31 agosto 2007

Il giorno dei blog

Oggi si dovrebbe(ro) segnalare cinque blog che uno legge e che non fanno parte della sua categoria? Gruppo? Famiglia Professionale? :)))))
Qualcuno ha scritto le regole ma io non le ho lette tutte. E quindi non ho capito se questi blog devono essere sconosciuti o no. Ma se uno è sconosciuto come fai a conoscerlo e a dirlo agli altri? Quindi se qualche sconosciuto passando di qui vuole farsi conoscere lo dica nei commenti. Io cito:

NOT NOT TANA

perché disegnare è stato sempre il mio sogno (uno dei tanti) e visto che non lo so proprio fare mi sono messo a fotografare. E poi Luc è bravo,tanto.
Perché anche se la pubblicità a volte è uno strumento subdolo altre volte è una forma di comunicazione e di "arte" davvero interessante.
che è molto conosciuto ma magari poco da chi legge il mio blog.
che non è quello del libro dei Wu Ming che quando lo han scritto si chiamavano Luther Blisset, che poi cose così belle non ne han più scritte, ma che uno che sta diritto davanti al mio studio da dove scrivo ora, ad un cinquantina di chilometri. E che mi piace.
Perché qualche volta bisogna aver coraggio, tanto, di più.

Non ho seguito le regole perché non ho avvisato prima gli interessati, ma tanto loro si accorgono ugualmente. Poi se volete fare un esposto alle forze dell'ordine, fate pure. Uno più uno meno, chiederò lo sconto all'avvocato.
State bene.

28 agosto 2007

Riattacare la spina

I nostri rientri sono costellati di borse aperte traboccanti di biancheria da lavare, di scarponi da montagna lasciati a "spuzzare" in garage, di bastoni da trekking appoggiati solitari ai muri di casa. Il rientro è ovattato, lento, svogliato. Vaghiamo per casa distratti e inattivi. "Ciao Papà", continua a ripetere Leo ogni volta che ci incrociamo. Matteo sta recuperando il tempo perso in giochi e cartoni animati. L'unica a lavorare per riportare la casa alla normalità è Lella. La nostra presenza accidiosa, come diceva sempre mia nonna, al secondo giorno crea disturbo e prima che la situazione precipiti ce ne andiamo. Saliamo in auto e partiamo senza meta.
La mattina è fresca e limpida, ma nuvole ancora lontane promettono pioggia. Imbocco una strada che conosco bene, chiusa tra monti. Viaggiamo silenziosi, per i primi dieci minuti, poi vicino all'abazia di S.Emiliano, "Spaccaball" rompe il silenzio
"Chi ci viene a trovare oggi, papà?" è la sua domanda di tutti i giorni quando si avvicina il pranzo o la cena.
"Nessuno!", "E domani ?", "Nessuno!", "E domani, domani ?", "Nessuno!","E domani, domani, domani ?", "Nessuno!"
(...)
(...)
"Biciogna che cucini quacocia, se no non ci viene a trovare neccsiuno!"

Ci guardiamo con Leo e forse "Spaccaball" ha ragione. Ravioli? Tortelli? Cannelloni di magro! Siamo di strada, di strada per andare in un buon caseificio a comprare la ricotta fresca. Siamo già in Umbria quando passiamo sotto la Balza Grande del Catria. Ma siamo come equilibristi in bilico tra i confini della provincia di Ancona, quella di Pesaro e quella di Perugia. Quando arriviamo, Scheggia sonnecchia ancora negli ultimi giorni di ferie agostane. Arroccata sotto al monte Cucco, questo è il punto più basso di tutto lo spartiacque appenninico. Un fattore che nell'antichità ha costituito un elemento di sviluppo per questi luoghi. La via Flaminia passava e passa da qui, per andare da Roma a Rimini. "Ad Ensem" è l'antico nome del luogo, ma già prima che Caio Flaminio, avesse l'idea, qualcuno, intorno al tracciato di una Protoflaminia, attraversava il passo del corno per andare verso casa mia: l'antica Sentinum.
Noi attraversiamo il paese e raggiungiamo il caseificio Camaggioretto. Il formaggio è il risultato del conferimento del latte, vaccino e ovino, di allevatori locali disseminati nei dintorni. La signora è gentile e accondiscende alla sfacciataggine di "Spaccaball" che chiede di assaggiare una fetta di pecorino. Chiedo scusa e parlando con la signora scopro che ci accomuna, un secondo figlio con lo stesso nome e lo stesso carattere. "Mmmmh ... Buono !" sentenzia l'assaggiatore, che rifiuta di cedere, l'ultimo pezzo al fratello oramai caduto in depressione per il rifiuto. Buono sì! Buona la caciotta, il pecorino, che in stagione trova anche un variante in fossa, zona di sant'Agata Feltria, piuttosto delicata, buona la mozzarella (in effetti fior di latte), la scamorza fresca e la ricotta. Ne compriamo un po' di tutto, come sempre, ma in particolare un'intera ricotta, e poi a casa a fare un

Cannellone di magro con pepe di Sechuan


Tirate una sfoglia secondo il metodo classico che potete trovare anche qui. Questa volta ho voluto dare un po' di colore usando due cucchiai di acqua calda, poi raffreddata, in cui ho fatto sciogliere poco zafferano, per la gialla. Mentre la rossa è colorata da una riduzione, passata più volte al chinoise, di pomodoro fresco. Per la farcitura usate ricotta (1,5 kg per 10 uova di sfoglia), 4 rossi d'uovo e 100gr di parmigiano reggiano e una prolungata e generosa grattata di pepe di Sechuan.
Passate i cannelloni per 15 minuti al grill a temperatura massima e serviteli con una salsa di zucchina o di fiori di zucchina, o entrambe. Oppure nature con un filo di besciamelle.

"Ma papà, chi ci viene a trovare domani?". Domani nessuno, ma se gli amici di Scheggia si decidono noi li aspettiamo.

23 agosto 2007

Birra e luna piena

Il viaggio fin qui, a cercare la Birra della Luna piena, era programmato da tempo. Però dopo i fatti accaduti, ci abbiam pensato, riflettuto, siamo stati tentati di annullare, di lasciar perdere. Poi ci siam decisi, siamo andati, silenziosi, parlando sottovoce, e senza far rumore. La direttrice dell'ufficio informazioni, con un ombra nel cuore, mi dava tutte le indicazioni possibili sui luoghi e le cose da vedere, senza mai staccare gli occhi da Spaccaball. Le vie del paese sembravano più silenziose, di quanto lo potrebbero essere in un momento "normale". Il cielo grigio e basso pesava, e ogni tanto scaricava leggeri scrosci d'acqua, sottili e freddi. I bambini tornavano da scuola in bicicletta, in piccoli gruppi sparuti, costeggiando fiume e strada.
Appenzell merita di essere conosciuta per le sue case, per i suoi vicoli vecchi di secoli, per il suo verde, per il suo formaggio, e per la sua birra, e per null'altro.

E a proposito di birra tutto comincia all'inizio dell'anno mille, quando i monaci irlandesi, sulle orme del loro predecessore: Gallo, arrivarono in questi luoghi. L'Appenzeller, poco distante dalla città di San Gallo, dove nell'abazia riposano le spoglie del santo, era all'inizio del mille, zona di foreste in cui si cacciava l'orso, simbolo oggi dei due cantoni. Nel 1071, in questi luoghi, i monaci fondarono una parrocchia a cui diedero il nome "Abbacella", la cui etimologia può essere ricondotta ad Abate e cantine. Nell'atto di fondazione della parrocchia, vengono menzionate come parti o confini del territorio soggetto al pagamento della decima anche gli alpeggi di Soll, Meglisalp e Potersalp e i monti Kronberg e Hundwilerhöhe, segno di una presenza umana precedente. Con il tempo la foresta ha lasciato il posto a dolci colline in cui si coltivava orzo e malto. Il luppolo, coltivato qui, invece viene utilizzato per la produzione della birra di Natale.

Nessuna birreria, purtroppo, consente una visita, così non si possono ammirare i fermentatori aperti e tini orizzontali, ancor oggi utilizzati. La birra non è pastorizzata e si possono gustare: una lager non filtrata (Naturtrub); una Special maltata e leggera, invecchiata 6 mesi e una Dunkel dal gusto rotondo.

Ma la vera particolarità di Appenzell è la "Vollmond" la birra, appunto, prodotta solo quando c'è la luna piena: il meshing comincia alle 10 di sera e il lievito si deposita alle 6 del mattino, cosicché la fermentazione inizia sotto la luna piena. La Vollmond è una golden lager, prodotta in due gradazioni: al 4,8%, invecchiata fino a dieci settimane, dal gusto morbido ed asciutto, e una al 5,2%, maturata per dodici settimane, più morbida, maltata e dolce.
Non so se la luna faccia differenza, qualcuno parla di fermentazione più veloce, altri solo di tradizione, il padrone del negozio, che mi vende le birre, fa spallucce e sorride, poi me ne propone una con semi di cannabis.

Magari qualche differenza la luna la fa, se mio padre pianta i pomodori e le zucchine, quando la luna è calante e se la gente, purtroppo, ogni tanto impazzisce.

20 agosto 2007

Oggi dove andiamo ?

“Oggi dove andiamo?”
“Spaccaball” (Matteo) ha appena aperto gli occhi e spara la prima domanda della giornata. Dubito che la mia risposta gli possa piacere, ma tanto …
“Andiamo su una montagna a vedere come fanno un formaggio”.
“Uffa sempre i formaggi dobbiamo andare a vedere, basta non potete comandare sempre te e mamma!”
La ribellione scorre nelle vene del piccolo. Avrei voluto vedere la Montessori: convincere il ribelle che siamo una famiglia e che le cose si fanno assieme. Un paio di promesse e un paio di minacce e si va.
Partiamo da Cevio e percorriamo l’ultima parte della Valle Maggia, quella che da Bignasco sale ripida verso l’ultimo paese della valle: Fusio.
Passiamo per Peccia dove il fiume Maggia scava senza sosta, e imbroglia i colori delle pietre con quelli della sua acqua. Più su è di nuovo la pietra di questi luoghi a tornare protagonista: a Mogno nella nuova chiesa ricostruita, dopo che una valanga si portò via la vecchia.
La strada sale e dopo Fusio diventa strettissima e si arrampica nel fianco della montagna a superare la diga del Sambuco. Ci inerpichiamo su verso l’alpeggio. Sembra che la pendenza voglia ributtarci indietro. E quando penso che alla prossima curva torno indietro, si apre una valletta come un anfiteatro. Un paio di costruzioni basse, segni della presenza umana: l’alpe Campo la Torba.
Saliamo e il signor Dazio, uomo di contate poche parole, è lì a casare. Gli rubo trenta secondi e mi racconta quello che ancora non so del Valmaggia. Lui lavora con 90 mucche e 180 capre. Si perché il valmaggia ha la caratteristica di essere di latte misto capra e vaccino, è un formaggio a pasta cotta, stagionato fino a settembre in alpeggio e poi venduto con 5/6 mesi di stagionatura come fresco e fino a 12 mesi come invecchiato. Le forme sono rotonde alte circa dodici centimetri e con diametro di circa trenta, ha facce piane, un occhiatura minuta e con colorazione gialla che si accentua con l’invecchiamento. Il sapore è caratteristico e forse, a parte il latte di capra, e magari per la vicinanza del Piemonte a me ricorda un po’ il Bettelmatt, e magari ne è anche un lontano parente. Dazio ha da fare, ci manda a farci un giro nelle cantine di stagionatura.


Due tetti in lamiera ad isolare la parte superiore, vuota, delle cantine scavate nella roccia. Un operaio spazzola, non più a mano, le forme bagnandole con la salamoia.

Compriamo un pezzo di formaggio e salutiamo il casaro, torniamo indietro, si discute su come sfruttare al meglio l’acquisto: al naturale con salumi, nella polenta che non possiamo fare per ovvi motivi logistici, o in un risotto con poca cipolla soffritta e appassita e mantecato alla fine, invece che con il burro, con il Valmaggia.

Ma adesso zitti che c’è la discesa e il lago del sambuco è ancora lontano.

14 agosto 2007

Pietre, Grotti e Mortadelle

Le pietre colorate del giardino sulla strada verso San Carlo, non danno l’ idea dei colori di questa valle.
La Val Bavona è grigia. Grigia della sua pietra viva, che quando la pioggia la bagna diventa nera e lucida. Si apre quando la valle Maggia, che inizia poco distante da Ascona a nord del lago Maggiore, fa una stretta curva a destra per dirigersi decisa a nord. La Val Bavona sembra una sua continuazione. Ma quando a Bignasco si gira a sinistra e si comincia a salire con maggior decisione, ti accorgi che per quanto impossibile, la valle è ancora più diversa.

Si stringe, le sue pareti divengono più ripide, e la strada corre a ridosso del torrente che rumoreggia più in basso. Antiche frane hanno lasciato il loro segno indelebile, e agli occhi, di chi guarda oggi, non sai se l’uomo abbia costruito le case e le edicole votive, prima o dopo l’arrivo dei massi.
Lasciando l’auto e percorrendo un tratto, dei dodici chilometri circa di sentiero che misura la valle, si possono attraversare alcune di queste frane. E allora arrampicandosi per ripidi sentieri, ci si può imbattere in grotti ricavati dagli spazi lasciati tra un masso e l’altro. “Stanze” che divengono stalle in un antico percorso di transumanza dalla bassa valle fino agli alpeggi del Robiei e più su verso il ghiacciaio del Basodino. Grotti che quando sono vicini alla casa divengono addirittura fresche cantine per conservare formaggi, salumi e vini.

Dall’ inizio della valle alla sua fine si incontrano dodici “terre”. Così si chiamano i paesi delle valle. Incastonate in un paesaggio che sembra appartenere ad un altro tempo. Si susseguono con un ritmo quasi matematico, a volte in case sparse in mezzo ai prati, come Sabbione. Altre volte “accatastate” su di una curva della strada come Ritorto.
Saliamo silenziosi, a non voler rompere l’incanto della pietra, le case si confondono con le pareti di roccia. Ogni tanto incrociamo un auto a rompere il rumore dei nostri passi. La nostra destinazione è Foroglio sotto l’omonima cascata. Lì il signor Martino gestisce con la moglie il ristorante “La Froda” un grotto tipico Ticinese. Scoprimmo questa valle e La Froda quando abitavamo qui, e per noi è una tappa fissa dei nostri “ritorni”. Talmente fissa che con il menù siamo oramai ripetitivi: piatto di salumi e pizzoccheri. Martino è famoso per i suoi salumi, tutti di sua produzione, e in particolare per la sua mortadella. Un salume tipico che nulla ha a che vedere con la “Bologna dop”. Qui si ha in bocca un salame grasso, impastato con carne magra di suino e probabilmente, non l’ho mai chiesto, una parte di fegato. L’ideale è lasciarlo sciogliere su di una polenta calda condita con una fetta di formaggio Vallemaggia… ma questa è un’altra storia.


11 agosto 2007

Pecore, stalle e yogurtino

La pecora non è un animale abituale nei pascoli Svizzeri. Così prenotando un BnB Svizzero che si chiama “La Stalla” ci immaginavamo, si una stalla, ma di mucche o di capre. Invece a Cevio, a metà della Valle Maggia, ci aspetta Eva Frei con le sue pecore di razza tedesca, acquistate in terra d'origine, che in Italiano divantano “Frisone”.
Due stanze e una decina di posti letto, attaccati alla stalla dove dormono una trentina di pecore, di cui ti accorgi, se hai il sonno debole, solo verso le sette di mattina. Eva arriva a preparare la colazione, e le pecore la riconoscono. Il belare è discreto come tutti i rumori di questa valle. Prima si pensa agli ospiti: pane, burro e marmellate fatte in casa. Poi il suo yogurt di latte di pecora che con due cucchiaini di miele diventa un dolce fantastico, cremoso un sapore acidulo che non ricorda neanche lontanamente quello che ci si aspetta dal latte di pecora. Poi subito dopo inizia la mungitura, che chiaramente non possiamo lasciarci scappare, visto che della squadra fa parte anche un piccolo cane pastore, che a noi piace tantissimo :(. Un’ora due volte al giorno, per una quantità di latte che va dai 25 ai 60 litri, nei periodi migliori. Tutto “Bio” e trasformato in loco in tanti vasetti bianchi da 150 gr. Resa a differenza che con i formaggi: 100%. Da poco si cimentano anche con una formaggella con fermenti lattici da mangiare spalmata sul pane con un filo d’olio e una grattata di pepe. La produzione è talmente poca che il posto più lontano che raggiunge è Locarno: una ventina di chilometri.
Quella della Frei è la sola produzione ovina della valle; probabilmente una delle pochissime della Svizzera che non sia destinata alla produzione di carne. Mi raccontano della Toscana, e del della Francia centrale. Tutte mete che visitano per capire e per confrontarsi con produttori di lunga data. Uno yogurtino bianco al cospetto del “Pienza” o il “Roquefort”. Auguri.

06 agosto 2007

Bilanci settimanali (2)

Settimana strana quella appena trascorsa. Ultima prima delle ferie: che uno si prepara a qualcosa di tranquillo e invece si ritrova a dipanar casino come, fosse un cordaro. Ma talmente tanto che, nonostante tra poche ore si parta per le ferie, decido che il fine settimana mi devo disintossicare.

E quindi venerdì sera preparo tre zaini e decido di farmi quarantottore lontano dalla gente e dal mondo, come lo vedo tutti i santi giorni.
Mi fanno compagnia oltre al silenzio. le risa allegre di "Chi?Che?Co?Io?" e quelle del cugino "Mmmh!Boh!", fotografati alla partenza. Si sale subito, e dopo un paio d'ore siamo fuori portata da tutto tranne che dal vento. Si cammina in cresta bersagliati da raffiche che pare vogliano strapparci da terra. Capita così che mentre uno è concentrato a ripetersi che nonostante il freddo siamo al quattro di agosto, ci si imbatta, o sbatta, contro questa roba e anche questa. Che magari si è vero che il "cellulare" fa tanto comodo. Ma che è vero anche che produce più merda di tutte le vacche al pascolo che incontriamo.

Tiro un po' il passo. Le risa alle mie spalle sono scomparse, le ravvivo solo con la promessa di una tagliatella al primo rifugio della giornata. E per farlo descrivo quelle che faccio nelle domeniche autunnali. La cosa funzione. Le gambe sotto ad uno dei tavolino del rifugio di val di Ranco, gli zaini sotto un albero, una birra, un paio d'ore di riposo, e si riparte. Bosco. Fatica. Il tempo di montare la tenda, e i due chiacchieroni si infilano dentro crollando di sonno.
La cena la facciamo al rifugio di "Pian delle Macinare", fagioli con le cotiche, buoni magari come quelli di Sergiott, e un paio di grigliate e poi a dormire.

Mi sveglio presto normalmente, figuriamoci qui, ma lo spettacolo merita il freddo della mattina. Colazione veloce e abbondante e poi si comincia a scendere. il Cucco alle spalle la valle delle Prigioni davanti. Sono tre ore di discesa lungo un fiume in secca impressionante. L'unica traccia di acqua è ad una fonte che zampilla silenziosa. E passato mezzogiorno quando usciamo dalla valle. Una panchina in ombra per le ultime due chiacchiere in attesa di farci recuperare.

Qualcosa mi solletica una gamba. Il cellulare dimenticato in una tasca del pantalone ha ritrovato il segnale, e adesso sta scaricando tutti i messaggi.
Chiamate poco che è come lasciare sacchetti della spazzatura sul marciapiede.

02 agosto 2007

Il vino dei blogger #9

E' oggettivamente difficile associare quella terra al vino. A tutto pensi, tranne che la Svizzera possa produrre vino. Ed è difficile, anche, far mente locale, mentre si percorre l'autostrada verso nord, che quelle che si vedono sono vigne, a volte anche terrazzate.

Quando mi ci trasferii per lavoro, nelle "valigie" avevo messo alcune bottiglie della mia terra, dubbioso ,come tutti gli emigranti, di trovare prodotti adeguati in terra straniera. Dovetti ricredermi, prima guidato da un caro amico, e poi, stufo di essere solo appassionato di vino, quando frequentai il primo livello di sommelier, proprio in quella terra.
Scoprii così che i Ticinesi, ma magari tutti gli Svizzeri, hanno cultura del vino profonda ed orgogliosa. Stretti tra due nazioni regine d'Europa e del mondo, hanno appreso da noi Italiani le logiche dei disciplinari e dai francesi le tecniche di vinificazione. E' vero hanno una storia giovane, e una limitazione nei vitigni, ma hanno saputo "mixare" il meglio del meglio e fanno vini ottimi, in alcuni casi eccellenti.

La storia vinicola del Ticino (ri)comincia agli inizi del '900. Dopo che la filossera nella seconda metà dell' ottocento, da il colpo di grazia alla già triste produzione del paese che registrava poco meno di 18.000 ettolitri nel 1891, in riduzione del 65% in dieci anni. E qui gli Svizzeri fanno, a quei tempi, una cosa da Svizzeri: istituiscono il Servizio (di Stato) Antifilosserico e la Cattedra ambulante di agricoltura. E non sono "enti inutili" che se stanno con le mani in mano, danno il via a diversi progetti, tra cui la sperimentazione di vitigni "nostrani", resistenti alla filossera, la costituzione delle cantine sociali, e altre iniziative. Nel 1907 vengono importate, dall'Italia, delle marze di Merlot, e vengono messe a dimora 12,000 barbatelle in un vivaio di Mendrisio, tre anni dopo saranno 42,000.
Il Merlot si è sempre dimostrato un vitigno eclettico: matura abbastanza precocemente, può sovrammaturare, è ideale per assemblaggi con altri vitigni, si adatta a svariati microclimi. Senza dimenticare che dopo le gelate del '56, a St-Emilion, il Merlot diviene il vitigno principale negli assemblaggi di quel territorio. Poi magari le gelate furono un manna dal cielo visto che a Pomerol l'annata '47 dello Chateau Petrus fa storia ancora oggi.
In Ticino questo vitigno la fa da padrone, arrivando in rari casi anche alla vinificazione in bianco. Uso la guida Veronelli e conto per il Ticino 57 produttori. Tra di loro spiccano, per esperienza diretta,: Tamborini con il su "Comano", Monti con il "Rovere" vigne in Cademario e Morbio, Eric Klausener con "Gran Risavier Merlot della Svizzera Italiana" vigne in Trevano, e poi Guido Brivio con il "Riflessi d'Epoca", e ancora Gialdi con il "Sassi Grossi" merlot del Sopraceneri, e per finire con Daniele Huber, proprietario, enologo e agronomo del suo "Montagna Magica".
Tutti merlot in purezza, tranne l'ultimo che vede un assemblaggio con il cabernet, e per restare legati alla Francia i comuni e le zone che caratterizzano il vitigno: Sopraceneri, Malcantone, Mendrisiotto. E poi la barrique di rovere a dare carattere, normalmente dai 12 ai 18 mesi di invecchiamento. Per ritrovarsi nel bicchiere un liquido di colore rosso rubino, più o meno intenso, che passa facilmente al granato dopo un breve invecchiamento. Al naso sono i piccoli frutti rossi, i sentori erbacei e speziati a prevalere. In caso di vendemmie di uve molto mature emergono la prugna e profumi di cuoio. In bocca è caldo e vellutato, discretamente tannico, di corpo, e se lungamente invecchiato lascia un piacevole retrogusto amarognolo.

Ritorno ogni tanto in quella terra, mi infilo in quelle valli strette, fino a perdere il segnale del cellulare. Mi piace trovare un grotto con il camino acceso, sedermi, ordinare un piatto e una bottiglia di Merlot Ticinese. Perdermi nei racconti di un buon amico, seduto al tavolo con me. Ascoltare il vento che passa e la sera che scende, cullato in quel lieve torpore che solo il buon vino sa dare.

Il post è realizzato, con piacere, su invito degli amici del maiale ubriaco.
Alcune notizie storiche sono tratte dal libro: Il Merlot nel Ticino AA.VV Salvioni editore Bellinzona (Ch).
Il link al Petrus non è volutamente diretto, potete cercarlo all'interno del sito, non vorrei che qualcuno a causa mia, passi un ordine per una magnum di Petrus del 1947 ;)