23 novembre 2008

Un vecchio acufene

Il bosco odora di muffa, di legno bagnato. Mentre scendo verso il fondo del fosso, scivolo sul tappeto di foglie cadute. Le colline della mia terra sono questo, ondulate gobbe di campi arati, separati da fossi che come cicatrici tagliano il paesaggio. Nel fondo scorrono rogge d’acqua che dissetano giusto qualche pigro cinghiale, di sopra sui crinali passan le strade vicinali, bianche di terra che vola d'estate e si attacca d'inverno. 
Resto seduto in terra, ansimando a bocca spalancata, cercando di non farmi sentire. Le loro voci mi arrivano da più in basso con un’eco strano che le fa sembrare ora lontanissime ora vicinissime. Non mi hanno voluto con loro. 

Li ho pregati. Prima con quel minimo di distacco che l’orgoglio imponeva. Poi con qualche sorriso goffo, a togliere più il mio imbarazzo che il loro, che non c’era. Ho tentato con qualche battuta, poi con la promessa della mia totale invisibilità. Sono rimasto silenzioso correndo da uno all’altro di loro per farmi vedere disponibile. Sono andato a comprare le sigarette, ho portato un paio di birrette, per i ragazzi grandi, che fumano “N80” e bevono “peroncini” a canna. Troppo grandi per me.
Quando si sono avviati dietro le case del paese, verso quel bosco, dentro quel fosso. Ho trotterellato tenendo il loro passo e infilandomi forzatamente dentro la loro conversazione, che mi escludeva.
E’ stato il più grande di loro, mi ha preso per il maglione celeste che indosso, ha preso maglione, camicia e maglietta e mia tirato su, la sua faccia vicino la mia. Mi ha urlato con rabbia di levarmi dai coglioni, se non volevo che mi spaccasse la faccia. Il suo fiato puzzava di birra e di portacenere non svuotato. Quando mi ha rimesso giù, mi ha girato con una rapida spinta e mi ha mollato un calcio nel culo. Forte, netto, per farmi male.
Hanno riso sguaiati per il goffo ruzzolone che ho fatto cadendo. Fosse stato un cazzotto in faccia sarebbe stato più onorevole, magari anche con un filo di sangue dal labbro. Meno ridicolo di quei grossi lacrimoni che mi sono scesi, a causa del dolore fittissimo che mi ha fatto saltellare contorto.

Ora li sento che si stanno chiamando: li hanno trovati. Gridano sottovoce. Anche mio padre mi dice di fare sempre così: “Quando trovi dei funghi non gridare raccoglili e poi chiamami sottovoce”.
Noi però, siamo più da funghi di monte. La luce dei prati il vento che spazza i prati, in onde di verde, l'odore della santoreggia, il bianco candido del "turrino". Piuttosto che il buio di questo bosco, l'aria satura di umido e la puzza di muffa. Ma trovare una nuova fungaia, bosco o monte che sia, è sempre qualcosa di importante. Babbo ho travato un posto pieno di funghi, canestri e canestri di funghi, se vuoi ti ci porto. Vorrei tornare a casa così con una "notizia" importante.
Ora non li sento più, avanzo piano dentro la macchia di quercia spoglia, qualche ramo secco caduto, si spezza al mio passaggio, con un rumore secco e sordo, che rimbomba nel bosco. Sono quasi nel fondo del fosso, non c'è traccia di acqua e neanche dei ragazzi grandi che sto cercando. Poi succede qualcosa, un boato sordo mi rimbomba nella testa, una sensazione di freddo e poi di caldo mi prende la parte sinistra della faccia, scivolo a testa in giù fin dentro al letto secco del ruscello, e poi qualcuno si mette a fischiare; un fischio lunghissimo e doloroso. Mi fa male la faccia, la testa, e dall'orecchio sinistro non sento nulla se non questo fischio. Provo a rimettermi seduto, e ora mi accorgo che i ragazzi ci sono, sono tutti e tre lì intorno, non ridono come prima, mi guardano con facce preoccupate. Forse mi stanno dicendo di andarmene, ma non li sento: il fischio. Qualcosa di di caldo mi scorre lungo la nuca, giù per il collo, dentro la camicia. Mi sfrego la testa dove sento il dolore, ritraggo la mano sporca di sangue. Non mi spavento, mi sono già "rotto la testa" altre volte e l'unica cosa che penso, è che mia madre dovrà tagliarmi i capelli per mettermi un cerotto. Invece quelli spaventati sono loro, mi guardano preoccupati e con gli occhi allampanati. Tengono in mano le loro ceste, pieni di mazzi di funghi neri, dall'aspetto viscido, con sfumature giallo-marroni, brutti, forse velenosi penso. Io abituato al bianco dei turrini, ho scoperto un posto che non vale neanche la pena di esser raccontato. Chiodini si chiamano, mi dirà poi mio padre, ma non vale la pena di scapicollarsi nel bosco per loro. Figurati farsi prendere a schiaffi penso io, mentre mia madre mi taglia i capelli in un' areola francescana.

A questo ho pensato venerdì scorso quando in una frutteria sotto casa vendevano cassette di questi funghi, ma ho anche pensato che forse con un paio di carciofi, che se ne stavano lì vicino potevo fare una:

Tagliatella con chiodini, guanciale e crema di carciofi



Ho pulito i chiodini, lavati e poi sbollentati per 3 minuti in acqua aromatizzata di alloro, aglio e rosmarino. Li ho scolati e lasciati asciugare su di un panno di cotone. Ho preparato delle tagliatelle tirando la sfoglia a mano, giusto per non perdere l'allenamento. Ho pulito e stufato quattro carciofi tenendo da parte, i fondi, li ho prima rosolati in olio evo con uno spicchio di aglio, che ho poi eliminato (ma se piace lasciatelo). Quando i carciofi sono risultati ben cotti li ho passati al mixer, aggiungendo poi un poco di grana e un poco di latte fino ad ottenere una consistenza cremosa, ho tenuto la salsa da parte. All'ultimo momento ho rosolato del guanciale fatto a fiammifero, in una padella con poco olio evo, ho aggiunto i fondi dei carciofi e i chiodini saltando a fuoco vivo. Ho lessato le tagliatelle le ho scolate al dente, lasciando terminare la cottura e mantecando nella padella con i funghi. Ho servito accompagnando con la crema di carciofi.

18 novembre 2008

Vita da blogger... o quasi

Per niente facile darsi del blogger. Nel senso che ho smesso da sempre, di definirmi tale. Potrei quasi dire di non aver mai cominciato. Non fosse stato per quella volta che, alla domanda rivoltami da un, poco esperto di rete, circa le mie passioni, risposi con un convinto e sincero: “Ho un blog”. Mi ritrovai ad osservare il suo sguardo incuriosito e preoccupato mentre cercava l’evidenza di tanto male. Come se “il blog” potesse avere le sembianze di un angioma sbucante da sotto le vesti. Esame che terminò con lo sguardo posato in mezzo alle mie gambe. A poco valse la precisazione: sono un blogger. Se possibile peggiorò la situazione. Continuai: un food blogger. Il dramma fu quella leggera salivazione, data da un primo sorso di prosecco, di cui tenevo ancora il bicchiere in mano, senza accompagnarlo a sostanziale cibo, che mi fece pronunciare “food”, ma che si capì FUTT.
“Bé sai al giorno d'oggi non ci si fa più tanto caso a queste cose. Magari una volta ci si scandalizzava. Ma oggi si è un po’ più moderni. Scusa sai, ma adesso devo tornare di là.”
Da quella volta, quindi, non ne faccio più vanto con nessuno. E se qualcuno, aldifuori della rete, viene a sapere del mio blog, è solo perché sono altri a pubblicizzarlo. Sarà dunque stato questo incipit nella mia carriera di blogger, a rovinarmi sul nascere ma credo, di essere un blogger sui generis.
Innanzitutto bloggo in un mondo fatto, piacevolmente, da donne. I pochi maschietti presenti, sono tutti del settore: chef o giornalisti. Forse fuori dal coro siamo in due.. anzi tre. Poi mi mancano alcune specifiche tipiche del “blogger incallito”: non ho mai partecipato ad una cena tra blogger o peggio ancora, mai ad un bar-camp,o altri raduni simili, non saprei neanche se portarmi il pc o meno. Ho provato a twittare ma poi mi scordo di farlo. Ho un account su Facebook, enorme mangiatempo, ma fondamentalmente non mi si caga nessuno. Girovago, notte tempo, tra i “colleghi” di rete, ma raramente lascio commenti, ma la stessa cosa accadrebbe di persona, tendo a parlare pochissimo, almeno all'inizio. Non faccio i meme e non do premi, ma ringrazio quando mi vengono dati. No forse per l’ultimo premio non ho detto grazie, ma ero in Cina e il collegamento faceva pena: ringrazio ora. Non ho animali domestici, da fotografare, se si escludono un riccio e i rospi che ogni tanto popolano il giardino di casa. Non faccio niente di più se non il semplice pubblicare, per allargare la popolarità della colica, e si vede. Non parlo di politica, semplicemente perché andrei fuori tema, anche se farebbe tanta audience; ma di piatti mediocri è piene la rete. Non entro in polemiche pro-contatore e non lancio strami polemici ne pro, ne contro i vini bevuti al G20.
Cucino come ho sempre fatto, prima del blog, e come continuerò a fare dopo il blog. A volte fotografo quello che mangio, ci metto una storia e pubblico tutto. A volte nasce prima il piatto e poi la memoria ci lega una storia, a volte è il contrario. Quando non ho nulla da dire (scrivere): taccio. Quando cucino cose che non meritano di essere pubblicate: taccio.
Anche domenica è successa una cosa simile, c’era della guancia di vitello, ma mancava un po’ di ricotta per meglio amalgamarla in un tortello decente. C'era anche del Montasio mezzano e fin qui poteva anche starci, ma poi un crema di radicchio trevigiano ha spezzato un equilibrio già abbastanza precario. La composizione del piatto era ridicola, per non dire peggio, e dopo un paio di foto ho dato forfait. Lui se ne stava lì ad osservare la scena, affamato e acuto osservatore del mondo che lo circonda. E’ bastato dirgli: “mangia” e la bestemmia culinar-estetica è sparita in un amen.

Il mio piccolo "spazzino"





12 novembre 2008

Me lo avessi chiesto

Me lo avessi chiesto, che so, tipo una quarantina di anni fa , ti avrei detto non lo sapevo. Sapevo solo che verso la fine di giugno, quando le scuole ci lasciavano in vacanza, sbocciavano su tutti i davanzali del paese. Chi ne aveva uno solo grandissimo, chi molti piccoli. Fermavo le mie corse di bambino, per osservarne l'evoluzione. Bianchi di cristalli di zucchero se erano appena stati messi al sole. Sciropposi di liquido rosso quando era ora di portarli in cantina.
Se me lo chiedi ora ti dico, che non mi ricordo di un orto marchigiano, che non abbia una pianta di visciole. Dicono i vecchi che alla visciola non devi fargli nulla, non la devi potare, non devi trattarla, alla più brutta se la lasci maturare troppo ti si inverminisce. Le raccoglievamo rosse e croccanti, con la cura con cui tratteresti un neonato. Guai a schiacciarla, guai a romperla, guai a farne uscire il succo. Spesso l'irruenza del bambino veniva allontanata con un deciso "Lascia perde, che le rovini". Per poi rifare "le paci" con una manciata di visciole e un'arruffata di capelli.
Venivano lavate e lasciate asciugare: una distesa rubini sul bianco dei canovacci di cotone. Una cura che costringeva, a volte, la famiglia ad un pranzo frugale. Ché le visciole, temporanee inquiline del tavolo della cucina, non sono ancora asciutte. Poi il rito di riempire i barattoli di vetro, grandi, oggi introvabili. Strati di visciole e strati di zucchero. Che il sole, di luglio e di agosto, cuocevano per quaranta giorni, in cui una pioggia, o un temporale estivo, poteva rovinare tutto.
Guardavo quei barattoli passare di giorno in giorno, dal bianco zuccherino al rosso dello sciroppo. Bramavo il momento del giorno in cui venivano capovolti: una, due volte. E godevo nel vedere quel succo bagnare anche i frutti che più in alto restavano asciutti per gran parte del giorno.

Il tempo delle visciole, scandiva quello delle mie vacanze. Correvo per il paese con questa presenza continua esposta sui davanzali. Ma quando i barattoli cominciavano a sparire, destinati alle cantine, capivo che l'estate stava finendo, e con lei il tempo del gioco. Di lì a poco la scuola ci avrebbe radunati tutti in un'unica vociante piazza. Avrei rivisto quei barattoli, nelle brevi sortite in cantina, alla ricerca di qualcosa che serviva a mia madre. Non avrei capito, nel buio delle luci asfittiche, cosa stesse accadendo lì dentro. Avrei atteso la festa dei santi, per averne, centellinate come una medicina, poche sfere in una coppetta di vetro. Le avrei messe in bocca, eliminando l'osso, con pochi movimenti precisi. Ne avrei succhiato la consistenza sciropposa, e sarei rimasto deluso per quel velo di succo che il cucchiaino non sarebbe mai stato capace di raccogliere.
Me lo avessi chiesto, che so, tipo una quarantina di anni fa , ti avrei detto che questo era il solo modo di consumarle. Se me lo chiedi oggi ti dico che puoi anche farci una:

Crostata di confettura di visciole e salsa inglese allo sciroppo di visciole.




Per la frolla della crostata, sempre qui. L'ho stesa in una teglia, bucherellata e cosparsa di una confettura di visciole comperata a Cantiano, dove questo frutto è stato riscoperto. Ho coperto poi con un crema di ricotta: ho battutto due rossi d'uovo con due cucchiai di zucchero e ho incorporato 250gr di ricotta. Ho infornato a 180° per 40 minuti.
Per la salsa: 2 tuorli battuti con 50 gr di zucchero a cui vanno incorporati 125 gr di latte portato a bollore. Ho continuato a cuocere la salsa a bagnomaria finché non è diventa liscia e lucida. Ho poi aggiunto un quantità indefinita di sciroppo di visciole.



Se proprio non trovate le visciole, cosa abbastanza probabile a meno che non capitate qui a Cantiano. Potete sempre utilizzare le amarene, anche quelle più famose, e pazienza.


05 novembre 2008

La consapevolezza del dubbio

E’ onestamente un paese complesso quello in cui sono. Un paese che corre verso un futuro, senza la consapevolezza di esso. Un po’ come andare al cinema senza sapere il titolo del film. E’ un paese che non sente ragioni, che deve recuperare un tempo perduto, tra l’altro per colpa degli stessi che oggi hanno deciso di recuperarlo. Un paese che prima ha celebrato la sua “rivo luzione cultura le” e che ora si è inginocchiato davanti al grande buddha che è il denaro e il capitalismo. Un paese che, giustamente, non vuole essere da meno rispetto ai modelli di riferimento assoluti e occidentali. Un paese che corre ad una velocità inimmaginabile, dai nostri salotti illuminati di cazzate azzurrine. Corre verso un futuro che non sente ragioni che costruisce fabbriche dove prima c’erano allevamenti di pesce, una ferrovia che per centinaia e centinaia di chilometri attraverserà il paese sopra le città, i fiumi le genti. Un paese che le cronache raccontano intento a comperare terra in Africa per coltivare quello che qui non possono più, in un altro grande balzo in avanti, mondiale.
Un paese così vero, da sembrare finto.
Un paese che copia, rifà e vende. E così, mentre i “novichino” vestono gucci, prada, tods, gli altri fanno la stessa cosa, comprando i falsi al mercato di Mongkok. E allora il vero convive con il finto in un melangé impossibile da riconoscere. Son finte le scarpe, son finte le borse, ma è finta anche
l’acqua che ti fanno bere: distillata. E’ finta la frutta perché quello che riconosci visivamente non lo riesci a riconoscere al gusto. E’ finta l’aria, perché se fuori ci sono trenta gradi e il settantanove percento di umidità, in ogni albergo, ufficio e ristorante ce ne sono quindici di meno e ti si secca la gola. E’ talmente finto questo paese, che la carne Giapponese può costare duecentossesanta euro al chilo e trovare anche un florido mercato. E’ talmente finto questo paese, che lo spettacolo di maggior successo sono le luci scintillanti e bruciarisorse dei grattacieli dell’isola.
E’ finto per tutto ciò che di finto ci raccontano o che immaginiamo di questo paese.
Speriamo solo che rimanga vero il cibo e le cose che mangio, aldilà dei sapori.







Ah, i piatti sopra, chiaramente, sono assolutamente finti, fatti di silicone e dipinti a mano. Opere d’arte mi verrebbe da dire. Sono una sorta di menù visivo, che i fast food appena evoluti, espongono nelle loro vetrine, giusto per consentire di scegliere con maggiore consapevolezza.

03 novembre 2008

Kowloon italian restaurant (veri cul)

Just a corner pleasing to the eye

Per quello che c'è da magnà, va bè anche questo.



The "raw material" of excellence

Me sa che c'avemo da contetasse. E 'l parmegià? Si ho trovato, na cosa che iarsomia n'tantinello ma giusto appena


of course, the pasta couldn't come without a "melamina sottiletta" up to it

te pio 'ncorpo ma nè che ce famo male, no?!



The kitchen


ma jafamo a falla funzionà sta machina del diaolo ?!




Our special course and great mise en place

Oh ! A me no me se scioje sta sutiletta, possa piaje n'corpo !!
Sta zitto e magna !





"Altissimoceto" for Kowloon despairing restaurant

Che dici ?! Ma vammorì mazzato !




A parte i ristoranti italiani l'altro modo di farsi la pasta, per la pausa pranzo, credo sia solo questo.