28 marzo 2011

Bread of Life



Il tassista si ferma di fronte a me, stand numero due di Hung Hom, direzione penisola. Da poco è iniziato a piovere, una pioggia leggera ma insistente. Aspetto che il tassista scenda per prendere la mia valigia e caricarla nel bagagliaio. Ma invece di fare tutto quello che viene in mente a me, si mette a mangiare da una tazza di cartone apparsa dal nulla. I bastoncini infilano noodles in bocca come una linea di montaggio, immagino il rumore del risucchio che li fa sparire come fossero animati di vita propria, busso un paio di colpetti sul vetro, si volta mi guarda come se fossi un imbecille sotto la pioggia, senza ombrello e senza giacca a vento. Gli urlo in inglese se può scendere a caricare la mia valigia. In tutta risposta vedo il cofano rosso aprirsi invitante, rinuncio, smoccolo e giro intorno all'auto, sbatto la mia valigia nel bagagliaio con cattiveria, le sospensioni oscillano, per un attimo mi sfiora il desiderio che un angolo tagliente riesca a sfondare, la bombola di gas che alimenta tutti i taxi di Hong Kong. Un' esplosione, una palla si fuoco e ciao noodles.

Salgo, il tempo di chiudere la portiera e dò l'indirizzo del mio albergo al mangiatore di spaghetti di riso. Quello non capisce, ripeto: Nome_dell_albergo, Strada_dell_albergo, che per un intersezione interplanetaria hanno lo stesso identico nome: Nathan, hotel il primo road il secondo.
Niente.
Caccio il telefonino apro "Google Maps" zummo sul mio albergo in modo che i caratteri cinesi siano ben visibili. Fuori la pioggia è aumentata, figure confuse corrono oltre il parabrezza del taxi, le gocce riempiono l'abitacolo del loro trambusto, un paio di mani sono rimaste paralizzate su altrettanti clacson, che tutto possono, tranne che agitare il mangiatore di spaghetti cinesi. Guarda il mio telefonino senza guardarlo. E poi come se calasse un carico da undici all'ultima mano di briscola al bar, mi spiega che se pronunciassi meglio i nomi in inglese lui avrebbe capito sicuramente. Mette la prima, parte e nel farlo riempie di totale soddisfazione i suonatori di clacson, convincendoli che lo strumento infernale ha veramente superiori poteri nel far smuovere il traffico di questa città.

Affondo triste nel sedile nero, stile divano di nonna in puro "scai", al mio fianco giace abbandonata una copia del China Daily, la data è quella di oggi, ma sono talmente incazzato che leggo senza leggere, d'altronde se la pronuncia non è perfetta non oso immaginare il resto. Ogni volta che abbasso il giornale per voltare pagina vedo lo sguardo soddisfatto del "driver" spiarmi sullo specchietto "fish-eye". Scorro il summary delle tragedie del mondo e alla terza o alla quarta pagina scopro che è morta Liz Taylor, per un attimo non capisco, non ricordo se era morta da molto, e allora questo è un anniversario, oppure no.
No. Se ne è andata mentre ero in giro per la Cina. La foto a colori mostra fans piangenti che carezzano la sua stella sul marciapiede di Hollywood. Invece la foto sulla pagina appena a destra ma in bianco e nero, mostra la cartina del Myanmar e il titolo informa di almeno settantacinque morti per una scossa di terremoto, almeno, forse, comunque in bianco e nero.

Il mangiatore di spaghetti ha parlato. Lo guardo nello specchietto mentre mi sento chiedere un "Sorry ?" gentile, lui fa la faccia sofferente e mi chiede quanti bagagli ho caricato. Sfoggio il più stronzo dei miei sorrisi "I don't remember. If you don't load them, you never know how many there are". Stavolta ho la sensazione che la pronuncia sia stata quasi perfetta, la sua faccia vale quanto un otto stampato sul registro di quando andavo a scuola.

Scompaio di nuovo dietro il giornale, fuori mi corrono incontro i grattacieli della penisola, le insegne dei negozi mi passano sopra, protese in mezzo alle strade come braccia allargate alla ricerca di clienti. La cacofonia ovattata di questa fornace umana mi ronza in testa come un acufene, è questione di stile di Lifestyle o di Lifefood come recita il paginone centrale del giornale, diagnostica il male del vivere moderno, consiglia la cura anche per la l'anima, sopratutto per l'anima. Grazie già fatto.

Bread of Life





14 marzo 2011

Un campo di papaveri


C’erano quattro piccoli sassolini incastrati tra le pieghe della ferita, poi altri più piccoli che l’ultimo goccio d’acqua della bottiglia non era riuscito a togliere. Usando la punta di un mignolo staccò un paio di pietruzze, le più grandi, le altre si continuavano a mischiare con il sangue che tornava ad uscire copioso, dal ginocchio devastato dalla caduta. Caduta ! No non era stata una caduta era stato un tuffo spettacolare ma non era servito a niente.

Era andata bene per quasi tutta la partita, loro se ne erano stati rintanati nella loro metà campo a difendersi dagli assalti dei suoi compagni. Lui era restato fra i pali della porta a guardarli giocare, attento ad ogni traiettoria della palla. Aveva scambiato due chiacchiere con il suo stopper: si era informato se quella sera si sarebbero ritrovati al “circolo”: il bar del paese. Si chiamava così perché era il circolo sociale dei lavoratori della miniera e potevi entrare solo se tesserato, ma entravano tutti. Il sabato sera si ballava pure, e anche quel sabato. Quando lo stopper si era allontanato, risalendo fin quasi al centro campo lo aveva provato a chiamare, non tanto per la compagnia ma perché uno stopper a centro campo non è uno stopper.
Così aveva chiacchierato con Franco che dalle tribune era venuto a vedere la partita dietro la rete della sua porta. Più che chiacchierare aveva risposto a monosillabi alle sue insistenti domande: chiedeva di tutto, qualsiasi cosa gli passasse per l’anticamera del cervello. Ma la cosa che proprio aveva colpito Franco, erano i suoi guanti di pelle. Non si capacitava proprio del perché avesse bisogno di quei guanti con il caldo che faceva quel giorno. Franco era proprio indietro, non li metteva mica per il freddo, che ne sapeva lui.

La domenica prima l’Ambrosiana Inter aveva vinto il suo quinto scudetto, aveva giocato a Bologna in casa dei leoni e aveva vinto per due a zero, quando la domenica, ancora prima, aveva perso in casa con il Novara e la Bologna era andata a vincere a Genova contro il Liguria. Facile certo, quelli erano già retrocessi, morti, scomparsi, in serie B. Si erano ritrovati all’ultima di campionato con gli stessi punti, l’Ambrosiana e la Bologna, e lo scontro diretto in casa loro. Da infarto. Aveva sentito la partita alla radio e nella canicola del due giugno del quaranta, Perucchetti le aveva parate tutte, non se ne era fatta passare neanche una. E in quella partita, portava un paio di guantoni, così aveva detto il radio cronista, nonostante il caldo. Magari non di pelle come quelli che indossava lui, che erano di suo padre.
Ma vuoi mettere, qui fra questi due pali, biondo con gli occhi azzurri, i guanti infilati e lei sulla gradinata, che continua a fissarlo, a non staccargli gli occhi di dosso. Lui che si muove saltellando, poi si pianta al centro di quella riga tirata con il piede nella polvere di giugno. Le gambe piegate, i muscoli tesi pronto a tuffarsi in un volo plastico e leggero, sulla palla che arriva. Disteso verso l’angolo in alto a sinistra della porta, la dove c’è lei seduta sulla gradinata. Un vestitino bianco con dei grandi fiori rossi, come i papaveri nei campi di grano qui sotto, le ginocchia raccolte fin quasi al petto, ogni tanto la testa che si piega in uno sguardo sognante e lontano. E allora lui si ferma a fissarla, la guarda negli occhi, perché da qui, da questi due pali, è più facile farlo, che non quando gli sta vicino e si vergogna come un cane.

Ma le palle non arrivavano, Giovanni lo stopper, era riuscito a bloccare tutte le discese del centravanti avversario, ma ogni volta aveva faticato più di quella prima. Se stai al centro campo non fai lo stopper, e per fermare gli avversari devi correre come un deficiente. Ecco era un deficiente, lo aveva chiamato e richiamato, gli aveva detto di rientrare, di stare più vicino. Aveva urlato anche all’allenatore ma quello aveva fatto un gesto con la mano come per dire: ma dai tanto è finita. Finita un par di palle, appunto. Aveva visto il loro terzino destro rubare palla sulla sua fascia, proprio sotto le case del paese, una manciata di secondi dalla fine. Era venuto giù diritto come un fuso, passando sotto al proprio pubblico, che stava in piedi sul terrapieno sopra al campo. Quelli avevano urlato come i matti, fin quasi a farsi scoppiare le vene del collo. Giovanni aveva tagliato la metà campo con una diagonale verso la sinistra ad intercettare quel terzino. Rosso e sudato, gli occhi strabuzzanti. Il pubblico aveva urlato di più, e il terzino si era allungato la palla di un metro, persa! Invece no, quel metro di spazio gli era servito a saltare le gambe di Giovanni, che in scivolata, sfinito, cotto e spompato, puntava diritto le caviglie dell' avversario. Il terzino era passato, più fresco di novanta minuti passati a giocare corto invece che a recuperare. Era passato e correva.

Dopo aver saltato i tacchetti di Giovanni, aveva corretto la sua traiettoria centrandola appena verso il suo centravanti, il quale tranquillo come se si fosse alzato da un tavolo di bar, si stava preparando al cross. Neanche l'ombra dei suoi compagni, neanche un difensore a tenerlo, non tanto marcato, ma anche solo "osservato", macché erano tutti verso la metà campo in recupero rossi come pomodori maturi in mezzo ad un campo, ma di calcio. Lui si era spostato sulla destra per coprire lo specchio della porta da quel lato, pronto al tiro dell’attaccante. Invece quel terzino del cavolo, con l’ultimo filo di respiro rimastogli in gola, aveva caricato il destro, e mollato un tiro che aveva preso anche un effetto di esterno.
La palla non era veloce, ma era dall' altra parte, lui aspettava il centravanti e invece era stato il terzino a tirare. Fanculo ai terzini!

Si era tuffato, proprio come nei sogni ad occhi aperti, era volato nell’angolo verso la tribuna e aveva visto oltre la rete, il vestito bianco con i papaveri rossi. Aveva sentito la palla sfiorargli la punta delle dita, ma la pelle del guanto non aveva fatto presa su quella liscia del pallone di cuoio. Poi aveva sentito un urlo, una bestemmia, un insulto, il dolore al ginocchio sinistro, la polvere calda di giugno che entrava nel naso, negli occhi e in bocca. Aveva visto l’arbitro con le due braccia alzate, indicare verso la miniera, il suo allenatore che menava calci al secchio dell’acqua, Giovanni che lo guardava sdraiato sulla fascia, e tutta la squadra avversaria raccolta in una massa intricata di teste e mani confuse che saltava in mezzo al campo.

Le altre pietruzze non se ne volevano andare, magari più tardi suo padre, infermiere, ci avrebbe passato una garza sopra, imbevuta di tintura di iodio. Lei invece se n’era andata quasi subito, quando aveva alzato lo sguardo, confuso tra la polvere del campo, le tribune erano quasi vuote, come se la gente non aspettasse altro, e i papaveri su quel vestito bianco non c’erano già più. Aveva aspettato che i suoi compagni se ne fossero andati, i musi lunghi con lui. Era restato sul prato tra il campo e la strada, finché anche anche il rombo sordo del Gilera Sirio dell'allenatore si era perso verso il paese. Si tirò in piedi a fatica, il ginocchio dolorante, era quasi ora di cena, zoppicava vistosamente e il dolore era più di quanto si era immaginato, e forse stava anche aumentando. Fortuna che casa sua era proprio sopra il campo sportivo ! Alzo lo sguardo e nell’ombra degli alberi, che costeggiavano la strada, vide la figura minuta di sua madre che lo stava aspettando, intorno gli trotterellava sua sorella più piccola: due anni appena, l’ultima di loro quattro. Già gli correva incontro a braccia larghe gridando il suo nome: Checco, Checco, Checco…

L’aria era tiepida, un cielo terso stava colorandosi di sfumature giallo rossastre, il sole tramontava dietro il monte del Doglio, prese la sorellina per mano. La sera cominciava a profumare di fresco, non sentiva più l’odore della polvere del campo, ma ora era il basilico dell’orto, i fiori di sambuco lungo la strada e quello più dolce della cena che arrivava da casa, fanculo agli stopper!

Il Coniglio in Padella


Prendete un coniglio di quelli buoni, magari di casa come diciamo noi. Dopo averlo lasciato per qualche ora in acqua corrente fredda, lo asciugate bene e con una mannaia lo fate a pezzi, considerate che un coniglio medio vi rende un 12 pezzi circa, più chiaramente il fegato, il cuore e i reni (non si butta nulla, anzi). In una padella (o una casseruola) antiaderente, mettete circa 50/60 ml di olio evo, fiamma media, 4/5 spicchi di aglio "vestiti", un rametto di rosmarino spezzettato, salvia a piacere, appena l'olio è bello caldo mettete i pezzi di coniglio e alzate la fiamma. Fate rosolare ben bene, 15 minuti, salate, pepate e poi sfumate con 120/150 ml di vino bianco secco. Lasciate evaporare per un minuto, abbassate la fiamma e coprite con un coperchio. Lasciate cuocere per un'ora e mezza circa. Già basterebbe così, ma se volete a 30 minuti dalla fine della cottura, potete aggiungere una manciata di olive per decorare e insaporire questo piatto che è terra di questa terra, come la polvere di quel campo.


Note a margine:
Checco era mio zio. Era nato nel ’21, ed era un bel ragazzo, alto, biondo e con gli occhi azzurri, ed era un grande portiere. Due giorni dopo quella partita, che magari non fu mai giocata, a tutta la sua generazione sarebbe cambiato il mondo. Non si sposò mai, forse aspettando un campo di papaveri.

06 marzo 2011

Son mia de Venezia


“E tu da cosa sei vestito ?”
A parlare è stato Zorro. Ha la maschera tirata sulla fronte e sulla barba disegnata con un pennarello, ci sono evidenti tracce di zucchero a velo.
Guardo alle sue spalle sul tavolo dei dolci, non ho visto nulla con lo zucchero a velo. E' la festa di carnevale di tutta la scuola e la ricreazione dura di più. Possiamo stare a scuola vestiti con le maschere, e poi mangiare i dolci che le mamme hanno portato, e che i bidelli hanno messo su due tavoli nel corridoio. C'è una confusione terribile, bambini che corrono e si buttano per terra, lotte tra pirati, cauboi che inseguono indiani, coriandoli che volano, e che rimangono attaccati al miele delle castagnole. Ne ho dovuto buttare una perché non riuscivo proprio a staccarli tutti, i coriandoli. Peccato !

“Allora ? Da cosa sei vestito?” L’Arlecchino che gli sta di fianco continua ad ingollare un maritozzo ripieno di panna e nutella. E’ un Arlecchino sui generis piuttosto grassottello, ha un manganello di plastica giallo e rosso, infilato nella cintura che è scesa, in maniera preoccupante, sotto il ventre piuttosto prominente.

“Sono vestito da Brighella”
Zorro, mi scruta con aria interrogativa. Arlecchino non fa una piega, la panna sguscia da un lato della bocca, mentre assesta un morso al maritozzo. E’ velocissimo: sposta il boccone sulla destra e poi con la lingua raccoglie la panna che sta per finire per terra.
“E chi sarebbe Brighella ?!” mi fa Zorro curioso.
“E’ un amico di Arlecchino” gli rispondo felice che qualcuno finalmente mi rivolga la parola e faccia amicizia con me.

Zorro mi guarda dubbioso, si volta verso Arlecchino e gli chiede: “Ma lo conosci?” Arlecchino sta finendo il maritozzo e con la bocca piena muove la testa in segno di negazione, ingoia il mezzo maritozzo e sentenzia biascicando che io non faccio la Quinta A.
“E’ che Brighella è amico di Arlecchino nella storia! Non qui a scuola.” tento di spiegare.
“Che storia ?” Chiede Arlecchino, con la bocca ora libera di parlare

“La storia delle maschere no !” faccio io “Tu sei di Venezia” e indico Arlecchino “Mentre io venivo da un altro posto vicino a Milano mi pare, e poi ci siamo conosciuti.”
Zorro è costernato, piuttosto confuso. Infila la spada nella cintura del vestito fa cadere il cappello sulle spalle, che rimane legato con il laccetto sul collo.
“Guarda che lui non è di Venezia!”
“Eh no è! Io so de Falcunara alta ! E poi ‘ndo è che ce semo conosciuti ?! Io è la prima volta che te vedo ! ”

Lo avevo detto a mamma che questa maschera non l’avrebbero capita i miei compagni di classe. Ma lei è andata a cercare sui libri qualcosa di originale che nessuno avrebbe avuto, appunto ! Ha comprato la stoffa e mi ha cucito la maschera, cappello compreso che non mi sono messo e ho lasciato nella cartella, perché sembra un cappello di un cuoco più che un cappello di carnevale. Mi guardo i pantaloni di raso bianco con delle strisce verdi che si ripetono sulla pancia, anche il mantello “dublefas” bianco e verde, che puoi mettere da una parte o dall’altra, è abbastanza ridicolo. Venendo a scuola ho provato a correre per vedere se volava, ma è troppo corto e pesante per poterlo fare. Mentre quello di Zorro vola anche se sta fermo, nero, lunghissimo e leggero.

Guardo Arlecchino che continua a scrutarmi. “Di dove sei ?” gli faccio
“De Falcunara alta !” ammicco con la testa.
“Era buono il maritozzo? “Arlecchino sorride soddisfatto e mi fa cenno di si.
“Ne voi uno ? Ce ne stanne ancora !”
“Nooo, preferisco le castagnole !“
“Booone !” fa Zorro “C’ henne pure quelle co' lo zucchero a velo sopra ! Noi le chiamemo le frittele“

Ma allora come a Venezia !

E frittoe !


Anche in questo caso voglio sentire le voci fuori dal coro: E Frittoe xze tipiche del Veneto ma ogni casa ha la sua ricetta, quindi prego accomodatevi.
Queste sono fatte battendo 3 uova con 150 gr. di zucchero semolato e un pizzico di sale. Ho aggiunto 50ml di Rhum, 50ml di grappa, 50ml di latte, 50ml di olio evo, il succo di un arancia a cui prima avevo grattugiato la buccia per incorporarla nell'impasto. Ho aggiunto i semi di mezzo baccello di vaniglia, 450gr di farina "00", 100gr di uvetta ammollata e 50gr di pinoli. Alla fine ho incorporato mezza bustina di lievito chimico per dolci.
Fritte in olio di semi e mangiate passandole prima in zucchero semolato e poi in quello a velo.


Tempo fa ne assaggiai una versione in una trattoria tipica della Marca Trevigiana che per poco non mi ha steso in terra. Una morbidezza allucinante e un'occhiatura da sogno, in pratica erano solo crosta, fritta zuccherata e dolce, così soffici da sciogliersi in bocca.

Quella volta mi permisi, malauguratamente, di chiedere la ricetta al "paron" dell'osteria con il risultato che per poco non vengo cacciato a pedate. Sono sicuro che erano una versione con lievito di birra, ma penso con lievitazione lunga fino ad ottenere il "velo" ... ti ho sgamato anche se fai (giustamente) il prezioso !

Ah la storia è vera, son sicuro che vado a cercare, a casa di madre da qualche parte ci sta ancora il vestito di Brighella, ma il cappello no, quello l'ho fatto sparire il giorno stesso.