Una guluppa di moscato
Ha il profumo giallo delle mele in soffitta. Quello bianco argento delle prime fredde mattine. Quello azzurro dei mezzogiorni caldi di sole. Quello grigio verde del mosto appena spremuto. Quello verde marrone della terra bagnata.
Chiudo gli occhi e c'è un ragazzino che trotterella per i campi a fianco del padre. Da piccolo mi portava a caccia, o forse perchè lo prendevo per sfinimento non poteva farne a meno. Oggi sò quale fosse la differenza: nel primo caso camminavamo nei campi di erba medica ormai tagliata. Nel secondo attraversavamo campi lunghissimi, gonfi di enormi zolle arate. Ne uscivo con un mal di mare incipiente e le gambe indolenzite, dal continuo saliescendi tra un solco e l'altro. Lui mi aspettava in fondo al campo, la sigaretta accesa, chiedeva se fossi stanco. No perchè ? Ci mancherebbe ! Allora via, dentro alla prossima messe fino in fondo al fosso. Lui da un lato, sul prato io dall'altro in mezzo alla terra. Mezzo metro di fango sotto gli stivali, che se aveva piovuto da poco ti rimanevano infilati nel solco. Lo anticipavo, per far scappar via merle, nascoste nella macchia.
La caccia era sempre relativamente scarsa, ricca però di racconti di tempi passati in cui, sì che quella volta si "sparava". Imbruniva, piccoli voli sparuti passavano veloci, e poco interessanti per lo schippo, sopra le nostre teste. Capitava a volte di attraversare una vigna ancora carica di grappoli. Il buio imminente ci era alleato in quel furto di poca cosa. "Spizzicavo" i grappoli mentre passavo. Acini minuscoli che non mi davano piacere, al contrario dei commenti di mio padre: senti come è dolce 'sto moscato. Continuavo a cercare i grappoli di moscato e ingollavo uva acerba e spigolosa. Me ne lamentavo, piagnucoloso: ma dov'è 'sto moscato? Levati la giacca. A pochi metri dalla fine del filare e dall'agognata strada, cinque o sei grappoli finivano nella giacca chiusa a mò di guluppa. Profumavano di zucchero e appiccicavano le mani, mi "rifacevo" la bocca con una generosa manciata. E mentre strisciavo gli stivali sulla strada, a pulire il mezzo metro di fango, il succo mi colava sul mento e sulla camicia.
A casa quel furto diventava la frutta di un paio di giorni. A volte, invece, spariva per riapparire sotto forma di:
Maritozzi di mosto
(questi li ha fatti Renata)
preparate il mosto dalla spremitura di un uva moscato o di un altra uva tendente al dolce. Usatene quanto ne richiede l'impasto. Fate una fontana con un chilo di farina (metà 00 e metà manitoba). Sciogliete un etto di lievito di birra in una tazza di mosto, battete 3 uova con 200 gr di zucchero incorporate alla farina e aggiungete 150 grammi di olio di oliva buono. Aggiungete all'impasto 30 gr. semi di anice e 100 gr di uvetta sultanina, entrambi ammollati nel mosto. L'impasto deve risultare morbido e appiccicoso, usate il mosto per regolare la consistenza. Lasciate lievitare l'intera massa per 2 ore. Poi formate dei panetti (biscotti) allungati e lasciate lievitare per altre 2 ore. Spennellate con l'uovo, cospargete di zuccherro e infornate a 140°. Cuocete fin che la superficie prende un colore marrone brillante (30 min.). Se ci riuscite lasciateli raffreddare.
Due consigli per mangiarli, oltre il classico modo al naturale nel caffè latte la mattina.
A fettine seccati al forno e inzuppati (pucciati) in un vin santo, magari l' "Occhio di pernice" di Avignonesi (e crepi l'avarizia), oppure votarsi alla distruzione morale del proprio ego naturista: aprendoli e spalmandoli di Nutella.
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