28 novembre 2010

Un momento soltanto


Se non qui, se non ora. Se potessi scegliere per un momento, un momento soltanto, non troppo, il minimo per non farmi pentire. Ecco se potessi. Ora vorrei tornare a guardare un sole al tramonto. Mentre si spegne tra il mare e le colline di questa terra.

Se potessi per un solo momento, attraverserei la strada, passerei tra gli ombrelloni ormai chiusi. I passi pesanti sulla ghiaia della spiaggia: “i ssasi”. Arriverei fino alla battigia, là dove si confonde con la linea di scogli. Vicino alla torretta del bagnino, lì, proprio lì, quasi sotto. Mi siederei sul lettino chiuso. Il tramonto alle spalle, il vento che strappa le lacrime agli occhi, le onde. Le onde più sotto che si rincorrono fin contro gli scogli, i loro spruzzi salati, nel tepore di un giorno che muore, nel fresco di una sera che arriva.
Mi perderei tra il rimbombo del mare e il frastuono del vento. Sotto un cielo terso che passa dal rosso, all’arancio fino all’azzurro più evanescente.

Giocherei con i sassi: prima piccoli lanci, timidi tuffi che non lasciano traccia. Poi sempre più grandi, più lontani, in cerca di consapevolezza. Ci giocheresti con me ?
No, non a far la rana. Ché oggi le onde ingoiano sassi, come le rane le mosche. No, solo a lanciarli lontano, un tiro via l’altro, finché il braccio non ti comincerà a dolere, lì dove s’attacca alla spalla. Un tiro via l’altro, a prender la mira nel mare. Il punto dove cade, portato a riva dall’onda. Calcolare la velocità del mare e il tempo dal lancio. Più lontano il mio ! Ma forse il tuo !


Prender la mira con la punta di Ancona, lì tra San Ciriaco e la piattaforma dell’Api. La vedi c’è una nave che aspetta, dritta al mio sasso. Resta immobile nonostante queste onde, che ci fan galleggiare nella sera che arriva. Il sole adesso si è infilato tra le finestre del ristorantino vicino. Gli ruba i colori, e ci porta solo il grigio della sua sagoma indistinta. Lo attraversa come un fuoco che brilla, e strappa le ombre di una coppia che mangia seduta ad un tavolino. Le porta fin qui, quasi vicine al “moscone”.
Lo vedi? Ora fanno un brindisi, lui solleva il bicchiere, lei lo imita, poi pian, piano le ombre si toccano, si confondono, si piegano a baciare il grigio turbinio delle onde e poi tutto si perde, nella bianca spuma del mare.

Il rosso si è spento in un blu pesante come un drappo di velluto. Non c’è più la coppia seduta al tavolino, con il loro brindisi. Il ristorantino è poco più di un ombra. E i sassi, non vedi più dove vanno a cadere. La nave ha acceso le luci, sempre ferma tra la piattaforma e le luccichio del porto. E anche Ancona, adesso, sembra ormeggiata al colle del Guasco, mentre più in là il braccio del faro spazza il cielo il sopra il mare.

Se non qui, se non ora. Se potessi scegliere per un momento, un momento soltanto, non troppo, il minimo per non farmi pentire. Ecco se potessi, ora vorrei tornare su quella spiaggia, a tirar sassi alle navi.

Le cannocchie con gli spaghetti


Cannocchie, pannocchie, cannocce, cicale, sparnocchie.
Chiamatele come vi pare, compratele ancora vive. Pulitele eliminando le zampe e tagliando il bordo del carapace con una forbice, poi apritele delicatamente estraendo la polpa. Mettete a bollire l'acqua salatela e poi lessateci uno spaghetto che abbia consistenza e ruvidezza (un Ma' Kaira alla chitarra è consigliato).


Mentre lo spaghetto si lessa, fate rosolare in poco olio evo uno spicchio di aglio e qualche zesta di buccia di limone. Quando l'aglio comincia a rosolare eliminatelo. Un attimo prima di cavare la pasta al dente mettete le cannocchie sul fuoco, e fatele saltare a fuoco vivo, scolate la pasta e saltatela con le cannocchie, spruzzate con una manciata di prezzemolo tritato e ancora olio a crudo. Impiattate e mangiate, fintanto che non comincia dolervi il braccio lì dove si attacca alla spalla.


Se vuoi veder meglio clicca sulla foto

16 novembre 2010

Minchia !

Buio. Luci. Buio. Visi.
La testa appoggiata al vetro del finestrino. Il riflesso del mio viso che si confonde con quello della gente sulla banchina in attesa, mentre il treno frena, rallenta, e io sfilo davanti a quelle facce distratte. Le porte si allineano, quasi per magia, con quelle della stazione. La voce femminile, ha annunciato il nome della fermata, prima in cinese e poi in inglese, qualcosa tipo "sailcatzoche". L'aria compressa apre le porte. Escono in pochi, salgono in molti. Valige trascinate a forza, sbattono, si incrociano. Valigie da emigrazione. Valige da vacanza. Valigie da viaggio breve. Piccola valigia da due notti. Business luggage, in tacchi a spillo, coordinato trolley ventiquattrore piquadro, in misto pelle di vitellino tirato a lucido, regalo dell'ultimo natale. Si parcheggia accanto al mio trolley: puro pvc color celestino stile "celosoloioelaritrovosubitoallariconsegnabagagli" graffiato, e non griffato, da una mezza vita di giri attorno al mondo. Il set piquadro di pelle tirata a lucido, si scosta leggermente schifato dall' insulsa presenza. Il mio trolley celestino, plastica dozzinale, maniglie consunte, affonda le mani in tasca, e si appoggia al tubo di alluminio in precario equilibrio, mentre il treno riparte dalla stazione "sailcatzoche". Occhiali scuri calati nel buio di questa metro, che corre verso l'aeroporto, stile “bimba non sai con chi hai a che fare”. Armeggia con le rotelle nel tentativo di girarsi verso il coordinato piquadro, mentre il treno, si tuffa veloce in una curva a sinistra, sbuca dalla terra e comincia a correre in mezzo ai palazzi di Lai Chi Kok. La valigia celestina perde l’equilibrio, tenta invano di agganciarsi da qualche parte, ma se tieni le mani in tasca, egli occhiali da sole … con una figura di merda, che “te la raccomando” finisce a terra, pesante come un ubriaco sovrappeso, che sbatte nell’ordine: naso, bocca e denti. Mi alzo e la vado a risollevare per punizione la piazzo faccia al muro, lontana dal coordinato di vitellino piquadro, se sa mai dovessimo pure far danni. Gli assesto una zampata, in quello che dovrebbe essere il suo culo, che la piazza in linea perfetta con la parete del treno.

Torno al mio posto ora occupato da una coppia che mi osserva felice, sguardo ebete idiota stile: “che ci stava seduto lei qui ?”. Mi seggo dall’altra parte del corridoio, al loro fianco, unica possibilità. La coppia continua ad osservarmi, si scambiano sorrisini e battute, che non sento a causa di Zaz che mi canta nelle cuffie. Ma con la coda dell’occhio vedo i loro movimenti, tra il curioso e l’agitato. Il visetto di lei, seduta vicino al finestrino, che si affaccia sulla spalla di lui. Lui ha un’aria da “tranquilla è tutto sotto controllo”. Marsupio, telefono alla cintura, la stampa dei biglietti del volo nel taschino della camicia, insieme alla penna parker. Lei a l’aria tipo “scusa ma dove siamo”, magliettina Kelvinclain, jeans strappati al ginocchio destro e alla coscia sinistra, nike penultima moda e zainetto… Invicta ! Potrei vincere la lotteria nel riconoscere noi italiani dallo zainetto invicta in giro per il mondo. La bocca di lui si muove, guarda verso di me. Lo guardo. Zaz canta: “Moi aussi j'ai une fée chez moi ….”. Non sento. Lui aspetta una risposta di una presumibile domanda che mi ha fatto e che io non ho sentito, lei di più. Sfilo le cuffie. Questa me la paghi !
“Sorry !?” Mi mastico la prima erre e sputo la seconda con indifferenza. Ora hanno qualche dubbio di più. Non ho mica lo zainetto invicta, eppure sembrava italiano, ma non ha mandato a cagare la valigia in italiano quando l’ha presa a calci ? Boh chissà. Intanto non mollo lo sguardo mentre loro si stanno consultando, e lei diventa tutta rossa: mamma mia che figura.
“Aiutino da casa ?!” Faccio con l’espressione più indifferente che riesco a sparar fuori. Neanche le labbra muovo.
“Aah ma allora è italianoooo !!!”
Perspicace ! Un fulmine ! Quasi avanti direi !
“Tse… Siculo sono ! Di Corleone! “ Rimetto le cuffiette. La “r” di Corleone non si è quasi sentita, strisciata molto meglio di quella del “sorry” di prima. Rimetto Zaz dall’inizio. Minchia siciliano vero sembravo. Mancava solo un bel piatto di … Merdé avercelo adesso un piatto di caponata come dio comanda. Ecco ora mi si pianta anche la voglia. Questa te la farei proprio pagare, tutto il viaggio di rientro con la voglia di caponata. Te la farei proprio pagare se potessi.

Una caponata


Io la faccio così: pulisco e taglio a cubetti 1 kg di melanzane, le lascio perdere la loro acqua per una ventina di minuti salandole appena. Nel frattempo pulisco e taglio a julienne 500 gr di cuori di sedano che poi lascio appassire in padella con olio evo senza farli soffriggere. Metto da parte e poi nella stessa padella faccio sudare in olio evo due cipolle affettate, una volta che sono appassite aggiungo una manciata di capperi dissalati e altrettanto di pinoli, per i puristi direi 60 gr ciascuno, aggiungo poi una quantità di olive verdi (ascolana) e nere (taggiasche) che potrebbero apparentemente aggirarsi intorno ai 250 gr. A questo punto aggiungo 500 gr di pomodori a cubetti, a cui ho eliminato buccia e semi. Lascio andare a fuoco vivo per una ventina di minuti. Mentre la base va, strizzo le melanzane e le sbollento in acqua, per un minuto. Asciugo e poi friggo in un dito di olio evo, scolo e asciugo in panno assorbente. Ora incorporo le melanzane e il sedano alla base di prima. Correggo di sale se serve. Abbasso il fuoco e aggiungo finalmente 50 gr di zucchero e mezzo bicchiere di aceto di vino. Lascio ancora andare finché non si asciuga e finché l’odore forte di aceto non è scomparso.


A questo punto dovete lasciarla freddare, meglio se la mangiate il giorno successivo, ve lo garantisco. Io me la son fatta accompagnata ad un arrosto di pollo.

Minchia siculo sono !


10 novembre 2010

Incastramenti

Non è facile, a volte proprio non lo è. A volte ci si sente incastrati, dal tempo che vola e le cose da fare. Incastrato come un libro in uno scaffale di una libreria, quando l’ultimo libro infilato lo si è infilato di traverso e facendo leva verso gli altri. Che se non fosse legno pesante lo scaffale si sarebbe già aperto.

Il risultato è che non si combina niente si prova a farne tante, a correre di qua e di là ma alla fine hai quella sensazione che tutto è ancora da fare.
Guardo il calendario, cerco un fine settimana che ha attaccato un giorno di festa, ma l’ultimo mi è passato sopra mentre lavoravo dalla'altra parte del mondo. Anche Natale quest’anno ha scelto di arrivare di sabato, a gennaio ho altri programmi e a Pasqua pure, magari per le ferie di agosto trovo un paio di giorni.

Fuori piove, l’erba del giardino andrebbe tagliata, le foglie cadute andrebbero raccolte, magari falcio anche quelle e le raccolgo con l’erba. Il tavolo e le sedie della terrazza andrebbero portate in garage, l’ombrellone smontato e anche lui in garage. Piove. Però magari tra poco smette. La libreria è da mettere in ordine, e qui dentro non piove, anche in garage sarebbe il caso di ricavare dei sentieri liberi per attraversarlo anche li non piove, però fuori si. Il prossimo fine settimana. Si ma il prossimo fine settimana c’è l’architetto e la domenica a pranzo da amici, il prossimo ancora a prendere l’olio e poi gli amici che vengono.
“Allora ?!”
“Allora piove, Matti e non posso falciare l’erba, il tavolo e le sedie ...”
“Allora, fammi un dolce !”
“…”
“Quello rotondo tutto arrotolato con dentro la cioccolata e la crema ! Tanto se piove !!”

Rotolo antipioggia


Batto 3 uova con 60 gr di zucchero semolato e un pizzico di sale. Lascio che la macchina viaggi al massimo dei giri per un 15 minuti, alla fine l’impasto deve scrivere, poi metto a 1,5 di velocità (Kenwood) e incorporo 50 gr di farina setacciata e 15 gr di fecola di patate. Continuo con una spatola di silicone e poi verso in una teglia rettangolare imburrata (45x25). Se non avete un’impastatrice, montate gli albumi fermi con il pizzico di sale e metà dello zucchero, e il resto a parte per incorporare il tutto alla fine. Infornate a 200° per circa 10/12 minuti e comunque fintanto che il colore comincia a virare verso il “bruno”. Per la crema pasticcera e per quella al cioccolato buttate un’ occhio qui.
Rifilate i bordi del pan di spagna, disponete su un foglio di carta forno che vi aiuterà a spostare il dolce. Bagnate con una bagna di alchermes e rosolio, abbondante. Spalmate le creme, lasciandone un poco da parte, arrotolate con attenzione, disponete sul piatto di portata. Spalmate la crema lasciata da parte e attaccate i bordi del pan di spagna che avete prima rifilato, e che avrete passato per 3/4 minuti al grill. Spolverate con zucchero a velo e godetene mentre fuori piove.



Ah giovedì sera verso le 19:30 sono su Radio Radicchio, Omen nomen, a parlare del senso della vita. Non so se sono più fuori io, o loro che chiamano me per parlare del senso della vita....

25 ottobre 2010

Vecchi pipistrelli


La casa è fredda. Di più: è ghiaccia come solo le case disabitate sanno esserlo. Fuori potrebbe esserci la più calda giornata d'estate, ma qui dentro farebbe comunque freddo. Di quei freddi solitari, che solo l'abbandono riesce a dare. Di quei freddi attaccati alle mura come pipistrelli neri, che quando ti infili nelle stanze, con un battito d'ali svolazzano sulle tue spalle, e li restano per tutto il tempo che servirà alla memoria per farli scappare via.

Mi muovo piano come un intruso, un ladro, in mezzo a questo nulla che resta. Apro porte di stanze, che sono come laghi di ricordi in cui tuffarsi. Sul suo comodino la vecchia radiolina nella custodia di finta pelle, matite gialle, e un piccolo fascio di "settimane enigmistiche". Cassetti che il tempo ha chiuso per sempre, gonfi di umidità che non li fa più scorrere. Il salone oramai vuoto, qualcuno ha portato i mobili in altre stanze, altre case. I passi rimbombano sul pavimento, contro le mura macchiate di muffa. Sul tavolo della cucina restano oggetti irriconoscibili, pezzi di dispensa e vecchi piatti "sbeccati". Solo la crepa sul muro, é ancora attuale, oggetto di una vecchia e infinita causa legale con i vicini, resta la sola ad aspettare che un giudice la faccia sparire. La porta dello studio é un invito ad entrare, il nulla che resta é un invito a fuggire. I libri che tappezzavano queste mura, il divano di lana rossa, il vecchio giradischi, tutto sparito, donato ad un museo, ad altre case. Resta solo la poltrona di mia nonna accanto alla finestra. Mi seggo, lo sguardo sul vecchio orto e più oltre verso il paese. Non se ne vanno i pipistrelli, per quanto mi stringa addosso la giacca a vento, restano aggrappati ai ricordi che riaffiorano.

Le giornate passate in questa stanza lei su questa poltrona, immaginava, più che vederlo, il mondo fuori di quella finestra, mentre io sul divano sfogliavo libri quasi più grandi di me. Restavo per ore ad ascoltare. Il suo ciacolare era la colonna sonora della mia immaginazione. A volte mi riportava a terra con una domanda diretta o con un racconto che dovevo per forza seguire, ascoltare. Altre volte impartiva ordini, seduta su quella poltrona, alle figlie che di la in cucina che preparavano il pranzo, più salato, meno cotto, la pasta da buttare per il figlio; mio zio. Passavano così i sabati e le domeniche d'inverno, davanti al quel camino sonnecchiante, davanti a quell'orto affacciato sulla finestra di quello studio. Da quella libreria lessi i miei primi romanzi, raccolsi le prime emozioni della carta stampata, i viaggi più belli quelli che solo la fantasia sa far fare. Su quel divano che non c'é più, tra quei libri ormai scomparsi.

I pipistrelli mordono ancora, svolazzano ogni volta che provo a scacciarli in cerca del calore di quei ricordi. Resto a guardare la mia immagine sfocata sul vetro, l'orto é nascosto dall'erba ormai alta, a malapena intravedo la punta del campanile del paese, lontano tra gli alberi di fico. Aspetto in questo silenzio che qualcosa si possa rianimare, che una voce mi possa far trasalire. Ma non ci sono rumori, non ci sono voci e non ci sono più i profumi. Solo l'odore languido di terra fredda, della muffa dei muri, invece dei profumi di un'infanzia prima e di un'adolescenza poi, così vicina in questa stanza, così lontana da questa casa.

Mi alzo, me ne vado, torno nel mondo, attraverso il corridoio buio e lungo e lascio che i pipistrelli fuggano via, mentre la fantasia mi tiene ancora bambino a correre tra queste stanze invase dalle nostre grida e dal profumo caldo della zuppa di ceci che bolliva in cucina.

I ceci vanno al mare
(il grillo con i ceci in zuppa)



Per 4 persone vi occorrono due astici e 200 gr di ceci di Colfiorito secchi, o quelli che preferite voi.
Lasciate i ceci in ammollo per almeno un giorno intero, cambiate l'acqua un paio di volte. Metteteli a lessare in poca acqua salata,(usate poco sale questa è anche la zuppa) che dovrete aggiungere man, mano che occorrerà. Profumate con 2 spicchi d'aglio in camicia e un paio di rametti di rosmarino. Un paio d'ore a fuoco lento e coperti dovrebbero bastare e comunque decide la cottura a vostro piacimento.

Preparate il sugo di Grillo: sciogliete un paio di scalogni, tritati finemente in poco olio evo. Lasciateli appassire aiutandovi con poca acqua calda quando questa sarà del tutto evaporata, aggiungete una decina di pomodori piccadilly o 5 di quelli ramati, privati dei semi e della pelle e fatti a cubetti. Lasciate cuocere a fuoco vivo per una decina di minuti, profumate con qualche foglia di basilico, salate, pepate e poi mettete da parte in un contenitore. Nella stessa padella mettete i due astici. Gli astici devono essere divisi in due per il senso della lunghezza. Se questa operazione che porta alla morte l'animale non riuscite a farla, chiedete al vostro pescivendolo di fiducia di sostituirvi nell'incombenza, eliminando anche le viscere (ma solo quelle). Rosolate gli astici a fuoco vivo e coperti, quando risulteranno belli rossi spegnete, incorporate il liquido rimasto al sugo fatto precedentemente. Recuperate tutta la polpa, spezzando le chele e le gambe, poi rimettete tutto in padella, sugo, polpa e a questo punto i ceci con parte del loro brodo di cottura. Correggete si sale e pepe. Lessate dei maltagliati che avrete ricavato da una sfoglia classica, tagliandoli a rombi abbastanza grandi. Scolateli al dente, poi finite la cottura saltandoli in padella, aggiungendo se occorre il brodo di cottura dei ceci. Servite con un filo d'olio a crudo.


Il cece cosí cotto e condito anch’esso con un filo di olio evo e accompagnato da una fetta di pane bruscato "tostato" é uno dei piatti della tradizione di questa parte di Marca e della mia famiglia.