22 luglio 2009

Un'altra estate ...

Quella fu l’estate in cui diventai grande.
Fu l’estate alla fine della quale avrei voluto tornare bambino.

Fino ad allora avevo girato l’Italia, “spedito” in vacanza da nonni e zii, a turno con mio fratello, in uno scambiarci stanze e letti. Nel mezzo qualche ora per ritrovarci, a raccontare le cose dei bambini, a ridere complici, ad abbracciarci da fratelli che siamo in lunghi saluti. Per poi riperderci, alternati, nell’assolata spensieratezza dell’estati dell’Italia del “boom”.

Conobbi così, la Val’ da’Aosta, Follonica, Capanne, Viareggio. Tutte località legate da un unico filo conduttore: la Montecatini, le sue miniere e le sue cave di marmo. Passai un paio di estati nel piccolo giardino di Lillaz, a romper le palle ai quattro pesci rossi che vivevano nella fontana che c’era lì. Mi feci intimidire da un paio di gatti che non mi lasciavano passare sull’unica stradina di Capanne, obbligandomi a giri improbabili per raggiungere il negozio di alimentari del paese. Mi piantai su un marciapiede di una via di Follonica finché non mi comprano una macchinina gialla, quando invece avrebbero dovuto prendermi a schiaffi. Feci volare per ore un aquilone paracadutista ai bagni Rossella di Viareggio, in attesa dei miei genitori, e quando poi una folata di vento me lo sbatte a terra, loro arrivarono.

Poi le cose cambiarono cominciai a crescere. Alla veneranda età di undici anni inizia a passare le estati nella casa di campagna dei nonni. Dalla costa anconetana alle colline dell’entroterra. Quelle estati in cui il canto delle cicale faceva da contraltare alle grida dei ragazzini. I primi mangianastri, e le scatole di scarpe piene di canzoni. Le prime sigarette, i pacchetti infilati nei calzini o nelle maniche delle magliette, lo sciacquarsi la bocca prima di tornare a casa, per mascherare il puzzo del fumo. In quel periodo fece la sua comparsa, improvvisa e inaspettata, anche il testosterone. Da ragazzini rincoglioniti diventammo ragazzini rincoglioniti e “affigati”. Nacquero i primi amori, e le prime grandi delusioni. Ci si innamorava di coetanee impossibili, ragazze a cui apparivamo bambini con la puzza di latte. Una fiat 850 sport aveva molte più chance di successo, di una bicicletta tenuta con il fil di ferro. Sognavamo, di quei sogni che ti fanno camminare strano, un improbabile “Felice Della Pietà”, per le strade di un paesetto di trecento anime. Ogni estate ripartivamo da dove avevamo lasciato l’estate prima, con un continuum spazio-temporale da far invidia al triangolo delle bermuda. Ogni estate la stessa scenografia, gli stessi personaggi la stessa coreografia, la trama che filava liscia come un olio.

Poi arrivo quell’estate. L’estate in cui divenni grande. Di quell’estate ho ricordi sfocati in generale, vividi per alcuni momenti quelli che mi fecero diventare grande.
Di quell’estate ricordo anche un panino che mi venne propinato. Era imbottito di un “salume” che a detta delle leggende metropolitane raccoglieva gli scarti del cibo. Ma era buono e mi ci volle un po’ di tempo per conoscere la vera origine della:

Galantina


Considerato che di scarti non si tratta, io, per una bella galantina ho usato:
Due cosci di pollo disossati e un petto di pollo a fette, che ho battuti salati e pepati. Ho disposto il tutto su pellicola, aggiunta una farcia di 400 gr di vitello magro, 200 gr di maiale, magro anch'esso, e 100 grammi di mortadella, il tutto macinato finemente e condito con un uovo, 75 gr di parmigiano grattugiato, pistacchi sbucciati e spellati, noce moscata, sale e pepe. Ho poi aggiunto due uova sode, olive varietà ascolana denocciolate, un paio di carote e pezzi di prosciutto tagliati spessi. Ho chiuso tutto nella pellicola, e insaccato poi in una sacca da salumiere. Qui va bene anche un bel canovaccio inodore. Ho messo tutto a bollire con sedano, carota e cipolla per due ore due. Lasciato riposare per una notte e servito accompagnato da una giardiniera in agrodolce bella croccante.




13 luglio 2009

Le voglie passate

Ha gli occhi bassi sulle sue scarpe. Non che ci sia tanto da guardare ormai, sulle sue scarpe, ma resta li a fissarle. Scarpe “da tennis” blu, con stringhe e suola di gomma bianche, una suola che sale fin sopra a formare una punta tonda e immacolata. Quando le aveva tirate fuori dalla scatola questa mattina, sua madre, gliele aveva mostrate come fossero un trofeo. Magari non proprio un trofeo ma un premio si, sicuramente. Le aveva messe ed era corso fuori. Lei gli aveva gridato dietro qualcosa. Qualcosa che era suonato come un divieto. Qualcosa che aveva a che fare con calci, con punte e con pallone. Ma il puzzle della raccomandazione era rimasto lì: la scatola aperta, i pezzi in giro, abbandonati nell’aria.

Aveva attraversato il paese, troppo presto per ostentare la novità che portava ai piedi. Gli amici, i suoi amici, non si svegliavano così presto come lui. E così aveva vagato per il paese, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Le gambe nude a mostrare i segni di un dodicenne che passa l’estate all’aperto. Lo sguardo basso ad osservare le sue scarpe nuove, che una alla volta apparivano alla sua vista. Si era aggirato tra la confusione dei preparativi della festa del paese. I baracchini per i panini, quelli per il vino e anche quello del melone, già montanti e pronti ad entrare in attività. I cartelli scritti con pennarelli su fogli “bristol” gialli recitavano il menù e i prezzi. La trippa, i fagioli con le cotiche, le tagliatelle, le braciole e poi lui il prosciutto e melone. Gialli i “bristol”, giallo lo striscione, disteso in mezzo alla strada, due scale per parte. Una appoggiata al muro di una casa, un’altra appoggiata contro un lampione. Ci aveva girato intorno piano, attento a non calpestarlo, aveva piegato la testa per leggere: “IX sagra del prosciutto e melone”. E anche se di campi di meloni non aveva mai visti da quelle parti, la sagra del paese si ispirava proprio a quel frutto e al suo accompagnamento per eccellenza. Fu mentre cercava di immaginarsi per quale motivo proprio il melone, che apparvero loro. Gli occhi ancora gonfi di sonno, un pallone di cuoio sotto braccio, la domanda rimase li sospesa tra lo striscione che saliva e la loro ombra sull'asfalto. Anche se qualcuno si era accorto delle sue scarpe nessuno fece commenti. Si avviarono verso il campetto dietro le scuole. Una striscia di asfalto che mangiava, palloni, scarpe e ginocchia.

Forse giocarono per quattro ore, magari si erano pure fermati ogni tanto, ma quelle erano partite che comunque finivano con punteggi tennistici. E quando il campanile della chiesa aveva suonato mezzogiorno erano tutti seduti sul muretto, le gambe penzoloni nel vuoto, lucide di sudore. Era stato lì che si era accorto. La stoffa della scarpa, nel punto in cui si congiungeva alla punta di gomma bianca, era strappata. Un buco, o meglio uno strappo lungo tutta la lunghezza. Il cuore gli era balzato in gola, e continuava a battergli forte mentre correva verso casa. Più che una corsa era un camminare strano, un misto tra la marcia e la maratona, con un passo claudicante a non voler gravare il peso sulla gamba destra, come se questo potesse salvare o rimediare al danno.

Forse erano volate urla, sicuramente anche un paio di schiaffi, ma più di tutti era quel senso di commiserazione che lo aveva lasciato escluso dal pranzo del resto della famiglia. Nessuno che magari si fece venire il dubbio che se una scarpa non reggeva una partita di pallone, anche se era stata una partita di quasi quattro ore, finita con punteggi tennistici. Se una scarpa non reggeva una partita così, magari, in fondo in fondo, non è che fosse una grande scarpa. Sarebbe stato meglio riportarla in negozio, invece di far volare parole, schiaffi, e quella punizione. Oggi non esci e stasera niente festa. Addio ai giochi, addio alla ruota della fortuna, addio al tiro degli anelli nelle bottiglie, addio al “48” e addio serata danzante con il complesso “Quelli della notte”. Ma tra tutto quello che più gli dispiaceva, che più lo lasciava con un senso di mancanza forte e assoluto, era dire addio al piatto di prosciutto e melone. Che proprio gli era venuta una voglia che gli sarebbe rimasta lì per una vita, ne era sicuro, di quelle voglie che te ne saresti ricordato per sempre. E magari un giorno da grande si sarebbe comprato un paio di scarpe, più resistenti e si sarebbe fatto un:

Tortello di burrata e prosciutto con gelato al melone



Per quattro persone con la voglia rimasta dall'adolescenza: 200 gr di burrata, 200 gr di crudo Parma o San Daniele tagliato a julienne, che amalgamerete alla burrata sminuzzata al coltello. Se dovesse risultare toppo liquida incorporate anche un paio di cucchiai di parmigiano grattugiato, ma non esagerate. Preparate il tortello nel modo classico. Precedentemente preparate un gelato al melone: con 100 gr di panna e 100 di latte che porterete ad ebollizione insieme ad una buccia di limone. Togliete dal fuoco, eliminate la buccia di limone e aggiungete un rosso d'uovo, incorporando energicamente con una frusta, lasciate raffreddare. Passate 200gr. di melone al minipimer, aggiungete un pizzico di sale e un paio di cucchiaini di zucchero, incorporate al latte e mettete in gelatiera. Preparate una crema di piselli cuocendo 200 gr di piselli in poco brodo vegetale, e passando tutto al passaverdura, incorporate 25 gr di parmigiano grattugiato. Preparate il piatto con la crema di piselli tiepida, i tortelli lessati e saltati in padella con una piccola nove di burro e una quenelle di gelato al melone.