mezzo pomeriggio si erano perse le mi tracce. A Viareggio me ne tornai a casa da solo con mio fratello per mano. Sempre lì, nella pineta di ponente, una volta ce ne andammo con le biciclette prese a noleggio. E' l'incubo di ogni genitore, perdere di vista il proprio figlio. Ho una zia carissima che ogni volta che partiamo per una vacanza mi raccomanda di non perdere Spaccaball. E chi lo vorrebbe quel grillo parlante! La raccomandazione tocca anche a lui direttamente, attento di qua, attento di là, stai vicino a mamma e papà, e se non li vedi più cerca un poliziotto. Cerca un poliziotto.

Ecco la verità serve a quella mamma, ma serve anche a noi per poter continuare a dare, ai nostri Federico, quel consiglio, quel consiglio di sempre: cerca un poliziotto.



08 febbraio 2008

E allora ditelo

Qualche giorno fa era carnevale, ma onestamente, nonostante il post di domenica, non me lo ricordavo, l'inizio di settimana è stato pesante e il culmine lo si è raggiunto proprio martedì. Figuriamoci se io quel giorno mi ricordavo che era carnevale. E poi a vivere da solo, lontano da casa ti mancano dei riferimenti: i sacchetti di coriandoli da infilare negli zaini dei figli, il pomeriggio in piazza a festeggiare con loro, qualcuno che insomma ti avvisi, magari con un dolcetto a mezza mattinata. Così mentre andavo in mensa tutto pensavo tranne che al carnevale. Una volta in coda con i miei colleghi, sento serpeggiare, lungo la fila affamata, un commento ".. va! ghe son i galani" "Ah... boni i galani" "...go on buso so'l stomego", "mi me prendo un bel piatto de galani". E così quando la domanda mi è stata rivolta "A ti te piase i galani?". Ho ammiccato con fare di supriorità, anche se io i galani non sapevo cosa fossero, che poi nel pomeriggio ho scoperto che Maurizio ne parlava qui. E quindi mentre avanzavo in coda, tutti guardavano in direzione del banco delle insalate, i galani erano dietro nascosti, io notavo che l'unica differenza quel giorno era dovuta a del cavolo cappuccio tagliato finemente. I colleghi continuano a guardare da quella parte e parlano di galani, io continuo ad annuire con fare di superiorità. E chissà perché nella mia testa l'equazione che si è creata è stata: galani=cavolo cappuccio.
Prendo pasta in bianco, un piatto di carote e... "mi metterebbe anche un po' di galani?". La signora fa per prendere un altro piatto. "No, no, insieme alle carote" Mi guarda strano, sorrido e insisto "vicino alle carote non si preoccupi". Quando mi passa il piatto vicino alle carote ci sono tre frappe, o chiacchiere, o sfrappe, o crostoli, o sfrappole, o cenci, ma galani...! E ditelo allora!
Chiaramente con un guizzo fulmineo della mano ho trasferito i tre galani dal piatto al vassoio in ordine sparso, senza farmi vedere dalla signora della mensa e senza farmi riconoscere dai colleghi intorno. Urge che mi adegui alla parlata indigena, urge vocabolario.

Però oggi il carnevale è passato la quaresima imporrebbe, una volta, il digiuno del venerdì. Una volta, magari oggi qualcuno si limita a mangiare "di magro", magari del pesce, magari un:

Risotto col mare di Fano



Per quattro persone riduco finemente a coltello 8 piccoli calamari, e 8 gamberi belli grandi, faccio aprire un mezzo chilo di vongole dopo averle spurgate in acqua e sale per un paio di ore e le tolgo dal guscio. In padella in poco olio evo faccio scaldare due spicchi di aglio e un presa di prezzemolo triturato, aggiungo calamari e gamberi e li faccio andare a fuoco vivo per qualche minuto poi fermo e tengo da parte, salo appena, aggiungo le vongole. In una casseruola appassisco in poco olio evo uno scalagno tritato finemente, appena si "scioglie" aggiungo un mestolo di condimento ottenuto dal pesce, butto 320 gr di riso, un vialone nano, e lo faccio tostare per due o tre minuti a fuoco vivo. Sfumo con del vino bianco e comincio a tirare il risotto con un fumetto di pesce ricavato dalle teste dei gamberi. A parte in un pentolino sciolgo un cucchiaino di zucchero a velo con qualche goccia di H2O. Appenna lo zucchero è sciolto aggiungo la buccia di mezzo limone fatta a striscioline, la salto in padella e tengo da parte lasciando raffreddare 4 piccoli "ciuffetti" di limone. Quando il riso è ancora al dente incorporo il ragù di pesce e dopo un minuto spengo, aggiungo prezzemolo tritato finemente, e due pomodori rossi a crudo, spellati e privati dei semi, ridotti a brunoise e conditi con olio evo e sale. Manteco con olio evo, correggo di sale, pepo, e faccio restringere il risotto appena un poco più della normale consistenza "all'onda". Impiatto su piatto caldo aggiungo il limone che con la prima sforchetta, si deve disintegrare in un piacevole scrocchio.

La Dany, la mia "Pesciarola":


03 febbraio 2008

Dall'altra parte del mondo

Da che sei vestito ?
A fare la domanda è "grandecapoindiano" lui in effetti si chiama E. Sulla testa ha una grande corona di penne coloratissime, che scendono in due lunghe file lungo la schiena, indossa un costume che sembra proprio da indiano, di quegli indiani che nel '73 vedi solo nei film in bianco e nero. Dietro di lui c'è "corsarorosso" un altro costume bellissimo tutto rosso, una spada che sembra vera, veri stivaloni al ginoccchio e un cappello immenso. S, il suo vero nome, annuisce come a certificare che la domanda è giusta, ma lui sta dietro defilato un po' nascosto dalla sua timidezza. S è l'amico di E, ma E è il capo. Loro fanno la terza elementare come me, in questa classe di una scuola di campagna dove nella stessa aula, ci sono la prima, la terza e la quinta. Le pluriclassi una sola maestra tre lezioni diverse, nell'aula a fianco la seconda e la quarta.
Allora? Da cosa sei vestito?
"grandecapoindiano" incalza: la domanda è rivolta a G il mio compagno di banco. Un ragazzone, almeno a me sembrava così, alto e grande che fa la quinta, un ragazzone che parla con un leggero difetto alla bocca che lo fa balbettare ogni tanto, e per questo deriso immancabilmente da E e da S, un ragazzone buono, tanto, troppo. G li guarda a bocca aperta, forse non ha capito la domanda o forse non sa la risposta. La madre gli ha calcato in testa un cappello, quei cappelli di finta pelliccia, forse del nonno, glielo ha girato e messo a rovescio, poi gli ha calato le falde sulle orecchie, lo ha vestito con una camicia del padre, e gli ha messo sopra una vecchia giacca di pelle a cui sono state tolte le maniche, poi ,forse con un pezzo di carbone, gli ha "disegnato" dei baffi e una barba.
Si può sapere da cosa sei vestito allora?
Intorno a questo banco ci sono tutte le classi sociali di questa terra di campagna. Il padre di S è un commerciante imprenditore, loro hanno il telefono, dopo quello del bar è l'unico telefono nel raggio di dieci chilometri. S riceve sempre un sacco di telefonate dalla nonna che abita a venti chilometri da lì. E è figlio di un artigiano, lui è l'unico a possedere un pallone di cuoio, strumento essenziale in una terra di venti dove i "
supertele" prendono strani effetti. Io sono figlio di un ragioniere che si barcamena tra lavori fissi e meno fissi, oggi lo chiamerebbero un "precario". G è figlio di un contadino, il padre lavora un pezzo di terra che era del nonno, ma spera di andare a lavorare in una fabbrica aperta da poco, lì vicino. G vive in una casa a un paio di chilometri dal paese, lui come me non ha il telefono, in effetti lui non ha nenche il bagno dentro casa. Noi giochiamo spesso assieme, nella sua aia abbiamo costruito un campo da calcio e nell'unica porta del campo abbiamo messo una vecchia rete di un letto, arrugginita e mezza sfondata, per poterci tuffare a parare i palloni.
Me lo dici tu, allora? Da cosa è vestito?
La domanda mi riporta seduto al mio banco, è rivolta a me. "corsarorosso" simula uno sguardo cattivo, ha messo la mano sull'elsa della sciabola, che ha estratto a metà, in segno di minaccia. "grandecapoindiano" imbraccia l'ascia di gommapiuma, anche lui pronto a sferrare un colpo "fatale".
E' vestito da bandito, perché io faccio lo sceriffo e lui il bandito, e dopo quando la maestra ci porta fuori noi giochiamo a banditi e cauboi, e non ci serve un indiano perché c'è già mio fratello e neanche i corsari perchè i corsari stanno da un'altra parte del mondo dove non si sono nè cauboi nè indiani. E adesso ditemi come farete a giocare insieme voi oggi, visto che gli indiani stanno da una parte e i corsari dall'altra parte, del mondo?
Non se l'aspettavano. La sciabola ritorna nel fodero, l'ascia si abbassa, si guardano confusi. Ho distrutto i loro programmi. Ho cambiato il loro mondo. Ho ridefinito confini che non erano stati chiariti. Ho rotto, per un giorno, un allenza indissolubile. Dopo la
foto, durante la ricreazione, mentre diaciannove bambini: zorri, cauboi, fate, arlecchini, banditi e zingare giocano tutti insieme in una mescolanze di ruoli e di tempi assoluta, un "corsarorosso" e un "grandecapoindiano" se ne stanno separati alle due estremità opposte del giardino di una scuola a giocare in solitudine, per un giorno amici separati, dai ruoli delle maschere di un carnevale. Perché non si è mai visto un corsaro insieme ad un indiano.

In quelle occasioni ogni mamma portava o mandava qualche dolce per festeggiare, vi semplifico la vita, un unico impasto per:

I tre dolci di carnevale.



La ricetta di carnevale, per accontentare otto o dieci persone:
Battete 3 uova con 150 g di zucchero, 1 cucchiaio di zucchero vanigliato, e 1 pizzico di sale, incorporate 75 gr di burro fuso, la buccia grattugiata di un limone, 700 g di farina, 1 bustina di lievito per dolci, 50 ml di liquore all'anice (Varnelli per i marchigiani, Sambuca per gli altri), latte se serve per ammorbidire. Formate un panetto morbido che dividete in tre parti.
Per gli ARANCINI stendete un terzo della pasta con un mattarello fino a raggiungere lo spessore di 3/4 millimetri, distribuite sulla sfoglia la buccia di 2 arance grattugiata, mischiata con un quantità doppia (fate a occhio) di zucchero semolato. Arrotolate la sfoglia e tagliate a rotelle dello spessore di un paio di centimetri
così.
Con gli altri due panetti formate degli gnocchi: per le CASTAGNOLE CON LO ZUCCHERO della grandezza di uno gnocco di patata, per le CASTAGNOLE CON IL MIELE E L'ALCHERMES grandi il doppio o poco di più dei precedenti. Friggete tutto in abbondante olio di semi e festeggiate.