18 luglio 2011

Iamme ah



Non credo che andassi già a scuola, o forse si. E comunque se andavo a scuola avrò fatto si e no la seconda elementare se non la prima. Non mi ricordo molto, ma quel poco che la mente ha conservato è una fotografia nitida dai contorni sfocati. Se muovo lo sguardo della memoria, quello che metto a fuoco sono altri ricordi, altri momenti della stessa casa che, per osmosi, si associano a questo ricordo. Pensieri più che altro, vaghe associazioni di sapori, colori: una scatola marrone con il disegno della pizza sopra, il profumo che usciva dal forno. Buono, una falsa sensazione di piacere che oggi trovo solo in rarissime pizzerie.
Pizzerie che nella mia infanzia non esistevano. Non chiedetemi perché, ma per la prima pizza al piatto ho aspettato di essere diciassettenne, fine anni settanta o giù di lì. Prima di quel tempo, la pizza era rarissima e solo al taglio quando passavo le estati a Viareggo, o quella in scatola della "Catarì" che preparò quella volta mia madre.

Da lì in poi è stato un po’ come quando tutti dicono che un certo film è bello, bellissimo, ma a te non piace proprio. Te ne stai zitto ecco. Magari non commenti, o lasci che il dubbio venga interpretato, ammiccando distratto per far capire che non era proprio ‘sto granché. Per la pizza è andata un po’ così, tendenzialmente pochi posti che mi dessero soddisfazione, parlo sempre delle mie zone si intende, e quando ne trovai uno che mi piaceva, anche se era un filino fuori mano, mi chiuse le porte in faccia dopo un paio di anni diventando un semplice bar. Da lì ho cominciato a farmela, chiaramente seguendo le istruzioni, che oggi considero “bestemmie”, che un qualsiasi mortale trova sui pacchi di farina: venticinque grammi di lievito per mezzo chilo di farina, oggi ci impasterei trentatre chili virgola tre periodico di farina.
Diciamo che rimaneva giusto il piacere dello stare insieme, e di qualche amico d’oltralpe che apprezzava oltremodo. Io continuavo a nicchiare, ammiccavo storcevo la bocca e biascicavo qualche si, senza vantarmi troppo.

Poi ho aperto questo blog, un paio di mesi dopo ho anche messo la ricetta, di quel tempo, della pizza. Un post di qui mi vergogno profondamente, oggi, ma che non cancello, perché è il segno che solo i coglioni non cambiano mai idea. Da lì ho iniziato a cercare informazioni, a sperimentare ricette, a spiare i forum o blog di altri, a provare pizzeria vere, a chiedere, "Huè guagliò mo basta addumannà !!" . Diciamo che ad un certo punto, dopo qualche anno, sono arrivato a qualcosa che ho considerato “straordinario”. Una domenica decido che si pranza con la pizza, una ricetta di Paoletta rivista e rimaneggiata, 36 ore di maturazione dell’impasto, in teglia con forno elettrico. Una sorta di apoteosi, godimento allo stato puro, quasi. Esco in giardino tutto soddisfatto e il vicino: l’amico Massimo, con cui condividiamo la passione per il cibo, sforna una delle prime pizze cotte con il suo nuovo forno a legna, e me la passa da sopra la rete che divide i due nostri giardini.

Il mondo addosso mi è crollato: fragrante un cornicione che si scioglieva in bocca, un calcio nel basso ventre e mentre in ginocchio cerchi di riprenderti uno dritto in bocca, chiaramente una metafora, il calcio, non la pizza. E allora giù sotto a riprovare, pietre refrattarie, alta idratazione, maglia glutinica accentuata, glutine inesistente, puntata corta, puntata lunga, frigo, temperatura ambiente; e se mi son dimenticato qualcosa mettetecelo voi che comunque, io, l'ho sperimentato. Dall’altra parte della recinzione nel frattempo si sfornavano pizze che avevano una curva di miglioramento come le mie, ma che erano partite molto più avanti. E allora ? E allora ...

Mi son comprato il forno a legna



E ora volete la ricetta !? Si ma quale ? La 1, la 2, la 3 o la 4 o ... eh si perché ne ho provate tante:

1
Impasto a mano, maturazione di 48 ore, puntata di 40 ore in frigo a 6°C, staglio e appretto a temperatura ambiente: cornicione enorme, da arrampicarcisi su e tentare il suicidio, bolle come quelle che i pagliacci fanno al circo, centro evidente e spesso.

2
Impasto a macchina, maturazione di 30 ore, puntata di 40 minuti, staglio e appretto in frigo a 6°C, 4 ore prima della cottura rigenero e temperatura ambiente: cornicione evidente, non ci sali ma ci resti aggrappato con le mani. bella "leopardatura" con tanto di ruggito, centro sottile.

3
Impasto a mano, maturazione di 14 ore, puntata di 9 ore a 19°C, staglio e appretto a temperatura ambiente. Cornicione alto e fragrante meno evidente che nelle maturazioni lunghe, ma se lo metti in bocca scompare velocemente, sciolto senza riserva.

4
Impasto a macchina, maturazione 14 ore puntata di 40 minuti a temperatura ambiente, staglio e appretto di 9 ore a 19°C, 4 ore prima della cottura rigenero del panetto e fine appretto a temperatura ambiente: cornicione evidente e "leopardato" pizza fragrante e centro consistente.

5
Impasto a macchina, maturazione 12 ore puntata di 40 minuti a temperatura ambiente, staglio e appretto di 8 ore in frigo a 6°C e 4 ore a temperatura ambiente: cornicione meno evidente di tutte, pizza morbida che puoi piegare a portafoglio senza problemi, centro sottile.


E allora prendiamo la numero 3:

1600 gr di farina non troppo forte W 250/260 (Spadoni da supermercato se non avete una Caputo Pizzeria)
1000 gr di acqua
1,2 gr di lievito di birra (in inverno raddoppiate)
50 gr di sale

Sciogliete il sale nell'acqua aggiungete metà della farina non setacciata e impastate fino ad ottenere una crema liscia e uniforme. Aggiungete il lievito di birra che avrete spezzettato in poca farina, poi continuate con la restante farina aggiungendo un cucchiaio alla volta, aggiungete il cucchiaio successivo solo quando l'impasto avrà preso il precedente. Occorreranno circa 20 minuti, e se siete bravi vi avanzerà anche un po' di farina. L'impasto deve risultare morbido e non troppo liscio. Mettete in un contenitore ermetico e lasciate riposare in un luogo fresco max 19°C. Dopo otto ore circa formate i "panielli" di ca. 240 gr (ne vengono 10 con queste proporzioni). Lasciate ancora maturare, sempre in contenitore ermetico, per altre 6 ore a temperatura ambiente non superiore a 25°C. Stendete a mano (Vietato il mattarello) condite a piacere e poi infornate per 60/90 secondi a seconda della temperatura del forno a legna 350°C / 400°C

Questo tipo di impasto potrebbe essere anche usato in forno elettrico, usando una pietra refrattaria come base che deve essere portata almeno a 200°C, posizionatela a max 10 cm dalla resistenza a cielo del forno. Infornate la pizza quando la resistenza è accesa, in tre minuti dovreste avere una pizza simile a quella cotta in un forno a legna ma simili solo in parte.
Per essere tranquilli in un elettrico seguite questa ricetta o quella del "Maestro" Adriano.



Iamme ah

07 luglio 2011

Incatenato ai ricordi


C’è un’aria che pesa. Che pesa come tutte le sfighe del mondo. Un cielo più basso dei minareti delle moschee, nero, rotondo di nuvole gonfie, come i grassi osti dei locali che affollano questa viuzza, stretta e scoscesa.
Arranco tra la cacofonia di tutte le voci che mi urlano contro, raccolte in questo unico suono, che ogni tanto si mischia al clangore dei taxi intasati nelle vie laterali. Il giallo è il colore vincente fra le auto in coda perenne in questa città. Giallo canarino carico, giallo antico, giallo arrugginito, giallo fiammante pronto allo sfregio, giallo taxi e giallo privato. Tassisti, ex tassisti, finti tassisti e taxi di seconda mano. E poi mani inchiodate sui clacson, braccia come appendici dei volanti, o volanti appendici di braccia al volante stesso. Si consumano più trombe di clacson che chili di olio ad Istanbul.

Ogni tanto la mia guida mi indica qualcosa da guardare, veloci attraversiamo strade e stradine lui parla, cita la storia, tutta la storia di cui questo posto è impregnato. Tremila anni sotto ai miei passi, tremila anni tra le mura rifatte. Cammino qui “sull’opposto del cieco” dove l’oracolo ha indicato il punto della fondazione di questa città, la città del re Byzas. Ogni tanto tra questi pezzi, oramai moderni, di storia antica, si affaccia il corno d’oro, lontano, sinuoso come un grande serpente, si infila nella terra. Non brilla al sole di questo tramonto grigio, come nelle cartoline che ogni tanto si affacciano, sembra più una grande pozza di melma nera e marrone, attraversata da un paio di ponti, da un paio di navi, da un paio di mondi. Rimane lì, del tutto anonimo a quell’aurea disegnata dai libri di storia, dai romanzi, e dalle leggende. Neanche la catena che lo chiudeva riesci ad immaginarti più, incastrata oramai tra il traffico e i palazzi.

Un profumo di pioggia imminente mi assale, lo respiro preoccupato. Guardo Mustafà correre davanti a me, driblare il flusso umano che ci viene incontro: siamo gli unici in pausa pranzo, per tutto il resto del mondo è l'ora del pranzo. Non è un quartiere di affari, è un posto per turisti segnato dai pantaloni corti, le snickers degli americani, le ciabatte dei tedeschi, le tuniche dei locali. Accelero il passo, una grossa goccia mi colpisce precisa, vedo Musta indicarmi qualcosa, lo sguardo soddisfatto da scopritore che cerca consenso. Seguo il suo braccio, la mano e poi il dito, oltre: la grossa torre di Galata, rotonda con il suo tetto a cono, troneggia presuntuosa, affacciandosi sulla piazza, mi volto verso il mare e verso il "corno", certo che una catena da qui fin dall'altra parte ! E poi arriva.

Lo scroscio d'acqua mi sorprende quasi al centro della piazza. Corro e forse per una teoria fisica che non ho ancora capito, peggioro le cose. Prendo una strada, ora, in leggera discesa, mi sembra che Mustafà si sia infilato giù di qua, ma non lo vedo. La pioggia ha fatto saltare gli “schemi di gioco”: lo strombazzare del traffico ha raggiunto livelli allarmistici, la gente corre in maniera disordinata, le tende, le pensiline, i rifugi alla pioggia sono assaltati, lungo il bordo del marciapiede già scorre un fiumiciattolo di acqua che trascina con sé la lordura delle strade. Cerco con lo sguardo un ancora di salvezza, la giacca è ormai zuppa e sento la sensazione decisa del bagnato sulle spalle. Poi l’ancora mi afferra per un braccio, un uomo grosso e ingombrante vestito di una maglietta che una volta è stata bianca, mi butta dentro ad un locale: una sorta di budello lungo e stretto un bancone nel fondo circondato dai fumi della cucina, qualche tavolo lungo le pareti e uno stretto passaggio al centro. I tavoli sono tutti occupati in uno se ne sta seduto Mustafà mi sorride beato, miracolosamente asciutto e mi indica un grosso piatto di:

Boulgur di pesce e verdure


O come preferite chiamarlo: bulgur, bulghur, boulghour, boulgour, boulgoul, boulghoul, bulghul o bulgul non è altro che il grano cotto al vapore, essiccato e poi ridotto in piccoli pezzi. Lo lasciate ammollare in acqua fredda per una decina di minuti e poi lo lessate in una quantità di acqua pari al doppio del suo volume per una quindicina di minuti, scolate e lasciate riposare per qualche minuto e poi lo servite caldo come se fosse un pilaf o freddo come taboulé.

La mia ricetta prevedeva una cottura in un fumetto di pesce, nessun tipo di “sgranatura” che consiglio nel caso di taboulé, un ripasso in padella a fiamma viva, dove precedentemente avevo cotto in poco olio delle zucchine a tocchetti, aggiungendo a fine cottura dei pomodorini datterini che hanno appena sentito il calore, salatura in ultimo per evitare i liquidi.


Dopo aver fatto insaporire il Boulgur, l’ho servito accompagnandolo ad una insalata di mare tiepida fatta di seppie, mazzancolle, cannocchie, “moscioli”, vongole e polipo. Tutto condito con un ottimo olio extravergine di Cartoceto.