27 settembre 2007

Croce e Delizia

Ho un amico "ancunetano", con cui condivido chiacchiere mattutine prelavorative. Tanto per non sentirsi soli, e non dimenticare tempi passati. Lui da buon "ancunetano" non può risconosce la mia adolescenziale permanenza a Palombina Vecchia, come una succedanea cittadinanza del capoluogo. "Stavi delà de Collemarì". E quindi mi fa, ogni volta che gliene offro l'occasione, da cicerone nella tradizione dorica. E' accaduto spesso di ritrovarci a cena insieme. L'ultima, a Portonovo, il menù, contemplava il misto antipasto tipico di queste parti. Tra cui le "crocette". La crocetta è un "mesogasteropode strombaceo", cugino del più famoso "garagolo" protagonista della sagra di Marotta. Ma la crocetta è solo anconetana, e ogni volta che gli finisce sul piatto, Lui il mio amico, ne prende una in mano si siede vicino a me, mi mette una mano intorno alla spalla e recita, con fare farzesco, le istruzioni per mangiare la crocetta:

Se pine 'n tra do' deti com'un fiore;
le bagi come fosse el primo amore;
prima in tel cuderizo un bagio seco,
pò volti e bagi in do' che c'era el beco.
Ciuci e riciuci, lichi scorze e deti;
è un ino de chiopeti e de fischieti
e te viènene su qùi ciciolini
che udorene de mare e de giardini.
Ricòrdete ma prò che la cruceta
da per lia sola è misera, pureta,
è com'un quadro pieno de vernige,
un quadro bèlo senza la cornige.
E alora, perché el gode sia completo,
ce vòle, digo vòle, un bichiereto
de vi' ogni sete cici, in abundanza,
de modo che ce sguazi in te la panza...
Io guardo 'sta cruceta sbruzulosa
cun 'st'anima gentile;
cià qualcosa del caratere nostro anconità;
rozo de fòra, duro, un po' vilà
ma drento bono, un zuchero, 'n'amore...
ché nun conta la scorza, conta el còre.




E come si cucinano le:
Crocette in porchetta ?

da " 'Na chiachiarata cun nona bon'anima "
Se sbeca, sarìa a di' se leva vìa,
i bechi e el cuderizo, po' se pìa
l'aqua salata e lava che te lava
fino a che c'è la bava.
Po' ce vole 'na pigna; ce se mete
oio, fenochio forte, do' brancete
d'usemarì, do' spichi d'aio, sale,
i dài (che n'j fa male)
de pépe a stufo e apena rusulato,
buti gió le crucete ch'hai spurgato.
Per fai pià l'onto j dai do' o tre sbalzate
e, quando ch'ène bèle che rivate,
daqui c'un po' de vi' de la chiaveta.
Dài qualch'altra scosseta,
gióntece la conzerva ch'hai squaiato
e, quando che 'l ciciolo s'è stacato
dala scorza, leva la pigna e svòta
che la cruceta è cota.


Le due poesie sono di: Eugenio Gioacchini ( detto Ceriago)

La ricetta, per chi magari è rimasto con qualche dubbio, è questa. Tagliete le punte (bechi) e i fondi (cuderizo) aiutandovi con una tenaglia. Lavate e rilavate cambiando spesso acqua fino a che non scompare la bava, qualcuno sbollenterebbe ma è meglio di no. In una casseruola (pigna) fate soffriggere due spicchi d'aglio, con finocchio selvatico tritato e rosmarino in olio evo buono. Si sala e si pepa il soffritto. Poi si abuttano le crocette che si fanno scottare a fuoco vivo. Si aggiuge un bicchiere di vino bianco e si lascia sfumare, per aggiungere alla fine dei pomodori pelati e passati o pomodori freschi finemente sminuzzati. La crocetta è cotta quando si stacca dalla conchiglia.
Da annaffiare con un Verdicchio dei castelli di Jesi classico superiore, da provare per questo piatto il TERRE DEI GOTI di
Stefano Mancinelli, non freddo ma ghiacciato.

Una considerazione: di solito con questi piatti ci si mangia unchilo, unchiloedeucentogrammi di pane. A testa naturalmente.

25 settembre 2007

8 cose 8 su di me

Va bene, a me i meme non piacciono. Lo faccio solo perché penso che chi lo lancia voglia scoprire qualcosa di più sul destinatario. Lo faccio perché è notte fonda non ho sonno, ho pensieri e ho finito un altro libro. Allora se servono a capire le persone,i meme, se servono a raccontare qualcosa di chi li scrive,allora è bene cominciare da piccoli.

1. Quando ero bambino ho fatto mangiare ad un mio amico, tale Moreno, i frutti della ginestra. Gli ho raccontato che erano i fagiolini, i cornetti, che la mamma gli cucinava. Ne ha mangiati talmente tanti che ha avuto un blocco intestinale. La mamma di lui si è lamentata, tanto, con la mia. Il primo schiaffone mi ha messo in ginocchio, da lì è stato facilissimo infilarsi sotto il letto.

2. Quando ero bambino mi attaccavo, di nascosto dai miei genitori, sempre al bottiglione del vino, tracannandone una quantità non da poco. Un giorno in cucina in bella vista c'era un bel bottiglione di bianco dalle sfumature oro-verdoline, mia madre era uscita a far spesa. Ne tracannai un tre o quattro sorsi belli grossi tutti d'un fiato e tutti di corsa. Mi sono accorto quasi subito, ma troppo tardi, che si trattava di olio di oliva e non di vino. Mia madre mi ritrovò "purgato" e in preda a conati, nel bagno di casa. Aveva un'aria un tantinello soddisfatta.

3. Quando ero bambino, tanto bambino, trascinai mio fratello piccolino, che gattonava appena, in soffitta. A mangiare l'uva che veniva lasciata appassire in autunno. "Le ricerche dei due bambini scomparsi sono proseguite per tutto il pomeriggio con l'aiuto di mezzo paese e di tutte le forze dell'ordine disponibili. E' stato dragato anche il "vallato" alla ricerca dei corpi, ma senza risultato alcuno..." E certo ! Stavamo in soffitta.

4. Quando ero piccolo c'era un bambino, si chiamava Walter, che aveva il pallone sempre nuovo. Per giocare con il suo pallone bisognava assoggettarsi ai suoi capricci, anche se le regole erano stabilite e chiare dall'inizio della partita. Perché lui, se non lo accontentavi, prendeva il pallone e diceva "Va bene, allora io vado a casa!" A questi bambini, per il loro bene, bisogna menarli da piccoli che poi da grandi hanno lo stesso carattere da deficienti.

5. Quando ero piccolo una volta caddi per le scale, mia mamma accorse preoccupata e vedendomi spaventato mi portò al bar per comprarmi un gelato. Da quel giorno ogni tanto mi buttavo per le scale, ma la cosa è durata poco. Dopo due volte siam passati dal cornetto al ghiacciolo e poi più niente.

6. Da bambino io guardavo la televisione a testa in giù... Non l'ho mai detto a nessuno. Neanche a mia moglie che urla a "Spaccaball" di stare seduto composto quando guarda la tv e si chiede dove possa aver imparato queste cose. DNA, mia cara, una spiralina che sta dentro alle cellule.

7. Quando ero piccolo presi la bicicletta su cui non sapevo andare. La portai fino al punto più alto del paese, e mi lancia in discesa. Per simulare la postura dei ciclisti professionisti, misi le mani sui freni invece che sul manubrio. Hai mai provato a tirare i freni di una bici tenendoci le mani sopra? Mio padre si parò in mezzo alla strada nel tentativo di fermarmi. Lo travolsi e finimmo tutti e due a terra, in mezzo alla risa della gente. Non ricordo se ebbi, due o tre calci nel culo.

8. C'è una foto del mio terzo compleanno. Si capisce che è il terzo perché sulla torta ci sono tre candele e io con il braccio destro alzato faccio 3 con le dita della mano, mio fratello è alla mia destra. C'è un'altra foto del secondo compleanno di mio fratello. Si capisce che è il secondo perché sulla torta ci sono due candele e lui con il braccio destro alzato fa 2 con le dita della mano, io sono alla sua sinistra. C'è qualcosa che non mi torna in quelle foto. Nonostante uno compia gli anni ad ottobre e l'altro a gennaio, in quei due compleanni siamo vestiti sempre allo stesso modo: un maglione verde io e uno rosso lui. Le candele sono uguali, le bottiglie sul tavolo sono le stesse e anche la torta è la stessa.

E ora che lo facciano Adina, K, Sergiott, Luc, Giovanna, Lory, Marzia, e per ultima Kix

Buonanotte!

21 settembre 2007

"Strumenti della nostra terra"

Prima di scrivere questo post, avrei voluto tornare a Servigliano, per (ri)trovare Stefano Dezi, e fare, magari, qualche foto. Ma è andata diversamente e, al telefono, l'ho lasciato con la promessa di una prossima visita. La prima volta, invece, che ho incontrato Stefano fu ad un corso di sommelier, in cui era invitato a parlare di un suo vino. Di Lui mi impressionò, la franchezza nel parlare, la profonda conoscenza della sua "materia" e il totale, assoluto e imprescindibile attaccamento alla sua terra. Il vino, se pur grande, passò per me in secondo piano. Fu il suo approccio al vino e all'enologia, quello di un Contadino vero, ad impressionarmi. Ho avuto modo di tornare a parlare di vino con lui, nella sua cantina, in mezzo alle su bottiglie. Ho capito allora di non essere di fronte ad una "passione", ma di essere di fronte alla vita, che, per caso familiare, si "incontra" con il vino.

Stefano ha una quarantina d'anni e fa vino da quando in calze corte, aiutava il padre nella vigna di famiglia. E' stato con Lui, però, che la Fattoria Dezi ha cominciato a farsi conoscere. Il ragazzo se ne è andato in giro per l'Italia, e non solo, ad imparare il mestiere dai Grandi del vino. Tornato in quel paese dell'entroterra, Fermano oggi, Ascolano ieri, ha messo in pratica gli insegnamenti. Intorno alla metà degli anni '90 ha iniziato a far parlare di se con il Rosso Piceno, doc in cui è situata la cantina. Una maturità raggiunta intorno al 1997. Non c'è voluto troppo tempo, perché quel disciplinare cominciasse a stare stretto a Stefano e al suo modo di fare vino: "Vedi, noi siamo strumenti della nostra terra", mi dice chiacchierando, "E' la natura che ci governa. Lei a volte ci dà cose eccezionali, altre volte meno". Ad un certo punto decide che quella terra può dare cose ben diverse, da quello che le "leggi" dell'uomo vorrebbero.

Nascono allora due capolavori della terra marchigiana, due IGT da urlo: "LA REGINA DEL BOSCO" un Montepulciano al 100% che raggiunge i 15% alcolici. Mediamente diecimila bottiglie. Un rubino carico con sfumature granate, una complessità al naso, fatta di frutta nera, liquirizia, caffè tostato e spezie. In bocca la potenza alcolica è equilibrata da una freschezza che solo cinque anni non ha ammorbidito, e da un tannino rotondo e maturo. Destinato ad una giornata autunnale, di nebbia insistente, rallegrata da un brasato di capriolo e polenta. L'altro, ultimo arrivato, con seimila bottiglie circa è il "SOLO": sangiovese in purezza, con una gradazione alcolica tra i 13,5% e il 14%. Un rubino profondo e luminoso. Spettacolare nei profumi di frutta rossa: amarene, fragole. Per passare poi piacevolmente a profumi più complessi, che ricordano la moka, il legno, l'ebano, e un finale di animale molto discreto. In bocca è perfetto: un alcool maturo, un tannino compatto ed una freschezza associata ad una bella sapidità a completare una Pai lunghissima. Ideale per un piatto come il piccione ripieno con erbe di campo. Un piatto della terra marchigiana da abbinare con i frutti della stessa terra.

"La natura è tutto. E' Lei che guida. Lei se ne frega dell'economia, della televisione, Lei sola sa, quando è ora..." dice Stefano "... e noi contadini dobbiamo prendere ciò che ci dà al momento giusto e ricavarne il meglio."
Dalla balconata della sua cantina, fissa la vigna e più lontano la campagna marchigiana. E poi oltre, fino a chissà dove, arriva il suo sguardo, il suo pensiero. "La natura è ineguagliabile!"

Fattoria Dezi
Azienda Agricola Romolo e Remo Dezi
Contrada Fontemaggio, 14
63029 Servigliano (AP) o (FM)
Tel. 0734 710090

Questo post partecipa al Vino dei Blogger #10

18 settembre 2007

Tre cose tre


La prima è che l'idea di questa ricetta l'ho avuta leggendo il post di questa ragazza, proprio qui.
La seconda è che mi sono accorto che, nel mare di str***te che invadono le cassettiere e gli scaffali della mia cucina, io non ho i cerchi da mousse. Ora è vero che ho poco tempo, ma bisogna che questi cerchi me li compero. E poi appena trovo una giornata di tempo, butto tutto quello che viene usato meno di una volta ogni sei mesi. Quindi la mia mousse non era una monoporzione, anzi, giocoforza ho optato quindi per uno stampo da dolce con il bordo asportabile. Siamo a livello di un chirurgo che opera con un "marraccio"
La terza e che non ho seguito la ricetta di K, che sarebbe la ragazza di prima, ricetta, che poi è la ricetta di Adina, la ragazza simpatica che nel post precedente si è fatta quattro risate ;). Comunque per la ricetta ho fatto di testa mia. Come d'altronde succede da quarantanni a questa parte.



La ricetta di questa

Doppia Mousse con frutti di bosco


recita sostanzialmente questo:
Per la base: biscotti secchi circa 250 gr. finemente sminuzzati e in cui incorporare 75 gr circa di burro fuso. Il composto va schiacciato bene,a formare un fondello consistente.
Per la mousse al cioccolato: 150 gr di cioccolato almeno al 55%. Io ho usato la selezione Cuba della Lindt. Farlo sciogliere a bagnomaria, con 100 ml di latte e 100 ml di panna, a parte separare i tuorli di due uova, aggiungere uno o due cucchiai di zucchero e montare, incorporare poi i rossi montati al cioccolato, girando energicamente. Incorporate ora un foglio di gelatina ammollato in acqua fredda per qualche minuto. Togliere dal fuoco e lasciar raffreddare. Montare i due albumi a neve e incorporare delicatamente al cioccolato senza far smontare, con un movimento rotatorio dal basso in alto. Versare nella forma e lasciar raffreddare in frigo fino a ottenere una buona consistenza.
Per la mousse di frutti di bosco. Mettete 4/5 cucchiai di frutti di bosco misti in un padellino antiaderente, aggiungere un bicchiere d'acqua e due cucchiai di zucchero. Portare ad ebollizione per un paio di minuti, recuperare un bicchiere del succo e tenere da parte, Passare il resto al passatutto e filtrare al colino. Aggiungere la salsa filtrata di frutti di bosco a 500 ml di panna che avrete portato a 85 gradi. Incorporate ora tre fogli di gelatina anche'essi ammollati in acqua fredda per qualche minuto. Lasciate raffreddare e poi aggiungete sopra la mousse di cioccolato che deve essere talmente densa da sostenere il peso della nuova intrusa. Rimettete in frigo e lasciate raffreddare. Una volta addensata anche la mousse di frutti, preparate uno sciroppo con il liquido che avete tenuto da parte, a cui aggiungete poca acqua e un cucchiaio di zucchero. Portate ad ebollizione e incorporate due fogli di gelatina che avrete ammollato .... come prima
Disponete dei frutti di bosco sopra la mousse che ora sarà rappresa e versate lo sciroppo rimettete in frigo e andate a dormire che nel frattempo si è fatta notte e non è il caso di continuare :))))



Questa ricetta è oggettivamente lunga da leggere e da fare, talmente lunga che a me alla fine non andava proprio di mangiarla. Debbo dire però, che chi non ha vissuto in prima persona le vicissitudini preparatorie, ha felicemente gradito. Talmente tanto che la prima fetta nonostante le raccomandazioni sembra tagliata con lo strumento di prima.
Conclusione i dolci fanno felici. Tanto. E allora se un mio dolce strappa un sorriso a mio figlio, uno schiocco di lingua a mio nipote, ben venga la lunga ricetta.
Grazie K e grazie Adina.

16 settembre 2007

Una giornata romana

Chiamo un paio di amici per invitarli a cena, magari uno spaghetto veloce, una focaccia, giusto per stare insieme. Al telefono capisco che sono in auto, stiamo andando a Roma, mi fa lui. Dietro, in sottofondo sento Lei, che canta, non capisco le parole, ma canta e parla con Lui, che però parla con me. Sento che ripete e sottolinea che stanno andando a Roma. Lei "vanta" origini trasteverine, che un giorno sarebbero da approfondire. Perché non basta l'accento pe' esse romani, che per quello ce vo' ppoco. Ci vorrebbe un albero genealogico, qualcosa di maggior spessore. Se no anch'io sodeRroma cor cognome che porto!!! La conversazione risente, oltre che del rumore dell'auto, del canto, per quanto intonato, di Lei. Ci salutiamo e ci auguriamo una buona giornata, sarà per una prossima volta. E va bene. Vi siete persi una cena da "Loste", che di questi tempi comincia a diventare una rarità.

Ma che si mangia a Roma? Aa' pizza, ma quella fina de Roma. E poi e fettuccine cor sugo. La coda alla vaccinara, la pajata, a trippa, e' poi l'abbaccacchio. E a proposito di abbacchio ieri una cittadina del mio entroterra in un edicola di giornali ho trovato queste cartoline "SOUVENIR D'ITALIE" Tutte le ricette regionali del nostro paese. Una stampa ed un'ambientazioni tipiche della fine degli anni '60. ne compero otto, le altre sono doppioni, le consegno all'edicolante per il conto, un signore settantenne, che mi chiede: vuole anche i francobolli? No che se le spedisco a qualcuno mi danno per malato.

Ma a Roma si mangia anche un'altra cosa, io lo so perché ci ho fatto il militare. E la domenica sera in libera uscita, cenavo con i:

Supplì di riso



Per una quantità imprevedibile, che tanto potete congelarli, e comunque per una trentina di supplì. Ho fatto un ragù di carne facendo soffriggere in poco olio evo una cipolla grande e tre carote, tutto tritato molto finemente. Quando le verdure sono appassite ho aggiunto tre etti di manzo macinato finemente e le interiora di pollo (durelli) che ho sminuzzato al coltello. Ho fatto rosolare bene la carne, l'ho spruzzata con due dita di grappa che ho lasciato sfumare, ho salato e pepato e poi ho aggiunto della passata di pomodoro, quanta ne serviva. Ho lasciato sobbollire per un'oretta profumando con un rametto di basilico. Ho lessato quattrocento grammi di riso S.Andrea di Zaccaria.Ho scolato al dente e raffreddato. Ho incorporato il ragù al riso e ho aggiunto 4 uova, di solito una per etto. Ho aggiunto cento grammi di piselli cotti in padella in poco olio. Ho preparato i supplì mettendo al centro un pezzetto di mozzarella (fior di latte), e passandoli poi ne pan grattato. Fritti e mangiati bollenti sono un pasto completo. Per me il pasto è completo già con due, per qualcuno ne servono sette :-0 E la sera ha anche cenato......

Aggiornamento e mea culpa. Sono poco preciso, ma per fortuna che le ragazze ;) che mi leggono sono attente e cosi ADINA mi chiede se ho fatto riposare il riso. Ebbene si due ore in frigo prima di fare i supplì. Grazie Adina.


14 settembre 2007

Colorarsi la vita

Ci sono giornate con poco colore. A volte momenti, altre volte periodi, anche lunghi. Quelli che tutti, solitamente, chiamiamo "grigi". Ci sono modi diversi per viverci dentro, chi parla, parla e racconta. Chi lo fa piangendosi addosso. Chi neanche se ne accorge e ci "muore". Chi resta in silenzio, tutto dentro la mente persa in pensieri veloci, irraggiungibili per tutti.

Ci sono tanti modi anche per uscirne, e ritrovare un po' di colore. C'è chi si affida ad una tazza di cioccolato caldo, chi se ne va a fare una chiacchiera con un nonno, chi invece parla con il cane del vicino o con gli uccellini. Io cucino, metto la testa nelle padelle, e più il grigio è quasi nero e più mi complico la vita. Un menù completo, compreso di tre o quattro tipi di pane, o una pasta veloce.

Magari una mezzamanica con zucchine e melanzane, saltate in padella con poco olio e salate solo a fine cottura. Una salsa base con tanta cipolla appassita, piano, piano in padella con poco olio e l'aggiunta di poca acqua di tanto in tanto. Quattro pomodori san marzano, belli rossi, senza pelle e semi, fatti a pezzetti e scottati, questa volta a fiamma viva insieme alla cipolla e ad un rametto di basilico, per cinque minuti. La pasta che ci salta dentro, le verdure che cadono nello sfrigolio della mantecatura, ancora acqua della cottura della pasta se serve. Il braccio sinistro che duole a forza di far saltare. Qualche pomodoro confit, che addolcisce il tutto, una manciata grande di parmigiano grattugiato. Una crema di mozzarella di bufala alla base del piatto e sopra la pasta, di corsa a sedersi. La prima forchettata che scotta la lingua, le teste basse sul piatto, i sorrisi ammiccati appena. Come sta il cane? Bene, bene. E gli uccellini? Volati via ....;)

12 settembre 2007

Uma demostracao de apreco

"Uma demostracao de apreco". Fu questa la risposta che ebbi quando chiesi perché avevamo prenotato il pranzo in quel ristorante. Il mio lavoro mi portava almeno una settimana al mese in Portogallo, più precisamente a Setubal. Una città di mare, terzo porto del paese, poco a sud della capitale. Un passato fatto di pescatori, di una fabbrica che fino al '900 lavorava le balene e una "fabrica de conservas de peixe" che tutto'ora inscatola sardine. I Portoghesi con la loro lingua giocano e girano e all'inizio degli anni novanta, da poco entrati in Europa, giocavano e giravano ancora di più. Il desiderio di non sentirsi ultimi era di tutta la popolazione, e quel senso di "non inferiorità" andava dimostrato in ogni momento.

Alfredo, con il suo ristorante, poco distante dalla "doca dos pescadores", era l'espressione massima di questo concetto. La cucina del Portogallo è(ra) grandiosa per la sua semplicità, il pesce (superbo) cotto alla griglia, o bollito in due dita di acqua profumate di odori. Servito con patate e verdure anch'esse bollite, o al massimo accompagnato con un insalata e condito con un olio della Serra di Arrabida faceva sì che ci si sentisse in pace con il mondo. Ma Alfredo no. Lui aveva sentito parlare di "nouvelle cuisine" di "Michelin" di un paio di fratelli francesi e di un cuoco "grosso e grasso", "que teigne la Legion d'honore". Io continuavo ad ordinare "espadarte de tamburil", "camarao grillado" o "gambas tigre" tutto immancabilmente alla griglia e con condimento a tavola. Lui tentava di rifilarmi rivisitazioni di piatti locali, internazionalizzati a modo suo. Era una battaglia che perdeva sempre. Quando apparivo, il lunedì sera, sulla soglia del suo locale si presentava con un sorriso a ventidue denti e cominciava "O' ddottore teegno....". Scuotevo la testa e lo portavo verso il banco del pesce di giornata adagiato sul ghiaccio, sceglievo e indicavo il marciapiede dove il "cuoco in seconda", grigliava al passaggio dei turisti americani. Uccidevo sempre la sua fiamma creativa.

Così quel giorno non gli sembrò vero. A prenotare era stato il responsabile della filiale, il quale doveva fare bella figura con gli italiani. Alfredo concepì una rivisitazione di un piatto locale famoso: il baccalau. Un piatto che di solito viene cotto in casseruola accompagnato da cipolla e peperone: buono. Alfredo servì le olive e il formaggio, immancabili sulle tavole Portoghesi. Versò un vinho verde della "Quinta de Avelada" e mentre si aggirava intorno al tavolo, sbuffava e soffiava al mio orecchio "E' muito bon ddottore...". Io tacevo e non raccoglievo. Arrivò il piatto, servito direttamente in tegame di cottura, il baccalà, fritto in precedenza, era appoggiato su un letto si patate affettate e rosolate nell'olio, coperto da una dose generosissima di besciamella leggermente e dorata, e tocco finale ad emulare gli stellati francesi, guarnito di gamberi e maionese. Non toccai cibo, oltre le olive il formaggio e il pane, chi lo fece, ne porta ancora i segni e le conseguenze ;). Alfredo rimase deluso e alla fine non occhi lacrimanti e imploranti, mi chiese "Ma ddottore por qué ?"
"Non tegno appetito....Alfredo"
"

Io adoro il baccalà, ma nessuno mi toglie dalla testa che anche questo è uno di quei prodotti che puoi solo rovinare. Va fatto con semplicità, una cottura veloce a lasciarne intatti i sapori, le verdure croccanti per accompagnarlo, qualche patata a contorno come mi hanno insegnato le donne della mia famiglia. E allora ecco:

Il mio Baccalà




Per quattro 600 gr di baccalà del tipo "Ragno" già ammollato, e lasciato poi in acqua corrente per un paio d'ore. In una casseruola fate appassire, con poco olio evo, una cipolla grande e un paio di scalogni, tagliati sottili. Aggiungete uno spicchio di aglio e lasciate andare per qualche minuto a fuoco medio. bagnate con mezzo bicchiere di vino e lasciate sfumare. Aggiungete un paio di carote, e mezzo cuore di sedano a testa, il tutto tagliato a bastoncino. Pulite una grossa patata per ogni commensale e tagliatela a fette grandi e aggiungetela al resto della verdura. Verdura che dovrà cuocere complessivamente una ventina di minuti, o più a seconda del grado di cottura che ciascuno di noi preferisce. Salate e pepate. Intanto a parte infarinate il baccalà che avrete tagliato a pezzi, passatelo poi in una padella dove avrete lasciato scaldare un filo d'olio evo. Lasciate indorare il baccalà per un cinque minuti per lato. Aggiungetelo a fine cottura, per gli ultimi cinque minuti, alle verdure e aggiungete anche dei pomodorini confit.
Servite guarnendo con del timo e con un filo d'olio buono a crudo.

Beveteci un bianco di carattere uno chrdonnay del collio, o anche più su. E si perchè il baccala è il solo pesce che "camminando" si è fatto cucinare in ogni parte della nostra terra.

09 settembre 2007

Il tempo per le cose

Quando scoprimmo, che ce ne dovevamo andare dalla Svizzera, la notizia ci lasciò l'amaro in bocca, di più: ci fece male. Avevamo trovato un equilibrio con quella terra adottiva che ci piaceva, che ci faceva star bene. Al senso di tristezza si aggiunse, subito, il senso della "mancanza". Ci mancavano le cose che non avevamo viste, ci mancavano le cose che poi ci sarebbero mancate, ci mancavano le cose che non avremmo mai conosciuto.

Così, accantonata la rabbia, cominciammo a girare a visitare posti nuovi, a ubriacarci di scoperte: valli, montagne, ristoranti, paesi, città. Viaggiavamo nei fine settimana accompagnati dalla colonna sonora di Davide Van de Sfroos, mia passione e dell'allora piccolo Leo. Fu così che "Pulenta e galena fregia" suonava sulle curve del Furka. Mentre "Breva e Tivan" ci accompagnò, immancabilmente, lungo il Lario, da Menaggio verso su: Dongo, Chiavenna e il Maloja. Terre di laghee, dove l'acqua del Lario e del Ceresio, unisce aldilà dei confini. Unisce in una lingua che bisogna esser bravi a percepirne le sfumature, per non definirla sempre uguale. Unisce in genti nate intorno a quelle rive, con in comune storie di emigrazione e di ritorni. Unisce in un passato fatto di "briccole", spalloni e finanzieri, a rincorrersi su per la val d'Intelvi. Unisce nel cibo a volte stranamente uguale, a volte profondamente diverso, che mangi a distanza di pochi chilometri.


Ed è proprio di un piatto che mi è rimasto il ricordo di quei giorni. Eravamo, oramai, alla fine dell'estate, gli ultimi giorni di vacanza, poi il rientro, e poi la partenza definitiva. Camminammo tutta la mattina lungo le rive di un'altro lago, che sta più in alto tra Maloja e Celerina. Finimmo in un locale, piccolo e carino, abbarbicato sulla riva opposta a quella della cantonale. Una via di mezzo tra il rifugio di montagna e il ristorante, dove una simpatica signora, che parlava in Romancio-ladino, voleva che provassimo ad ogni costo il suo capriolo.
Avevo lo stomaco chiuso e nessuna voglia di mangiare. I pensieri persi a quello che sarebbe stato, al futuro pieno di dubbi. Non era così per Leo che si gustò il piatto e raccolse il sugo "inzuppando" fette di polenta con fare certosino.

"Almeno il dolce" ci disse la signora in quel "Putér" che solo lì si parla. E credendoci Ticinesi ci propose la sua "Torta di pane". E mentre io mi chiedevo perché una torta di pane fosse arrivata fin lassù, mi misi a correre dietro al piccolo "spaccaball", un paio di mesi più di un anno, che trotterellando sul prato, era arrivato fino alla riva del lago.
La torta di pane, un dolce della povertà fatta con pane raffermo, ci venne servita con una salsa di crema alla vaniglia (troppa forse), leggermente tiepida e dolce.
Mi è rimasto un ricordo limpido di quella giornata e di quel dolce, ricordo, che con il tempo ho associato ai momenti particolari della mia vita. E visto che questo è un'altro particolare momento, ecco:


La torta di pane


In un contenitore capiente ammollate 250 gr di mollica di pane raffermo con 2 tazze di latte abbondanti, lasciate riposare in frigo per una mezz'ora, il pane deve diventare una "pappa" abbastanza densa. Aggiungete: 80 gr di cioccolato in polvere amaro, 50 gr di burro fuso, una manciata o due di uva passita e ammollata in mezzo bicchiere di rum, 50 gr di pinoli e, a piacere, 50 gr di canditi (arancio e cedro). Amalgamate bene. A parte montate 2 uova intere con 100 gr di zucchero semolato, incorporate al composto del pane in maniera che le uova non "smontino". Assaggiate il composto e aggiungete eventualmente zucchero o cacao a seconda del grado di dolcezza. Imburrate una tortiera con il bordo rimuovibile, e cospargete il fondo e i bordi di pane grattato. Una volta versato il composto, aggiungete per guarnire ancora dei pinoli, infornate a 180° per 45 minuti e lasciate,poi, raffreddare in forno.
Servite al naturale con una spolverata di zucchero vanigliato, o accompagnando in estate con un gelato allo zabaione, e in inverno con una crema di zabaione calda.

06 settembre 2007

Ma come fanno...

Ma come fanno i marinai a mangiare il pesce? E si perché a volte capita che vivendo in un ambiente, la passione, l'affezione, il piacere ti faccia crescer dentro una coscienza diversa dal resto del mondo. Come quel pastore che non riesce a mangiare più i suoi agnelli. O quell'allevatore di piccioni, che vive qui vicino, che i piccioni oramai li vende e basta. Personalmente non ho di questi drammi, perché immagino siano tali, ma posso capire chi li ha.
O meglio tempo fa, tanto, mi trovai di fronte ad un bivio. Un bivio tipo quello che ha incontrato questa ragazza che scrive: "Mi ricordo anche di quando ho cominciato a pescare con il mio minifucile ad elastico, che più che un fucile era una fionda, e che mi divertivo un sacco. Adesso non ci riesco più: il mio fucile (quello serio, "da grandi") è da anni in un'angolo della casa di Deiva"
Probabilmente è una cosa normale fare simili scelte, specialmente quando di fronte ai vetri della maschera ti appare roba di questo tipo. Un po' come quei cacciatori pentiti che di fronte ad un capriolo invece di tirar il grilletto, abbassano il fucile. Lei si chiama Kix e scrive della sua vita in BLU.

Bisognerà che un giorno mi faccia una chiacchierata con Gabriele il pescatore della mia pesciarola, ora dedito alla cucina e a quei sughi "terragni" pardon .... "acquagni" in tanto che ci pensate che ne dite di prepararvi una:

Tagliatellina tonno e pomodorini

Per quattro boccucce buone pelate e private dei semi una decina di pomodorini datterino, immergendoli in acqua bollente. In poco olio buono fate prender colore ad uno spicchio di aglio insieme ad un mezzo peperoncino secco. Aggiungete i pomodorini e fateli andare a fuoco vivo per un paio di minuti, salate. Aggiungete un 400 gr circa di tonno freschissimo fatto a cubetti e lasciategli prender colore per non più di un minuti. Lessate e scolate al dente 250 grammi di tagliatelle, finite la cottura in padella con il sugo, aggiungendo se necessario poca acqua di cottura. Servite con una grattata di pepe fresco, un filo d'olio buono e una manciata di prezzemolo tritato.

02 settembre 2007

Casualità

Abbiamo pensato, in famiglia, di allargare il concetto di sperimentalismo in cucina. Fermo restando che la "cucina" è sempre sperimentazione, questa pratica può avere tante sfumature. Per esempio, l'abbinamento di ingredienti a volte "strani" tra loro; la concezione di forme e strutture diverse da quelle naturali; la soluzione di problemi di logistica. Oltre a queste e a tante altre che tutti i cuochi e i lettori possono immaginare, abbiamo pensato, sempre in famiglia, abbiamo veramente tanto tempo a disposizione, o magari da un punto di vista diverso non c'abbiamo un c***o da fare, abbiamo pensato dicevo, di sperimentare la casualità. Le regole del gioco sono queste: ognuno di noi, siamo in quattro, entriamo in cucina e scegliamo, senza farci vedere dagli altri, un ingrediente che poi mettiamo in una scatola rossa, che è parte oramai dell'arredamento della cucina. Vale, come ingrediente, tutto ciò che si può trovare nella stanza e che sia commestibile, non sono ingredienti tutti i condimenti, le salse preparate, il sale, il pepe, e ho messo anche il parmigiano grattugiato. E' chiaro che in questo esperimento abbiamo dovuto istruire in modo adeguato "Spaccaball". Lui la prima volta è uscito dalla cucina con una banana in mano e quando gli abbiam detto che doveva metterla nella scatola ha risposto: "Ma io c'ho fame !!!" e se l'è mangiata. Al secondo tentativo non usciva più, e presi da, giusta, angoscia di genitore siamo arrivati giusto in tempo ad evitare che si ribaltasse dallo sgabello messo in equilibrio sulla sedia per arrivare non si sa dove. Alla fine dalla "magica" scatola sono usciti: Zucchine, patate, una anguria, e un cartoccio di lonza (o coppa) di maiale, scelta da "spaccaball" per ottenerne una:

Crema di zucchine con acqua di anguria

Senza replicare la nostra esperienza di casualità procuratevi, per quattro persone, 8 zucchine di media dimensione, pulitele, lavatele e tagliatele a tocchetti. Nel frattempo in una casseruola fate imbiondire in poco olio buono una cipolla tritata e qualche fetta di lonza, ma va bene anche prochiutto o speck, aggiungete le zucchine e lasciate rosolare per qualche minuto, coprite di acqua e mentre prende bollore sbucciate due patate fatele a tocchetti, lavatele e aggiungetele alle zucchine. Lasciate sobbollire a fuoco basso per 20 o 30 minuti. Nel frattempo private dei semi 200 g circa di anguria sminuzzatela finemente passatela con un colino, o frullatela velocemente al frullatore, lasciate riposare in frigo. Una volta cotte le zucchine, eliminate la lonza, e passate tutto al mixer ad immersione, salate e pepate, aggiungete a piacimento del parmigiano grattugiato. Servite nelle scodelle con qualche cucchiaio di acqua d'anguria e dell'olio buono a crudo.

Svelti che le angurie stanno per scomparire ;)