19 settembre 2010

Ad Oleo


E’ come una bava di ragno, tenuta tra le dita.
Sottile, scivolosa, quasi eterea. La tengo con le unghie, mai con i denti, ma con con forza, stringendo la punta delle dita. Così accompagno i suoi movimenti, tiro, poi mollo, con la coscienza di un adulto e il cuore di un ragazzo. La lascio muoversi, stando attento a non tirare troppo, a non rompere l’ illusorio legame che ci tiene ancora vicini, meno lontani di un tra poco, non distante.

A volte m’illudo di sentirla vicina, la tensione quasi svanita, sparita. A volte, terrorizzato mi sembra scomparire, fuggire lontano. E allora come il ragno, a cui strappo la tela, ricostruisco quella bava sottile. Pian piano, girandoci intorno, indifferente, distratto, lo riporto vicino. Impongo regole, le spiego, mi illudo che vengano comprese, mollo qualcosa di quel filo sottile, e penso che adesso si rompe, forse si rompe, certo che si romperà, ma non ancora. Convivo, che è un vivere strano, con questa adolescenza che non cresce, e non son convinto che debba farlo. Non è lei che deve crescere, lei c'è, ci sarà, c'è sempre stata.

Me la porto addosso, attento a non commettere errori vissuti nella mia, dubbioso dei deboli segnali che passano e spaventato da quelli che potrebbero non passare. A volte mollo, perché per nuotare ci vuole l'acqua e anche profonda, ma anche qualcuno pronto con un salvagente, una pacca sulle spalle, uno sguardo di fiducia. A volte stringo fino all'impossibile, duro contro duro, a chi la dura di più. Poi dopo un po', ma un po' anche più po' di un po', molliamo, ma non senza aver prima ripreso tutte le misure l'uno dell'altro, ritastato tutti i polsi e pettinato tutti i peli. Allora uno sguardo basso e un "scusa dai", messo lì, al posto giusto, ci riportano vicini. Legati di nuovo da quella bava di ragno, sottile, scivolosa. Riconquista del conquistato che era, a volte anche con materiali messaggi di affetto portati, magari da un piatto di:

Fagioli con le cotiche



Dal vostro macellaio vi fate dare un paio di pezzi di cotica, puliti e lavati. Avrete cura di ripassare bene la parte esterna per eliminare i peli, usando, a vostro piacimento, o una fiammeggiata sui fornelli di casa o un rasoio usa e getta tri-lama. Raccomando vivamente di non utilizzare schiume, specialmente al mentolo.

Fatto ciò, scotterete per 5 minuti in acqua bollente salata le cotiche, e poi con un coltello affilato toglierete il grasso in eccesso, per poi riprendere la cottura fino a che risulteranno cotte ma non troppo (torneranno sul fuoco). Nel frattempo avrete lessato un chilo (sporco) di fagioli borlotti freschi o un 400 gr già "sdaginati" oppure un 250 gr. di fagioli, sempre borlotti, secchi e ammollati per almeno una giornata. Anche in questo caso io lascio i fagioli belli al dente avendo cura di farli bollire in acqua e sale, con una carota e una costa di sedano. A parte preparate un soffritto con cipolla, sedano, carota, qualche pezzetto di gambuccio di prosciutto, aggiungete della salsa di pomodoro, le cotiche che avrete tagliato a striscioline una foglia di alloro. Salate e pepate e se piace aggiungete un po' di peperoncino. Aggiungete i fagioli con la loro acqua di cottura, se freschi. Se fossero secchi vi conviene cambiare acqua dopo una prima bollitura. Lasciate insaporire bene per una ventina di minuti, servite accompagnato da fette di pane tostato.


Questo piatto sono la passione, una delle tante, di Leo. Magari per riconquistare il vostro adolescente basta una cioccolata calda.

12 settembre 2010

Morire dove si nasce

Se ti dico Ascoli cosa ti viene in mente?
E si, certo le olive all’ascolana. Poi ? Dai fai uno sforzo !... La Quintana. Bravi !!
Nient’ altro ? Eh si, perché de Ascule che ne saio io .
Magari chi ci è stato un paio di posti se li ricorda: Piazza del popolo, il Palazzo dei Capitani del Popolo, il forte Malatesta e il ponte di Cecco. E poi il caffè Meletti lo storico Salotto della città


A me se dici Ascoli mi vengono in mente i monti. Le montagne, meglio. Meglio ancora i monti della Sibilla: i Sibillini. Mi viene in mente il freddo di un inverno di più di venti anni fa. La sera che scendeva presto. Attraversammo le Marche lungo la spina dorsale che sono i suoi monti. Non fu un viaggio, fu una traversata di altri tempi, qualcosa che forse facevano i nostri nonni. Fu un andare quasi fuori del tempo, con altri pensieri altre memorie, quelli di ragazzi venticinquenni che si affacciano sul mondo, lo guardano e si fanno una grassa risata.

Evitammo le autostrade, ci infilammo lungo le provinciali e facemmo così tante curve che anche l'auto aveva il maldimacchina. Matelica, Castelraimondo, San Severino. "Anche se non è di strada te passamo a prende lo stesso, però ci prometti che stai zitta, o che parli la metà del solito". Tolentino e poi verso il lago di Fiastra, lì finirono le conoscenze del nostro navigatore umano, oltre non eravamo mai andati. Ci perdemmo dalle parti di Camporotondo Fiastrone, non passava anima viva e per chiedere informazioni bussammo ad un casolare, apriti cielo. “Se non andè via a rrompe li coioni chiamo la pulizia”. Tentai di far notare che “pulizia” non è quella con la luce sul tetto della macchina, ma dovetti desistere per seguire la banda nella fuga. Ritrovammo la strada per sbaglio, o meglio grazie ad una teoria che qualcuno poi si convinse aver valore scientifico, secondo la quale tentando di sbagliare avremmo indovinato, visto che prima avevamo sbagliato tentando di indovinare. Contento lui. Quando arrivammo a Sarnano era già buio, e Amandola ci passo fuori dai finestrini senza che ce ne accorgessimo. Comunanza non ho mai capito dove fosse, o meglio, il paese sembra disperso nella valle, e la sola cosa che si vede è la zona industriale, con la grande fabbrica che ci aspettava, ma questa non è la storia. Arrivammo da Roverino, solo perché dopo avergli telefonato ci aspettò sulla strada. Nel frattempo era scesa la nebbia, pioveva e il freddo ti mordeva le spalle. “Andate a custodivve, e poi venite giù a cenà”.

Se mi dici Ascoli io sento ancora quel freddo, vedo il buio di quella notte. Se mi dici Ascoli sento l’aria fredda dei Sibillini che scende giù e corre verso il mare, e vedo le luci delle vetrine di quel ristorante perso in quella notte, e i suoi :

Maccheroncini di Campofilone


Lu Maccheroncì de Campufilò si fa solo a Campofilone e dal 1998 sono un prodotto tipico tradizionale di questa regione. Ora c'è da dire anche un' altra cosa, e cioè che dal gennaio di questo anno Campofilone non è più in provincia di Ascoli Piceno ma bensì di Fermo. E si, ricordate quel progetto politico di razionalizzazione delle provincie di cui tutti si sono riempiti la bocca, ecco quella era un' altra cazzata elettorale. Per ora le province le stiamo razionalizzando in aumento.
Comunque i Maccheroncini altro non sono che una "tagliatella" (perdonassero i Cmpofilonesi) tagliata sottilissima, il taglio nasce dalla tradizione di conservare la pasta per lungo tempo essiccata, e per quando possa sembrare assurdo più è sottile meno si spezza. Una volta lessata e scolata al tende va condita con il più tradizionale dei sughi marchigiani, un ragù fatto con un soffritto di carote, cipolle e sedano sciolto in olio evo e burro, si aggiunge polpa di vaccina macinata e la si lascia soffriggere ben bene. Si sala, si pepa, si aromatizza con noce moscata e un paio di chiodi di garofano, si sfuma con mezzo bicchiere abbondante di vino rosso. Una volta riassorbito il liquido si aggiungono un paio di cucchiai di concentrato di pomodoro sciolto in una tazza di brodo bollente, e quindi i pomodori pelati. Si lascia sobbollire a fuoco lento per 2 o 3 ore e il gioco è fatto.



Perché sulla tavola per far la pasta ? Perché quella sera Roverino mi disse che i Maccheroncini "aano da morì, do so nati, quindi sulla spianatora!"



01 settembre 2010

La mia estate


Passo la punta delle dita su questo marmo, bruciato dal sole e dalla salsedine.
Tento con l’unghia di portare via il nero del tempo, quelle vene di vecchio lasciate dalle intemperie. Non ho ancora guardato oltre questa balaustra. Ho sceso la scalinata a testa bassa, gli occhi puntati sui miei piedi, voglio che la vista da questa terrazza sia un colpo, un “pam” di colori, ecco perché ora ho gli occhi chiusi. Magari qualcuno mi starà guardando, magari sembrerò ridicolo, o forse mezzo matto. O magari solo un po’ strano.

Non vedo, ma sento: sento il profumo del mare più sotto, quello dell’oleandro salendo lungo la scala, il profumo di pietra di questo marmo, sotto le dita. Le grida allegre dei bambini che si arrampicano sul monumento alle mie spalle, il vociare di un gruppo di marinai seduti sulle scale, e poi il tonfo dei tuffi di chi più in basso sta facendo il bagno dagli scogli. Sento il garrire di qualche gabbiano lontano, il rumore sordo dei motori di barche che passano a largo.
C’è un sole caldo alle mie spalle, un sole di fine estate. Di quelle estati passate in fretta, che lasciano il segno , ma non ora. Più avanti quando cominceranno a farsi rimpiangere, non ora, non ancora. Mi cullo alla calda carezza di questo tramonto, ai suoni di questo pomeriggio, ai suoi profumi e alla vista che non ho ancora visto.

Resisto. Gli occhi chiusi in questo gioco con me stesso, fintanto che non sentirò arrivarmi qualcuno vicino, e allora per vergogna, per imbarazzo, li aprirò. Ma all’ultimo momento, solo un attimo, prima di ritrovarmi assieme ad altra gente. Un attimo prima, per godermi fino in fondo dell'attesa di questo spettacolo, che trascina ricordi, come catene pesanti trascinate dal tempo.
Respiro. Il vento leggero e fresco che soffia dal Conero mi carezza i pensieri. Poi qualcosa mi sfiora. Sento una mano piccola, paffutella, infilarsi a forza tra le mia dita. E’ l’attimo, quell’attimo che aspettavo. Spalanco gli occhi. Una distesa azzurro turchese mi esplode davanti, la seguo fin dove s’incontra con un cielo cristallino, terso, di un azzurro elettrico. Il mare è punteggiato dal bianco delle barche, il verde del monte intorno catalizza tutto quell’azzurro e come in un enorme imbuto, lo concentra qui dentro sulle scale del Passetto di Ancona e sul bianco di questa balaustra.
Un traghetto enorme si affaccia su questo quadro e lentamente si infila tra i puntini bianchi evitandoli in punta di piedi. Matteo me lo indica, lasciando la stretta che ci legava. Mi chiede dove va, non tanto lontano quanto ci piacerebbe. Parliamo, mentre più sotto i bagnanti fanno gli ultimi tuffi dagli scogli, all'ombra di dove siamo. E quando gli chiedo se sente i profumi mi fa si con la testa, li sente. Lo guardo annusare, tirando la testa verso l’alto e riempendosi i polmoni.

Che profumi senti? Ci pensa, riflette, socchiude gli occhi. Io sento il profumo delle vongole.
Davvero? Si sento il profumo delle vongole, con il pomodoro e la pasta. Sicuro?
Mi concentro e forse lontano, più in basso, dietro alla balza, verso le grotte, forse, mi pare di sentire il dolciastro del sugo. Possibile ? Forse, chissà !

Il profumo del Passetto d’Ancona: rigatone in guazzetto di vongole


In una padella grande faccio aprire le vongole, esclusivamente autoctone, a fuoco vivace e senza condimenti di sorta. Dopo cinque minuti le tolgo dal fuoco con il loro sughetto e le tengo da parte. Nella stessa padella faccio rosolare in poco olio evo 3 spicchi di aglio fin quasi a farli sbrucciacchiare, aggiungo un trito di erba cipollina, poi butto 250 grammi di pomodorini piccadilly sfilettati. Li lascio appena appassire, aggiungo sale e fermo la cottura. Lesso un 100 gr di rigatoni per cranio: millerighe n. 62 del Cav Cocco, ma poi si lamenteranno per la modica quantità che qualcuno paragonerà a "dietetica razione ospedaliera". Scolo la pasta al dente un tre minuti prima del tempo e finisco la cottura in padella, aggiungendo poca acqua di cottura e per ultime le vongole con il loro guazzetto. Alla fine spolvero con un trito di prezzemolo freschissimo, tagliato al volo dal giardino, e condisco con un ultimo filo d'olio evo sul piatto.

Si era questo il profumo che sentivo.
E voi ? Avete riportato qualche profumo dalla vostra estate ?