28 giugno 2010

Chiudi gli occhi

Se ti dico estate, e poi ti dico chiudi gli occhi.

Picchia ancora sulla pelle, il sole caldo di Viareggio. Quando uscivo dal portone di via Vittorio Veneto e giravamo verso via Regia, e da lì ancora a destra verso il molo, verso la “passeggiata”. Davo la mano a mia nonna, una mano fresca, fredda quasi, mai calda. Le mani dei vecchi sono sempre fredde. Godevo di quella sensazione nella calura estiva del mattino toscano. Era un sole che ti accartocciava, come i fogli di carta appena usciti da una fotocopiatrice, secco e bollente. Sudavo, anche solo a respirare, se poi ci mettevi che eri un bambino e avevi dieci anni sudavi per definizione. Anzi forse perché i grandi ti raccomandavano sempre di non farlo. Non sudare ! Ti prendeva una tensione che cominciavi subito a sudare. Anche adesso, quando sento dire ad un figlio: non sudare, resto con una discreta dose di domande da fare. Quel “non sudare” è la sintesi ultima assoluta, è il riassunto sintetizzato, il “supernumero”. Mica ti dicevano: non correre, non saltare, non stare al sole ! Bastava: non sudare, e il tuo destino era scritto.
Camminavo sul grigio di quei marciapiedi asfaltati degli odori del mare, del porto canale, le ciabatte celesti incollate dal caldo. Andavamo sul molo. Passavamo davanti all’edicola con il merlo indiano che diceva: “buongiorno”, ma anche “stronzo”. Compravo “tiramolla” e sognavo la confezione di bocce colorate in valigetta professionale. Costeggiavamo il canale, la passerella pedonale con la baracca dell’omino addetto all’apertura al passaggio delle barche a vela.
Mia nonna si sedeva sul muretto, sfilava la camicetta e restava a spalle scoperte, fasciata da costumi di un’altra era. Gonna e costume, bassa, più bassa di me, ma grande come solo le nonne. Ripeteva all’infinito, sta attento, e poi, non sudare; mentre armato di retino mi aggiravo tra gli scogli. Ma quei retini a cosa servivano ? Qualcuno ci avrà mai acchiappato un pesce? Forse qualche granchio, lasciato a cuocere nei secchielli abbandonati tra le sdraie. Cercavo invano, con il pensiero a enormi scorfani rosso argentati, sognavo branchi di acciughe che fuggendo dalla parte sbagliata avrebbero riempito il mio retino. Cacciavo per un paio di ore buone, ché il pesce si prende alla mattina presto. Poi mi sedevo sullo stesso muretto, il giornalino in mano, alle mie spalle le spiagge della marina di ponente, e oltre più lontano la grande pineta.

Chiudevo gli occhi a quella luce bianca sul biancore del molo, sulle mura delle barche, sui pescherecci accoccolati oltre la madonnina. Ascoltavo i profumi, gli odori, del mare, delle cozze morte tra gli scogli, della carta nuova del giornalino, della naftalina della camicetta di mia nonna, dei bomboloni e delle ciambelle calde portati nelle ceste dalle “bombolonaie”. Quel profumo di fritto e di zucchero attaccato alle dita. Il primo morso che taglia in due l’anello di pasta, che i bordi ti si infilavano nelle orecchie, la croccantezza della crosta la morbidezza del cuore. La merenda della mattina. C’è ancora il “Gatto nero” nella pineta di ponente ? E il suo dirigibile ? Che scaricava bomboloni nello zucchero ? Sento ancora i rumori di quell’ estati passate: lo sciabordio dell’acqua del canale, la sirena del battello turistico, il garrito stridulo dei gabbiani. Il ciabattare rumoroso degli zoccoli, il clack-clack di quelle odiose palline legate ad un filo. Il respiro ridicolo di mia nonna che dorme nel suo stanzino.

E allora se ti dico estate e poi chiudi gli occhi. Cosa vedi?

“Vedo scuro. Tutto nero. Se stringo forte gli occhi, vedo tutte palline colorate” Lascia stare Matti, tu tienili aperti i tuoi occhi, così da grande quando li chiuderai vedrai quello che vedi oggi.

Lo strudel ai frutti di mare



Ho preparato l'impasto classico per gli gnocchi con le proporzioni di un chilo di patate lessate e sbucciate, 300 gr di farina, 1 uovo (in questo caso serve) salato e profumato con noce moscata. Ho diviso l'impasto in 6 porzioni che poi ho steso su carta alluminio spennellata con olio evo. Ho aggiunto la farcia composta da calamari e gamberetti sminuzzati, e da vongole e cozze sgusciate, quest'ultime le ho fatte aprire in padella conservando a parte il liquido di cottura che servirà dopo, ho appena salato e pepato. Ho chiuso lo strudel e l'ho sigillatto nella carta alluminio.


Ho cotto al vapore per una ventina di minuti. A questo punto potete gestire gli strudel come meglio preferite, in questo modo si conservano in frigo anche per 24 ore e quindi possono essere preparati anche il giorno prima.
Poco prima di servire: rosolate in padella gli strudel in poco olio profumato con uno spicchio di aglio evitate di fare una crosticina troppo spessa che renderebbe troppo croccante lo strudel, quindi giratelo spesso. A parte in padella scottate qualche anello di calamaro, fate aprire qualche cozza e vongola tenute da parte. Togliete il pesce e scaldate una salsa base di pomodoro, salate, pepate e diluite con qualche cucchiaio di acqua di cottura delle cozze e delle vongole.
Servite specchiando la salsa, disponete il pesce e lo strudel e profumate con del basilico fresco.



E se li chiudi tu gli occhi ?

20 giugno 2010

Alla fine si torna sempre

Quando mi ha dato le indicazioni non ho fatto caso ai nomi. Ho pensato: poi metto il navigatore e vado. I navigatori rovinano la consapevolezza dei viaggi, la certezza dei luoghi. Arrivi in posti che pensi sconosciuti, ma poi scopri familiari. Posti che poi quando ci arrivi ti penti di averlo fatto con il navigatore. Allora lo spegni di corsa e lo infili sotto il bracciolo, o nel cruscotto, lo nascondi, ma non alle persone, lo nascondi alla tua coscienza. Perché in quel posto dove sei arrivato, tutto dovevi fare, tranne che arrivarci con il navigatore. E’ una debolezza, un tradimento, ecco si un tradimento. Ci venivi in bicicletta nelle domeniche di autunno, senza navigatori e senza carte. E se non sapevi la strada per tornare a casa, ti fermavi e chiedevi. Mi sono vergognato si, anche se non c’era nessuno, ho pensato che se per arrivare qui ad Iseo avevo bisogno del navigatore era il momento di buttarlo. Ed ora arrampicato lungo questa scalinata che porta alla chiesa, in attesa come il parroco e il sacrestano, degli altri, penso che un tempo mi masticavo i chilometri di queste strade. Dal paese dove abitavamo arrivavo al confine con l’Italia poi lo costeggiavo senza attraversarlo e ritornavo salendo e attraversando tutto il Malcantone.

Ci rituffiamo verso Lugano. Scendo lungo via San Gottardo, nello scarso traffico del sabato. Turisti indecisi nell’abbigliamento, serpeggiano lungo i marciapiede. Le pelli bianche lattiginose sinonimo di settentrionalità o dello scarso sole di questa non-estate.
Quando vivevo qui non frequentavo questo posto. Era il ristorante di una banca. Era aperto al pubblico, ma onestamente non mi entusiasmava, mi sapeva tanto di mensa, mensa da una stella, ma mensa. Ora è diverso. E’ sempre nello stesso palazzo, sempre di una banca, anche se diversa, la globalizzazione detta regole ferree. Ma la banca non c’entra più nulla e a gestirlo è una società che di mestiere fa questo. Quello di gestire tre dei posti più interessanti per la ristorazione e l’accoglienza di Lugano.

A farmi da guida, come un tempo, è la Lucia, gerente del locale. La Lucia del nostro essere italiani emigrati in Svizzera, quella che diede il nome di Spaccabal a Spaccabal. Mi porta in cucina a rincontrare Alessandro Fumagalli e la sua brigata. Lei si muove come faceva un tempo nella sua “Rupe”, come nella cucina, enorme, di casa sua: sicura, decisa e impenitente.
In sala Pablo mi confessa la difficoltà di essere spagnoli in terra Svizzera dopo, l’uno a zero rimediato a Durban qualche giorno prima. Lo guardo compassionevole ma ho poco da commiserare se non il malcomunemezzogaudio, o il meglioavoicheanoi.
Alla fine ci buttiamo tutto alle spalle mentre mi accoccolo su questa poltroncina, a sorseggiare una Ribolla Gialla che non faccio in tempo a mettere in bocca e penso: Ribolla. Il profumo fruttato si sposa con la tartare di gamberi e papaia, l’insalta di astice e zeste d’arancia, la polpa di granchio e pesche, e si alla fine ci muore pure con lo scampo di tempura, tanto per non farsi mancar nulla.

Potrei saltare il risotto a piedi pari, ma non vorrei pentirmi di non potermi pentire, e non mi pento: la cottura è perfetta nella semplicità dei fiori di zucchina e zafferano; la mantecatura da tre giri di “ola” è tutto merito dello stracchino e della mano del cuoco. Il polpo tiepido con le olive taggiasche mi strappa una lacrima per la cottura del polpo, e mi lascia un dubbio sulle olive taggiasche. Quando mi portano la lombata d’agnello in crosta di semi speziati i dubbi se ne sono tornati in Sud Africa dritti come una palla. Mi restano solo le certezze di una cottura perfetta e di un equilibrio di sapori che con il Merlot di questa terra, balla la rumba, la samba, la salsa e… la salsa era da urlo, roba da scarpettare ingegnosamente il piatto se solo avessi avuto ancora pane. Alla fine ho degnato di attenzione un sorbetto al limoncello, di giusta e buona fattura.

Mi alzo e me ne fuggo nella "smoke longue" con la voglia di un "Romeo y Giulieta" nr. 3, che tale rimane. Mentre ripenso all'agnello il deja-vù di sapori, che prima mi era rimasto sulla punta dell'ippotalamo, ora mi si apre davanti agli occhi: era un pepe. Un pepe conosciuto la sera prima, grazie a due care persone, trovate in questo blog, e incontrate sulle rive del lago Maggiore. Ma questa è un'altra storia e la racconterò un'altra volta.


Villa Saroli
v.le Franscini, 8
CH-6900 Lugano

13 giugno 2010

La prossima volta

E' stato il rumore dell'auto che si fermava.
Probabilmente se ne stava seduto in qualche angolo del garage di casa. Mi guardo intorno il campo che una volta era dedicato al grano, è da tempo un'immenso orto. Centinai di metri quadri ad insalata, fagiolini, una foresta di canne pronte a lasciarsi abbracciare dai pomodori. Più oltre lontane dalla strada le fave. Mi volto e lo vedo, dalla parte opposta della strada, mi viene incontro, zoppicante, il passo strisciante, quasi infermo. Faccio mente locale su quanto tempo sia passato dall'ultima volta che ci siamo incontrati.

Forse è passato qualche anno. Forse. O forse il doppio del tempo da quando ci siamo conosciuti. mentre arranca verso di me, mi pento di essere venuto, lo sforzo che fa per raggiungermi è quasi penoso, ma non demorde. Gli dico chi sono, chi è mio padre, nel dubbio che la mente abbia fatto la fine delle gambe. Ma, mi guarda con un'aria quasi di commiserazione prima di dirmi: "Guarda che non so cieco! Come stai ?"
Bene e tu. E' un attimo e poi mi ribalta addosso una fetta di vita con tutto quello che ne consegue Di tutte le cose che dice, memorizzo pochissimo, quasi nulla, neanche i nomi delle persone che nel frattempo sono morte, mi si imprimono in testa. Mi perdo, ascolto la voce, ma non ascolto le parole, è come se quella voce, la sua voce, mi riportasse indietro nel tempo. Tutte le piste che ho fatto con Ciccio, la vecchia casa e i pranzi di Sara, Remo che "smontava" il maiale e il norcino ... il norcino ... chi era il norcino ?


"Che te serve?" Ciccio mi riporta su questo angolo di campo, sotto questa quercia, una stadera appesa, il vecchio vespino parcheggiato, i secchi vecchi di vernice, altre cianfrusaglie, i pezzi di quella vita ... "Le fave, Ciccio. Mi servono un po' di fave". Che siano le fave a riportarmi qui la dice lunga. Una volta si passavano pomeriggi, seduti in cortile a "stegare" fave e mangiare pecorino. Mucchietti di sale sparsi sulle tovaglie, file di pane e fette di lonza. Lo racconto a Leonardo, gli faccio vedere il vecchio cortile, su più in alto e lui ha una strana luce che gli attraversa lo sguardo. La luce di chi avrebbe voluto esserci, o forse quella di chi c'è stato, senza mai esserci venuto.

Raccogliamo le fave, poche, non ne occorrono più tante, quel poco che basta, ora, senza cortili ne tovaglie, ne sale sparso sopra. Non raccogliamo secchi come una volta, ne basta un cartoccio, o poco più. E non dico a Ciccio cosa ne farò, non capirebbe, non potrebe capire se gli dicessi che ci faccio:

Calamari ripieni di fave e pecorino


Per la farcia:
ho pulito delle fave tante da essere abbastanza, ho tolto anche la pellicina attorno, o meglio lo ha fatto Leo, ho battuto due uova, salato, pepato, un profumo di noce moscata, ho sminuzzato dentro cinque fette di pane in cassetta eliminando i bordi, ho aggiunto le fave e il pecorino fresco a tocchetti. Se il pecorino dovesse sembrarvi eccessivo, va bene anche una caciotta di latte vaccino.
Ho pulito i calamari e poi li ho riempiti della farcia con una sac à poche. Ho rosolato i calamari con un filo d'olio in padella e poi li ho passati al forno per cinque minuti. Un consiglio rosolate a fuoco basso, e se la farcia dovesse fuoriuscire, niente paura, alla fine della cottura la recuperate con un paio di cucchiai e ne fate delle quenelle.
Servite una volta freddi, accompagnando con delle bollicine di livello.


Mi ha detto che per quel cartoccio di fave bastava un euro. Ho aperto il portafoglio e gliene ho dati cinque, ha protestato, ha fatto il gesto di restituirmeli, e poi ha detto quello che volevo sentirmi. "Va bé allora avanzi, la prossima volta appareggiamo". Si la prossima volta Ciccio.


02 giugno 2010

Respira

Fuori dell’ospedale c’era la neve. Tanta neve. E non so neanche se potrei chiamarlo ospedale. Un centro per la cura dell’asma infantile è un ospedale? Che mica sembrano malati, sempre che non stiano male. O meglio sempre che non siano in preda ad una crisi.
Ci siamo arrampicati fin lassù, ennesimo tentativo dopo aver provato un po’ di tutto. Siamo saliti lungo la valle che il Piave mangia in questa terra. Pian piano lo abbiamo accompagnato nel suo scendere verso il mare, salendo invece noi, a volte a sinistra a volte a destra. Ponte alle Alpi, Longarone, “povera Longaron”, e povero anche Castellavazzo, e poi tutti i paesi che alla fine hanno attaccato al nome “di Cadore”: Ospitale, Pieve, Calalzo, Domegge, Lozzo, Vigo e poi ad Auronzo ci siam separati dal fiume.

Quando Matti mi ha chiesto se gli avrebbero fatto le stesse cose di sempre, ho detto si, e lui mi ha chiesto se fossi sicuro che andavamo in un ospedale e non a sciare. La neve tornava a cadere sopra ai cumuli che lungo la strada si andavano ingrandendo. Con dieci tornanti abbiamo fatto cinquecento metri di dislivello, e siamo apparsi nella valle di Misurina, bianca sotto un cielo basso e grigio. Qualcuno mi aveva detto, prima del lago, ma visto che il lago era sotto la neve, e l’ospedale (sempre che lo si possa chiamare così), tutto sembra tranne che un ospedale, mi son ritrovato alla fine del paese prima che me ne rendessi conto. E si che Misurina a me diceva qualcosa, un vago ronzio nella testa che mi punzecchiava sottile. Ma che la montagna non mi punzecchi è cosa rara e così mi son lasciato concentrare da tutto quello che avevamo da fare, da quello che il medico diceva, dalle domande, dalle spiegazioni e dalla “tesi di laurea” che alla fine ci siam ritrovati tra le mani e il cui titolo era “Terapia antiasmatica per Spaccabal” in effetti non c’era scritto Spaccabal ma ci sarebbe stato alla grande.

E non so, se fosse stata l’aria frizzante di Misurina, o lo stato di ansia che ci stava abbandonando per una tranquillità ritrovata, o magari solo perché erano le una passate; che ci siam detti: “Bé io c’avrei fame!” Qualcuno ha detto “Tanta !” qualcun altro “Di più” e siam scesi a Dobbiaco. Che mica poi è così distante. Basta prendere la strada che passa a fianco e sotto alle Tre Cime di Lavaredo, ecco cosa mi ronzava.
A Dobbiaco o meglio arrampicato su di una collina laterale in località Gandelle (o Kandellen in indigeno) c’è una locanda con osteria che si chiama

SEITERHOF


gestita dai coniugi Sieglinde e Herbert Kamelger. Al telefono è lei che mi da indicazioni per ritrovarli arrampicati come sono. Il locale è tipico accogliente, di quelli che ti metti un po’ sbracato e di traverso sulla sedia come faresti a casa tua.


Salgo fin qui per mangiare il Graukaese il “Formaggio Grigio”, il nome deriva dalla muffa che lo ricopre di una colorazione grigio-verde, la quale conferisce il tipico sapore. Dieci settimane di maturazione in malga, scoperto per caso in tempi in cui non si buttava via nulla, viene prodotto lasciando semplicemente inacidire del latte vaccino magro, senza far uso di caglio. Ne deriva una massa granulosa, pressata in pani sulla cui parte esterna durante la stagionatura compare la muffa tipica. Si presenta con una pasta marmorizzata, con nocciolo interno bianco-gesso che, a seconda del grado di maturazione, può diventare giallo e untuoso.
Ha un sapore amarognolo ed un aroma molto intenso; risulta un pò secco al palato e per questo motivo viene generalmente condito con aceto, olio ed erbe aromatiche, sale e pepe a piacere. L’ho mangiato come la tradizione vuole condito assieme a fette di cipolla bianca e alla tipica pagnotta di segale della Pusteria. Senza spaventarmi dell’olio visto che in questo formaggio la materia grassa sul residuo secco non supera il due per cento.
Ottime le tagliatelle di Matti irrinunciabili i ravioloni ripieni, scomparsi prima della foto, e grandioso l’agnello, spettacolari i pani, bella la carta dei vini.


E poi s’è addormito


Seiterhof
Località Kandellen,7
Dobbiaco
Tel 0474 979114
Prezzi tra 30-35€ (esl. Vini)

Solo per la vostra curiosità l'edificio al centro di questa foto è il famoso ospedale. Secondo voi lo si può chiamare "ospedale" ?