25 ottobre 2010

Vecchi pipistrelli


La casa è fredda. Di più: è ghiaccia come solo le case disabitate sanno esserlo. Fuori potrebbe esserci la più calda giornata d'estate, ma qui dentro farebbe comunque freddo. Di quei freddi solitari, che solo l'abbandono riesce a dare. Di quei freddi attaccati alle mura come pipistrelli neri, che quando ti infili nelle stanze, con un battito d'ali svolazzano sulle tue spalle, e li restano per tutto il tempo che servirà alla memoria per farli scappare via.

Mi muovo piano come un intruso, un ladro, in mezzo a questo nulla che resta. Apro porte di stanze, che sono come laghi di ricordi in cui tuffarsi. Sul suo comodino la vecchia radiolina nella custodia di finta pelle, matite gialle, e un piccolo fascio di "settimane enigmistiche". Cassetti che il tempo ha chiuso per sempre, gonfi di umidità che non li fa più scorrere. Il salone oramai vuoto, qualcuno ha portato i mobili in altre stanze, altre case. I passi rimbombano sul pavimento, contro le mura macchiate di muffa. Sul tavolo della cucina restano oggetti irriconoscibili, pezzi di dispensa e vecchi piatti "sbeccati". Solo la crepa sul muro, é ancora attuale, oggetto di una vecchia e infinita causa legale con i vicini, resta la sola ad aspettare che un giudice la faccia sparire. La porta dello studio é un invito ad entrare, il nulla che resta é un invito a fuggire. I libri che tappezzavano queste mura, il divano di lana rossa, il vecchio giradischi, tutto sparito, donato ad un museo, ad altre case. Resta solo la poltrona di mia nonna accanto alla finestra. Mi seggo, lo sguardo sul vecchio orto e più oltre verso il paese. Non se ne vanno i pipistrelli, per quanto mi stringa addosso la giacca a vento, restano aggrappati ai ricordi che riaffiorano.

Le giornate passate in questa stanza lei su questa poltrona, immaginava, più che vederlo, il mondo fuori di quella finestra, mentre io sul divano sfogliavo libri quasi più grandi di me. Restavo per ore ad ascoltare. Il suo ciacolare era la colonna sonora della mia immaginazione. A volte mi riportava a terra con una domanda diretta o con un racconto che dovevo per forza seguire, ascoltare. Altre volte impartiva ordini, seduta su quella poltrona, alle figlie che di la in cucina che preparavano il pranzo, più salato, meno cotto, la pasta da buttare per il figlio; mio zio. Passavano così i sabati e le domeniche d'inverno, davanti al quel camino sonnecchiante, davanti a quell'orto affacciato sulla finestra di quello studio. Da quella libreria lessi i miei primi romanzi, raccolsi le prime emozioni della carta stampata, i viaggi più belli quelli che solo la fantasia sa far fare. Su quel divano che non c'é più, tra quei libri ormai scomparsi.

I pipistrelli mordono ancora, svolazzano ogni volta che provo a scacciarli in cerca del calore di quei ricordi. Resto a guardare la mia immagine sfocata sul vetro, l'orto é nascosto dall'erba ormai alta, a malapena intravedo la punta del campanile del paese, lontano tra gli alberi di fico. Aspetto in questo silenzio che qualcosa si possa rianimare, che una voce mi possa far trasalire. Ma non ci sono rumori, non ci sono voci e non ci sono più i profumi. Solo l'odore languido di terra fredda, della muffa dei muri, invece dei profumi di un'infanzia prima e di un'adolescenza poi, così vicina in questa stanza, così lontana da questa casa.

Mi alzo, me ne vado, torno nel mondo, attraverso il corridoio buio e lungo e lascio che i pipistrelli fuggano via, mentre la fantasia mi tiene ancora bambino a correre tra queste stanze invase dalle nostre grida e dal profumo caldo della zuppa di ceci che bolliva in cucina.

I ceci vanno al mare
(il grillo con i ceci in zuppa)



Per 4 persone vi occorrono due astici e 200 gr di ceci di Colfiorito secchi, o quelli che preferite voi.
Lasciate i ceci in ammollo per almeno un giorno intero, cambiate l'acqua un paio di volte. Metteteli a lessare in poca acqua salata,(usate poco sale questa è anche la zuppa) che dovrete aggiungere man, mano che occorrerà. Profumate con 2 spicchi d'aglio in camicia e un paio di rametti di rosmarino. Un paio d'ore a fuoco lento e coperti dovrebbero bastare e comunque decide la cottura a vostro piacimento.

Preparate il sugo di Grillo: sciogliete un paio di scalogni, tritati finemente in poco olio evo. Lasciateli appassire aiutandovi con poca acqua calda quando questa sarà del tutto evaporata, aggiungete una decina di pomodori piccadilly o 5 di quelli ramati, privati dei semi e della pelle e fatti a cubetti. Lasciate cuocere a fuoco vivo per una decina di minuti, profumate con qualche foglia di basilico, salate, pepate e poi mettete da parte in un contenitore. Nella stessa padella mettete i due astici. Gli astici devono essere divisi in due per il senso della lunghezza. Se questa operazione che porta alla morte l'animale non riuscite a farla, chiedete al vostro pescivendolo di fiducia di sostituirvi nell'incombenza, eliminando anche le viscere (ma solo quelle). Rosolate gli astici a fuoco vivo e coperti, quando risulteranno belli rossi spegnete, incorporate il liquido rimasto al sugo fatto precedentemente. Recuperate tutta la polpa, spezzando le chele e le gambe, poi rimettete tutto in padella, sugo, polpa e a questo punto i ceci con parte del loro brodo di cottura. Correggete si sale e pepe. Lessate dei maltagliati che avrete ricavato da una sfoglia classica, tagliandoli a rombi abbastanza grandi. Scolateli al dente, poi finite la cottura saltandoli in padella, aggiungendo se occorre il brodo di cottura dei ceci. Servite con un filo d'olio a crudo.


Il cece cosí cotto e condito anch’esso con un filo di olio evo e accompagnato da una fetta di pane bruscato "tostato" é uno dei piatti della tradizione di questa parte di Marca e della mia famiglia.

16 ottobre 2010

Il pane del ritorno


World Bread Day 2010 (submission date October 16)

Ho gli occhi gonfi di lacrime.
Il freddo del mattino mi si gela in faccia e negli occhi. Cammino veloce le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, le spalle ingobbite. La giacca a vento che salva appena il corpo, ci vorrebbe un cappello di lana, ci vorrebbero i guanti, e ci vorrebbero un paio di pantaloni appena più pesanti.
Corro quasi, lungo i marciapiedi deserti, di questa città affollata di turisti addormentati.
E' l'ultimo giorno, tra qualche ora me ne ritorno a casa, son tutti lì a desiderare questo ritorno quasi come dieci giorni fa desideravano la partenza. Quel bisogno di ritrovare se stessi nei luoghi che ci appartengono. Infilarsi nella routine normale e accogliente della propria vita. I gesti e i tempi di sempre, la sveglia presto per andarsene a scuola, la colazione fatta in piedi sulla penisola della cucina. L'orologio che incalza spietato, i minuti che passano, la fuga verso il bus, l'elenco delle cose dimenticate, il libro, la sciarpa, la merenda. Poi tocca al più piccolo, una sorta di catena di montaggio con un ciclo scandito e preciso, la colazione, i denti, la cartella e fuori. Ancora. L'elenco delle cose dimenticate, il libro, la sciarpa, la merenda. E poi la telefonata dopo che tutti sono usciti, la giornata che va verso la sua storia che comincia.

E io che cammino nella solitudine di queste strade, un cielo che passa dal grigio all'azzurro, un tempo che promette si essere comprensivo e di regalarci un pezzo di sole. Giro l'angolo e la vedo. La signora sta mettendo fuori il cartello che in tedesco forse annuncia pane fresco o chissà cosa, ha appena aperto. Rallento e resisto al freddo. Ostento indifferenza e poi mi infilo nel caldo abbraccio della panetteria. Ed è così da tutta una vita: ci sono due profumi a cui mi abbandono. Un pugile sul ring che stanco di saltare e difendersi, ad un certo punto, allarga le braccia al gancio finale, che lo stacchi da terra e lo liberi dalla fatica e dal dolore una volta per tutte. Ecco per me il profumo del caffè appena tostato e quello del pane appena sfornato sono i due pugni a cui mi abbandonerei volentieri.

Quella fragranza quasi palpabile, quella crosta che senti scricchiolare sotto le dita, aprirla con le mani mentre me ne torno a casa, staccandone pezzi tiepidi che si affacciano dal sacchetto e mangiarmelo per strada. Uno dei piaceri a cui non rinuncerò mai, neanche dopo morto. Ma oggi no, oggi è troppo freddo, e poi oggi sono venuto a comprare il pane del ritorno, il pane del viaggio. Quattro o cinque pezzi chiusi in un sacchetto, che nessuno sa che ci sono, e che tutti immancabilmente non ricordano esserci, se non quando una punta di fame collegherà lo stomaco alla memoria. Sarà Spaccaball allora lanciare il sasso e Leo a meravigliarsi come ogni volta. Apriranno il sacchetto e veloci, come se fossero appena tornati dalla ritirata del Don, addenteranno i fiocchi salati, e sarà solo un piccolo miracolo se rimarrà per me un pezzettino di:

Bretzel



La sera prima preparate un polish con 100 gr di farina 00, 5 gr di lievito disidratato (oppure 8 gr di lievito di birra), e 100 gr di acqua. Impastate con un cucchiaio amalgamando bene gli ingredienti e poi mettete in frigo per almeno 12 ore.

Il giorno successivo preparate una miscela con 250 gr di farina 00, e 150 gr di Manitoba, aggiungete 12 gr di sale e 12 gr di zucchero, miscelate bene. Incorporate il polish preparato la sera prima, 50 gr di burro ammorbidito e 200 gr di acqua, o quanta ne prende per avere un impasto morbido ma che non sia eccessivamente appiccicoso.
Lasciate lievitare in un ambiente caldo (22°/24°) per circa 2 ore.

Mettete l'impasto su un piano ben infarinato dividetelo in parti uguali formando dei cordoncini di ca. 50 cm, lo spessore dipende dal vostro gusto. Ne dovrebbero venire una decina con l'impasto preparato. ora formate i fiocchi tipici dei Bretzel e disponeteli su di un piano infarinato e lasciateli lievitare per altri 20/30 minuti.

In una pentola portate a bollore 4 litri di acqua, e poi abbassate il fuoco e lasciate sobollire, aggiungete 3 cucchiai da cucina di bicarbonato di sodio (occio che l'effetto può essere vulcanico). Regolate il fuoco in modo che possiate avere una buona visibilità (capirete). Ora immergete i Bretzel due a due, finché non appariranno lucidi (30/40 secondi). Scolateli con una schiumarola e disponeteli su di un canovaccio in modo che scolino bene. Alla fine trasferiteli su di una placca con carta forno, cospargeteli con un fleur de sel, e infornateli immediatamente a 220 gradi per 20 minuti o finché il colore non sarà di vostra soddisfazione.




Questo post partecipa al contest di Zorra: Qui

11 ottobre 2010

Ho adottato una ricetta

Mmmh
Ha la l'espressione del viso pensierosa, di chi sta per emettere il giudizio di un esame. Per una volta, in queste occasioni, è lui a dare il voto e non a prenderlo. Un secondo pezzo di carne sparisce in bocca, le mandibole si mettono al lavoro senza troppo sforzo, gli occhi sul piatto in segno di profonda riflessione. Allunga una mano verso il bicchiere di vino. I riflessi granati del Lagrein brillano al sole caldo di questa domenica di un autunno che non arriva. Il collo teso nel gesto del bere, il sorso di vino che si infila in gola, forse un filo troppo velocemente. Schiocca la lingua soddisfatto, mi guarda, lo sento dire che nella salsa c'è il limone e poi un qualcosa di dolce che non capisco. Lascia la frase tra l'interrogativo e l'affermazione.

Ci penso, magari lui da il giudizio, ma io mi tengo l'ingrediente. Lo guardo. Allora? Sembra volermi dire. Ma si va te lo dico ma ti faccio soffrire. Gira gli occhi in un gesto di insofferenza superiore, che nasconde una curiosità da morsi, però al tavolo 'stavolta. Prugne! tolgo i dubbi. Mi guarda meravigliato un sorriso di compiacimento, che fa sparire un'altro pezzo di carne in bocca, stavolta lo assapora soddisfatto e beato. Bono! Ma perché le prugne?

E adesso che ti dico, che sono un rompicoglioni e che tre anni fa rompevo le palle a chi buttava i soldi pubblici per raccontare cazzate tipo l'arrosto alle prugne? Tutto documentato qui. O che non contento ci ritornavo pentendomi per l'arrosto alle prugne, ma sproloquiando contro l'ignoranza e la stupidità sempre qui. Che vuoi che ti dica che anche adesso nello stesso sito confondono "pesarese" con "pescarese", ma che non me va più di romper(mi) le palle. E che magari uno strafalcione di questo tipo è un male d'augurarsi, rispetto alle vagonate di letame che ti tocca vedere. E' che son stanco. Son stanco di sentir cazzate, di leggerle e di doverle sopportare. Son proprio stufo.
Allora sai che c'è, oggi ti ho cucinato un piatto tipico dell Marche:

L'arrosto di vitello alle prugne



Ho preso un pezzo di vitello, per l'esattezza la parte delle costolette che ho disossato, (ma potete anche non disossare). Ho chiuso il tutto in una rete. In una casseruola ho messo olio evo e una noce di burro (40 gr), e 4 fette di pancetta fresca, vi ho tuffato una cipolla a pezzi grossolani tre carotine, uno spicchio di aglio, rosmarino, santoreggia e una foglia di alloro.

Ho messo il pezzo di carne (due per me) a rosolare a fuoco vivo ben bene. Ho lasciato che la carne prendesse quel bel colore bruno girando più e più volte e poi ho sfumato con un paio di bicchieri di Tocai ... oopsss di Friuliano doc. Ho tolto ed eliminato la pancetta. Lasciato sfumare per qualche minuto, tappato con un coperchio a buona tenuta e infornato per 45 minuti a 145°. Dopo questo tempo ho aggiunto all'arrosto la buccia di mezzo limone e quella di un mandarino, lasciandole intere per recuperarle poi. Ho aggiunto quattro belle prugne (le mie erano grandi quasi quanto una pesca) fatte a pezzi grossolani e rimesso in forno alla stessa temperatura per altri 45 minuti.

Ho tolto dal forno eliminato la foglia di alloro, e le bucce degli agrumi, ho passato la salsa con un frullatore ad immersione, affettato l'arrosto e servito caldo accompagnato da degli involtini di sformatino di patate e con la prugna nature.



Tanto con tutte le balle che ci sono in giro, una più, una meno !!! (sulla regionalità del piatto intendo)

01 ottobre 2010

Quando inizia un ritorno?

Quando inizia un ritorno ?
Quando si comincia a tornare ?
Quando è che un viaggio “gira”, e hai la sensazione di andare verso il luogo da cui sei partito ?

Tiro fuori lo yoyo che mi ha regalato Spaccaball. Stringo bene la cordina attorno al suo asse. Faccio il cappio all’estremità libera e ci infilo il dito medio della mia mano destra. Fin quasi a scomparire in fondo all’ultima falange. L’inventario del viaggio. Le cose che si ammassano nella mia valigia, stanche di armadi sempre uguali e tutti i giorni diversi.
Lo stringo nel palmo della mia mano ne apprezzo il peso, il perfetto bilanciamento nonostante la forma conica, il morbido della gomma arancione. Quel fremito freddo che sento: l’attimo prima di partire, l’attimo prima di volare via lungo quel filo. Poi è tutto un susseguirsi cacofonico di gesti automatici. Le code, il traffico, la folla, una babele di lingue, puzze e profumi. Migliaia di volti sconosciuti che affollano questo presente, come tele di una galleria di un passato senza fine. Il colpo secco e impercettibile del polso, la mano che si apre per lasciarlo fuggire, la mia mano il suo abbraccio. Il “fffrrrrrrr…” sottile nel silenzio di questa stanza, dentro al mondo, lontano dal mio.

Di fuori, nel buio della notte, è quasi giorno pieno, di gente che non ha tempo per il sonno, di un traffico che scorre veloce quasi caotico. Il frullo leggero è rotto dal “tgiiing …” acuto di un messaggio che arriva. Sorrido. Ha passato l’ultimo mese ha mostrare il suo nuovo telefono: una reliquia dismessa dal nonno, di cui ha decantato improbabili capacità tecnologiche. Un mese passato ad elemosinare, invano, un scheda, per sdoganare, e dare finalmente uno scopo a quello strumento.
Ha ingoiato una sfilza di “no” talmente lunga da minare la resistenza del più stoico elemosinatore. Poi mentre io non c’ero, qualcuno preso da stanchezza, o impietosito da quell’espressione triste che si sarà attaccato addosso, gli deve aver comprato una scheda. Prima è arrivato un messaggio: “ciao papà, sono Matteo” ha scritto la “c” minuscola e la “M” del nome maiuscola. Poi sono arrivate tre telefonate, o meglio tre tentativi, che hanno lasciato passare la sua vocetta squillante solo per per dire “Ciao pap….” Per tre volte è caduta la linea. Ho tentato di richiamare ma il telefono era spento. Una reliquia appunto, che si resetta ad ogni chiamata.

Fuori, oltre la strada, sullo specchio scuro del mare, ora, passan le luci di una nave. Le guardo scomparire verso la città dalla parte opposta, fintanto che non le confondo in mezzo ad altre navi, alle luci dei palazzi, alle voci della gente, come i visi di quella galleria. Lo yoyo scende con il suo “fffrrrrrrr…” triste. Con l’altra mano scorro il menù del telefono: messaggi, Matti, apri.
E’ quasi in fondo, lo sento: la corda tesa, il polso piegato in avanti e verso il basso, pronto. Guardo il messaggio di mio figlio, ha un senso di arrampicato, di veloce. Come il cono di ferro e gomma che sta per arrivare giù in basso. “Ecco perché non fonziona tu sei troppo lontano”
Il polso scatta veloce, secco, lo yoyo gira su stesso a vuoto per qualche attimo interminabile, sospeso, come quel “troppo lontano”. Poi quando penso che potrebbe fermarsi lì, spegnersi, sento che morde, si riarrotola sul filo e ricomincia a tornare. Il viaggio gira si riorna, verso la mia mano, verso quell’abbraccio che mi aspetta.

Insieme: la pesca al vino di visciole con gelato allo zabaione e crumble di mandorle


Una pesca a persona bella tosta e consistente a cui toglierete la buccia bruciandola velocemente con un cannello o sui fornelli del gas, e passandola poi con uno strofinaccio pulito. Sciroppate le pesche in uno sciroppo composta da 300 gr di acqua,100 gr di zucchero e 300 gr di vino di visciole di Cantiano. Lasciate sobbolire per una ventina di minuti poi toglietele dal fuoco e raffreddatele. Lasciate addensare lo sciroppo continuando il bollore finché non vi sembrerà abbastanza denso.
Per il gelato: battete 4 tuorli con 200 gr di zucchero, portate 60°C 1/2 litro di latte e incorporatelo alle uova continuate a cuocere fino a 70°C a bagnomaria. Raffreddate aggiungete 250 ml di panna e 80 ml di marsala almeno "vergine". Mettete nella macchina per il gelato e lasciate andare.
Per il crumble: incorporate 100gr di zucchero semolato con 100 gr di farina, 50 gr di burro a pomata e 75 gr di mandorle tagliuzzate nel verso della lunghezza, lavorate con le dita fino a formare delle briciole irregolari. Infornate il tutto a forno ventilato + grill 170° per una quindicina di minuti.
Per la preparazione: in un bicchiere di vetro mettete la pesca fatta a fettine bagnata con il suo sciroppo, due quenelle di gelato allo zabaione, sbriciolateci sopra il crumble e guarnite con qualche visciola di Cantiano e ancora un po' di sciroppo


Sto tornando.