Come la terra
Il cortile è disordinatamente deserto, i segni che un tempo annunciavano la presenza dell’uomo, sono tutti spariti. Non ci sono galline a razzolare per l’ aia, dalla stalla non arriva nessun muggito, la porta del fienile, sbarrata, non lascia troppe speranze. Anche l’erba si sta riappropriando di posti che non le erano mai appartenuti, in gara con la ruggine a chi per primo nasconderà per sempre i vecchi attrezzi abbandonati. Una vecchia vespa bianca se ne sta appoggiata al tronco di un sambuco, ciuffi di gommapiuma si affacciano liberi dalla stretta del sedile strappato, il parabrezza ha così tanti graffi che guardarci attraverso è quasi impossibile, ad uno sguardo distratto apparirebbe come uno dei tanti pezzi abbandonati in questo cortile, ad uno sguardo distratto. Ma quella vespa è l’unico segno della sua presenza in quel luogo. Per sicurezza mi avvicino ed osservo il manubrio in cerca della modernità che ricordo in quel mezzo; un telecomando per cancelli è inchiodato sulla parte destra del manubrio, raggiungibile da chi guida con il semplice spostamento del pollice destro.
Grido, chiamo quel nome brevissimo, le due sillabe del suo nomignolo riecheggiano nel fresco dell’alba: “Ciccio, Ciccio.”
Allungo la “o” finale nella speranza che riesca a raggiungere la sua sordità in una delle stalle della vecchia tenuta. Mentre lo cerco con lo sguardo provo a ricordarne il nome, quello vero. Ma non mi viene, mi vengono quello del fratello, della moglie, del figlio, ma il vero nome di Ciccio non mi ritorna in mente.
Appare da dietro l’angolo della casa, il suo enorme ventre è oramai sparito gli occhi una fessura, i baffi appena ingrigiti si riconoscono a fatica in quel viso scuro, scottato dal sole dei campi. Alto, robusto, le spalle ancora diritti porta l’inseparabile berretta, a coprire i cappelli lucidi e neri, una camicia di flanella, una maglia di lana rattoppata in più punti, un pantalone nero da lavoro e un paio di sandali. L’ho sempre visto vestito così, estate, inverno, caldo, freddo. Fatica a riconoscermi stringe ancora gli occhi per mettere a fuoco l’immagine del tizio che ha di fronte, capelli corti brizzolati, un pizzo che incornicia la bocca passando dal nero dei baffi al bianco della barba. Faccio un passo avanti e lo saluto con una battuta sui tempi in cui quell’aia era piena di gente e di bambini. La voce, mi fa riconoscere, ridono prima gli occhi, mai la bocca, la sua felicità si esprime in altro modo. La prima parola che gli esce è una bestemmia, sonora e cristallina, ma non cattiva, Ciccio non bestemmia per offendere, per lui la bestemmia è l’intercalare normale della conversazione. Potrebbe dire, “cioè”, oppure “per esempio no” o “magari”, “quindi” ma lui preferisce la bestemmia, più varia meno monotona, e prima di chiedermi “come stai?” riesce a citare altre due particolari situazioni in cui santi e madonne vengono immaginate da quest’uomo, che sembra un pezzo di terra. Sembra una di quelle grosse pietre di arenaria che i contadini scoprono arando i campi. Non mi abbraccia, non mi da la mano, non mi tocca, la sua mano destra comincia a eccitarsi in uno sfregamento tra pollice e resto delle dita che sembra quasi lo scodinzolare di un cane felice. E mentre il suo personale e blasfemo rosario, si sgrana nella mattina marchigiana, mi chiede di mio padre, della famiglia, mi dice di aver visto mio fratello passare di là un paio di giorni prima, e cammina e bestemmia e parla di cilindri, e mentre cammina il suo parlare mi risucchia, mi porta con sé. Lo seguo, mi viene da pensare, come in un’assurda processione, fatta da due sole persone, dove al posto del prete c’è lui, che fa domande e io da dietro che rispondo, e andiamo verso quel posto dove Ciccio riceve i suoi ospiti.
La differenza di temperatura mi accoglie come un segno indelebile di un tempo che qui non è passato mai. L’odore di muffa, le vecchie botti allineate lungo la parete, il pavimento fatto di terra pressata, un paio di secchi pieni di acqua e ghiande ad ammollare, segno che almeno un maiale c’è ancora. Ciccio va diritto verso il bicchiere appoggiato sul lavandino: un vecchio bicchiere da osteria, un cilindro di vetro consunto e lattiginoso. Lo lava con uno sciacquo veloce sotto un filo sottile di acqua, lo avvicina ad una botte e spilla un bicchiere raso di liquido di un giallo carico con sfumature verdoline, tutte definizioni che non troverebbero spiegazione nel suo vocabolario. Prendo il bicchiere dalla mano di Ciccio e subito riconosco il forte odore di solfiti, bisolfito come si dice da queste parti, che serve a far sì che le uve di questa terra possono restare vino fino alla fine della stagione. L’odore è solo il preannunciarsi del resto, immagino questi duecento centilitri, almeno, finirmi nello stomaco, di mattina presto quasi a digiuno, non fosse per quel solitario caffè che non ha ancora preso confidenza con i miei succhi gastrici. Sento quell’acido entrarmi in bocca, raschiare lungo l’esofago e bruciare con rabbia la mucosa, per poi ritornare in gola con un disperato su e giù che potrebbe durare un giorno intero.
E’ un attimo Ciccio si volta per mettere a posto alcune bottiglie e il secchio d’acqua dove le ghiande sono a macerare raccoglie quel bicchiere di “veleno” per noi (a)normali bevitori. Schiocco la lingua con soddisfazione simulando la fine di una tracannata tuttadunfiato, la testa reclinata a guardare il soffitto coperto da uno strato di muffa bianca. Passo il bicchiere, e ringrazio.
Guardo quegli occhi che la penombra della cantina han fatto aprire, sembrano due piccoli pezzi di vetro lucente, due piccole luci che mi guardano fisso, prima i miei occhi e poi il secchio delle ghiande. “Ormai non lo beve più nessuno questo vino.” Fa lui. “Una volta ne vendevo quintali e quintali, una volta ammazzavamo anche venti maiali a Natale, ti ricordi? C’avevamo sempre sei o sette vitelli, le capre, le pecore, ti ricordi quando venivi a prendere la ricotta? E le forme di pecorino, messe a maturare nella stanza di sopra? I polli i gallinacci, una trentina all’anno li lasciavo nel campo qui sotto, e la sera li chiudevo nello stalletto, e poi le galline, le faraone, e gli ovi che c’avevamo, toccava buttalli via."
Lo guardo, la mano destra adesso è ferma, il pollice non sfrega più contro le altre dita, Le spalle sembrano piegate sotto il peso di questo soffitto. Prende la berretta con la punta delle dita e si passa il palmo della mano sul viso, ed è come se un mimo giocasse col suo cappello in un palcoscenico improvvisato, senza proscenio, senza luci, con un solo spettatore. “Non è per i soldi” Mi dice. “Ma è pe la gente, non viene più nessuno a discorre, a parlà, non interessa più a nessuno della campagna den vecchio contadino”.
Lo vedo nello specchietto retrovisore mentre mi guarda andarmene, se ne sta lì vicino al vecchio sambuco, e alla sua vecchia vespa, gli occhi stretti in due fessure, il baffo irriconoscibile sul viso cotto dal sole. Mi porto via alcune cose, altre restano lì, magari a casa rifaccio:
La faraona come la voleva Ciccio
Ho preso una faraona che basta per quattro persone, magari anche per sei, se non si esagera. L'ho disossata, salata e pepata, A parte go aggiunto alle sue interiora una salsiccia sminuzzata e un cento grammi di petto di pollo macinato, ne ho fatto un piccolo impasto insaporito anche questo con cui ho farcito la faraona. Ho preparato due uova di frittata, salate e in saporite con tutte le erbe che ho trovato nel mio giardino: mentuccia, origano fresco, salvia, rosmarino, basilico e altre che non ricordo. Anche la frittata è andata a costituire la farcia del pennuto che ho bene legato in una forma di "rotolo". L'ho rosolato in olio evo, e pancetta fresca a fuoco vivo, sfumato con vino bianco e infornato per 50 minuti a 170°. Ho servito tiepido, e accompagnato con bietole ed erbe di campo che ho trovato nei campi di Ciccio.
Grido, chiamo quel nome brevissimo, le due sillabe del suo nomignolo riecheggiano nel fresco dell’alba: “Ciccio, Ciccio.”
Allungo la “o” finale nella speranza che riesca a raggiungere la sua sordità in una delle stalle della vecchia tenuta. Mentre lo cerco con lo sguardo provo a ricordarne il nome, quello vero. Ma non mi viene, mi vengono quello del fratello, della moglie, del figlio, ma il vero nome di Ciccio non mi ritorna in mente.
Appare da dietro l’angolo della casa, il suo enorme ventre è oramai sparito gli occhi una fessura, i baffi appena ingrigiti si riconoscono a fatica in quel viso scuro, scottato dal sole dei campi. Alto, robusto, le spalle ancora diritti porta l’inseparabile berretta, a coprire i cappelli lucidi e neri, una camicia di flanella, una maglia di lana rattoppata in più punti, un pantalone nero da lavoro e un paio di sandali. L’ho sempre visto vestito così, estate, inverno, caldo, freddo. Fatica a riconoscermi stringe ancora gli occhi per mettere a fuoco l’immagine del tizio che ha di fronte, capelli corti brizzolati, un pizzo che incornicia la bocca passando dal nero dei baffi al bianco della barba. Faccio un passo avanti e lo saluto con una battuta sui tempi in cui quell’aia era piena di gente e di bambini. La voce, mi fa riconoscere, ridono prima gli occhi, mai la bocca, la sua felicità si esprime in altro modo. La prima parola che gli esce è una bestemmia, sonora e cristallina, ma non cattiva, Ciccio non bestemmia per offendere, per lui la bestemmia è l’intercalare normale della conversazione. Potrebbe dire, “cioè”, oppure “per esempio no” o “magari”, “quindi” ma lui preferisce la bestemmia, più varia meno monotona, e prima di chiedermi “come stai?” riesce a citare altre due particolari situazioni in cui santi e madonne vengono immaginate da quest’uomo, che sembra un pezzo di terra. Sembra una di quelle grosse pietre di arenaria che i contadini scoprono arando i campi. Non mi abbraccia, non mi da la mano, non mi tocca, la sua mano destra comincia a eccitarsi in uno sfregamento tra pollice e resto delle dita che sembra quasi lo scodinzolare di un cane felice. E mentre il suo personale e blasfemo rosario, si sgrana nella mattina marchigiana, mi chiede di mio padre, della famiglia, mi dice di aver visto mio fratello passare di là un paio di giorni prima, e cammina e bestemmia e parla di cilindri, e mentre cammina il suo parlare mi risucchia, mi porta con sé. Lo seguo, mi viene da pensare, come in un’assurda processione, fatta da due sole persone, dove al posto del prete c’è lui, che fa domande e io da dietro che rispondo, e andiamo verso quel posto dove Ciccio riceve i suoi ospiti.
La differenza di temperatura mi accoglie come un segno indelebile di un tempo che qui non è passato mai. L’odore di muffa, le vecchie botti allineate lungo la parete, il pavimento fatto di terra pressata, un paio di secchi pieni di acqua e ghiande ad ammollare, segno che almeno un maiale c’è ancora. Ciccio va diritto verso il bicchiere appoggiato sul lavandino: un vecchio bicchiere da osteria, un cilindro di vetro consunto e lattiginoso. Lo lava con uno sciacquo veloce sotto un filo sottile di acqua, lo avvicina ad una botte e spilla un bicchiere raso di liquido di un giallo carico con sfumature verdoline, tutte definizioni che non troverebbero spiegazione nel suo vocabolario. Prendo il bicchiere dalla mano di Ciccio e subito riconosco il forte odore di solfiti, bisolfito come si dice da queste parti, che serve a far sì che le uve di questa terra possono restare vino fino alla fine della stagione. L’odore è solo il preannunciarsi del resto, immagino questi duecento centilitri, almeno, finirmi nello stomaco, di mattina presto quasi a digiuno, non fosse per quel solitario caffè che non ha ancora preso confidenza con i miei succhi gastrici. Sento quell’acido entrarmi in bocca, raschiare lungo l’esofago e bruciare con rabbia la mucosa, per poi ritornare in gola con un disperato su e giù che potrebbe durare un giorno intero.
E’ un attimo Ciccio si volta per mettere a posto alcune bottiglie e il secchio d’acqua dove le ghiande sono a macerare raccoglie quel bicchiere di “veleno” per noi (a)normali bevitori. Schiocco la lingua con soddisfazione simulando la fine di una tracannata tuttadunfiato, la testa reclinata a guardare il soffitto coperto da uno strato di muffa bianca. Passo il bicchiere, e ringrazio.
Guardo quegli occhi che la penombra della cantina han fatto aprire, sembrano due piccoli pezzi di vetro lucente, due piccole luci che mi guardano fisso, prima i miei occhi e poi il secchio delle ghiande. “Ormai non lo beve più nessuno questo vino.” Fa lui. “Una volta ne vendevo quintali e quintali, una volta ammazzavamo anche venti maiali a Natale, ti ricordi? C’avevamo sempre sei o sette vitelli, le capre, le pecore, ti ricordi quando venivi a prendere la ricotta? E le forme di pecorino, messe a maturare nella stanza di sopra? I polli i gallinacci, una trentina all’anno li lasciavo nel campo qui sotto, e la sera li chiudevo nello stalletto, e poi le galline, le faraone, e gli ovi che c’avevamo, toccava buttalli via."
Lo guardo, la mano destra adesso è ferma, il pollice non sfrega più contro le altre dita, Le spalle sembrano piegate sotto il peso di questo soffitto. Prende la berretta con la punta delle dita e si passa il palmo della mano sul viso, ed è come se un mimo giocasse col suo cappello in un palcoscenico improvvisato, senza proscenio, senza luci, con un solo spettatore. “Non è per i soldi” Mi dice. “Ma è pe la gente, non viene più nessuno a discorre, a parlà, non interessa più a nessuno della campagna den vecchio contadino”.
Lo vedo nello specchietto retrovisore mentre mi guarda andarmene, se ne sta lì vicino al vecchio sambuco, e alla sua vecchia vespa, gli occhi stretti in due fessure, il baffo irriconoscibile sul viso cotto dal sole. Mi porto via alcune cose, altre restano lì, magari a casa rifaccio:
La faraona come la voleva Ciccio
Ho preso una faraona che basta per quattro persone, magari anche per sei, se non si esagera. L'ho disossata, salata e pepata, A parte go aggiunto alle sue interiora una salsiccia sminuzzata e un cento grammi di petto di pollo macinato, ne ho fatto un piccolo impasto insaporito anche questo con cui ho farcito la faraona. Ho preparato due uova di frittata, salate e in saporite con tutte le erbe che ho trovato nel mio giardino: mentuccia, origano fresco, salvia, rosmarino, basilico e altre che non ricordo. Anche la frittata è andata a costituire la farcia del pennuto che ho bene legato in una forma di "rotolo". L'ho rosolato in olio evo, e pancetta fresca a fuoco vivo, sfumato con vino bianco e infornato per 50 minuti a 170°. Ho servito tiepido, e accompagnato con bietole ed erbe di campo che ho trovato nei campi di Ciccio.
16 commenti:
ho scoperto il tuo blog da poco e mi piace moltissimo.
questo post mi ha fatto pensare ai miei vicini di casa in montagna che una volta avevano tante mucche, tanti campi coltivati, tante galline... e adesso sono rimasti con una mucca e qualche pezzetto di orto.
e penso al rito di passare da loro a fare due chiacchiere la sera, e a bere un buon bicchiere di vino... soprattutto quando sono lì penso che quella sarebbe la vita per me, anche se poi mi accorgo che sarei tagliata fuori dal mondo...
Sceneggiatura magistrale, come sempre :-D Non solo sai rendere alla perfezione una scena (quelli col blackberry, ma non tu, ora direbbero "location"), i colori, le atmosfere, le personalità... ma stavolta hai aggiunto quell'intercalare che migliaia di volte ho sentito da mio nonno (era di Matelica ma non bestemmiava... quello lo facevano più uno dei suoi fratelli ed il cognato :-D) e, come se non bastasse, l'odore di muffa della cantina ed il sapore di quel "vino contadino" che tante volte ho bevuto in una cantina, che altro non era se non una grotta dal pavimento di terra calpestata da secoli, umida e "profumata di vero" (ma non nelle Marche: in un paesino della campagna romana, ma tant'è...).
E riecco che, come altre volte che ti ho letto, mi hai fatto tornare quel groppo alla gola che con troppa fatica "tocca" rimandare giù nello stomaco perchè oramai le vecchie cantine del paese sono state riadattate a magazzino, box, negozio e quei contadini non ci sono più (i pochi ancora in vita si trascinano stancamente sulla panchina davanti il tabaccaio per chiacchierare, a fatica, all'ombra di un olmo) mentre i giovani del paese hanno scoperto che fare il carpentiere o l'imbianchino rende più che zappare la terra...
sarebbe un fumetto bellissimo !!! ti giuro che le prime quattro-cinque righe si son trasformate per me in una sequenza di disegni bellissimi.
Bé allora benvenuta @Giorgia
@Jajo Aaaah ma allora qualcosa ti lega a quella terra marchigiana che tanto racconto ! Un groppo in gola !? Addirittura. E' vero la terra non paga, ma bisogna ritornare a Lei. Se non lo facciamo è la nostra fine.
@Luc... bè allora facceli vedere ! :))) stammi bene !
Loste
Io ho rivisto in quelle prime righe la fattoria di amici che frequentavo tanti anni fa ad Artena, vicino Anagni :-D
Si Marco: mio nonno materno era di Matelica e mia nonna di Pescara del Tronto (le sue cugine di Ascoli Piceno): ho una buona parte di sangue "marchiciano" nelle vene :-D
Comunque tu racconti non tanto la terra marchigiana quanto la terra contadina, quella dei valori, delle piccole cose, dei profumi, dei sapori, dei sentimenti..... Roba scomparsa da millenni qui in città..... :-(
P.S.: giuro che il groppo in gola l'ho avuto questa volta (come quando hai descritto la cucina di nonna o i granelli di polvere che danzavano in una lama di sole del primo pomeriggio....)
ci sono tanti posti, tante persone così, in certa campagna di collina o bassa montagna. altrove, aziende agricole che sembrano industrie...
bellissimo ritratto di un mondo al tramonto, il tuo...
Quando hai la fortuna (io) di essere in contatto con chi (loste) può risvegliare ciò che hai vissuto visto sfiorato non si può chiedere molto di più....sono fortunato !!!!!!!
Ciao GRANDE !!!!!!!!!!
Vabé @Jajio butta giù sto groppo. Quindi una bel giro d'Italia parentale è ? :)
Immagino @Marzia che tu di personaggi così ne incontrerai ogni giorno... anche se Ciccio è unico ;)
Vabbé sti @anonimi che mi vivon vicini :))) e che non capisci chi sono, che poi ti vien curiosità di brutto, e stai lì che pensi tutto il giorno, e quello dopo , e quello dopo ancora, per poi scoprire che mio fratello. Sei mio fratello? ;)
Loste
Mi riporti a quand'ero bambino e dalla città andavo con mia mamma "in campagna" a trovare la nonna e gli zii, la sofferenza di dover bere quel vino spillato dalla botte e con il fiore in superficie.
sì, ciascuno di loro è unico...
Sono appena tornata da un luogo in cui le vacche pascolano libere per i campi, dove la natura è dura e gli uomini fanno ancora i contadini e gli allevatori "come una volta". E' stato emozionante, ma lascia una strana sensazione di perdita...
Grazie per questo altro bel racconto
Un saluto
c'è un premio x te nel mio blog!
Scusami tanto non mi ero reso conto di non aver firmato......
Carb65 (ma perchè mi chiamo così???)
Un abbraccio
Sei il blog che preferisco.
Cucina e umanità. Grazie.
Ste-
Un commento a distanza di 5 anni? Magari non lo leggerai mai, ma è importante per me, adesso, dirti la commozione e il piacere con cui ho navigato nei tuoi ricordi e li ho intrecciati ai miei. Quello che mi rattrista è che già mia figlia non sarebbe in grado di tradurre le tue parole in sentimenti. Stiamo perdendo qualcosa, tutti quanti. Antonella
Che non ti legga @Antonella non ci sperare, magari con una settimana di ritardo, ma leggo chi legge quello che scrissi... Grazie è sempre un piacere sapere che ancora qualcuno si commuove per queste cose. Un caro abbraccio, Marco.
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